In un’intervista del 2008, Gus Van Sant dichiarò di aver accettato di girare Will Hunting – Genio Ribelle (Good Will Hunting, 1997) perché voleva capire, lui che fino ad allora aveva diretto film di antieroi ai margini come Drugstore Cowboy (1989) e Belli E Dannati (1991), se sarebbe stato in grado di raccontare una storia con al centro un “eroe”. Di sicuro la scommessa fu vinta: tratto dalla sceneggiatura degli allora giovanissimi Matt Damon e Ben Affleck, la pellicola si tradusse nel miglior risultato al botteghino della carriera del regista, quasi 140 milioni di dollari solo in patria.
Accanto agli incassi giunsero – per merito anche, va ammesso, del produttore esecutivo della Miramax, il famigerato Harvey Weinstein, bravissimo nell’orchestrare campagne promozionali acchiappa Oscar – ben nove nomination dell’Academy nel 1998, l’anno della corazzata Titanic, pure con una candidatura personale per il regista e due statuette agli sceneggiatori e all’attore non protagonista Robin Williams.
Era stato proprio Williams a indicare, per la regia di Will Hunting, Gus Van Sant – che già dopo i suoi primi film indipendenti aveva girato una commedia nera di sapore più mainstream come Da Morire (1995, prodotto dalla major Columbia). E questo film lo si fa solitamente corrispondere alla fase più “commerciale” del cinema di Van Sant, che solo tre anni dopo, passando per quel curioso remake tra calco e sperimentazione linguistica che fu Psycho (1998), girò una sorta di variazione sullo stesso tema del suo lavoro di maggior successo, Scoprendo Forrester (2000), sostituendo alla matematica la letteratura, sempre raccontando di ragazzi di enorme talento socialmente svantaggiati.
Però certe periodizzazioni che tendono troppo nettamente a distinguere ciò che è buono da ciò che non lo è lasciano spesso il tempo che trovano. Soprattutto in una filmografia variegata ed eterodossa come quella di Gus Van Sant, pittore di formazione e con una predilezione giovanile per il cinema d’avanguardia, che si è misurato lungo la sua carriera con diversi registri stilistici, dall’approccio secco e documentaristico di Drugstore Cowboy a quello apertamente antispettacolare dell’enigmatico Gerry (2002), sino all’impassibile Elephant (2003), che trasforma il racconto della strage di Columbine in un affresco sullo smarrimento ideale del paese ed esistenziale delle nuove generazioni, resi unicamente attraverso l’uso del tempo – una cronologia rimescolata e disorientante – e dello spazio, con gli ossessivi, labirintici corridoi sempre uguali che rimandano all’assenza di un orizzonte alternativo, meno asfittico, in cui muoversi.
Eppure, nonostante le pur notevoli differenze stilistiche tra un film e l’altro, nel cinema di Gus Van Sant non viene mai meno l’attenzione ai più giovani e a chi è in varie forme discriminato, cosa che permette di raccordare tematicamente anche le opere cosiddette commerciali ai progetti più personali. Anche in Will Hunting, in una sceneggiatura certo più edulcorata, il protagonista Will (Matt Damon) è un ragazzo difficile che, a ben vedere, nonostante i suoi sconfinati talenti pare tutt’altro che un eroe. Ha vent’anni, è un orfano passato attraverso vari affidi terribilmente problematici, vittima di violenze domestiche, ormai chiuso a riccio in sé stesso, diffidente e senza una visione chiara del proprio futuro. Viene dai quartieri proletari di Boston, come lavoro fa le pulizie al Massachusetts Institute of Technology e per il resto del tempo bighellona con gli amici di sempre – tra cui i fratelli Ben e Casey Affleck –, cazzeggiando, cercando di rimorchiare le ragazze o, più spesso, mettendosi nei guai.
Dietro questa maschera si nasconde però un genio della matematica – in realtà un genio di qualunque cosa –, che viene casualmente scoperto dal professor Lambeau (Stellan Skarsgård), il quale cerca di indirizzarlo a coltivare il suo talento. Essendo appena uscito di prigione dopo l’ennesima rissa, l’accordo col tribunale prevede che il giovane debba seguire una terapia psicologica. Dopo vani tentativi con presunti luminari che Will prende apertamente per il naso con la sua intelligenza superiore, la soluzione è in un vecchio amico dei tempi del college di Lambeau, lo psicologo Sean McGuire (Robin Williams), con alle spalle una complessa storia personale e il recente lutto della moglie, morta di cancro.
La sceneggiatura di Damon e Affleck è sostanzialmente ottimistica – Will riuscirà a superare i suoi demoni – e furbescamente anticonformista – nel senso che il “successo” del protagonista non coinciderà necessariamente con la sua integrazione nel modello sociale che predica competizione e individualismo. Però sotto questa patina tonificante si cela il racconto di una generazione senza padri in cui, se non coniugata alla capacità di entrare in contatto con la sfera emotiva e di giovarsi dell’esempio di figure adulte, persino un’intelligenza fuori del comune invece che viatico all’emancipazione diventa uno strumento che ostacola la maturazione.
Will Hunting forse sulle prime immagina che questa figura genitoriale putativa possa essere Lambeau, che gli accarezza paternamente la testa quando lo vede risolvere un astruso problema matematico. Il professore però è capace di nutrirne unicamente il talento, mentre Will ha bisogno di ben altro. Sarà solo l’incontro con Sean, ferito come lui e interessato non al genio, ma all’essere umano, ad aprire una breccia nelle sue chiusure patologiche.
All’epoca la prova di Robin Williams, in una variazione sul personaggio del professor Keating de L’Attimo Fuggente, fece arricciare il naso a più di un critico (“A me sembra perennemente, scivolosamente sdolcinato”, scrisse per esempio Irene Bignardi). Eppure oggi è difficile non pensare con nostalgia a questa interpretazione, non solo per il senno di poi circa il destino dell’attore, ma anche perché, a ben guardarlo, il tentativo di Gus Van Sant fu proprio quello di temperarne gli eccessi, alla ricerca di un’asciuttezza che risalta nei piccoli dettagli, quando quasi si addormenta aspettando che Will cominci a parlare, o in quei lampi malinconici nello sguardo improvvisamente taciturno. Ed è proprio allora, mostrando una stilla di umanità senza schermi e sovrastrutture, che l’attore Williams conquista lo spettatore, e lo psicologo Sean apre una breccia nelle difese di Will. Che vengono incrinate anche dal rapporto con Skylar (Minnie Driver in un ritratto femminile ammirevolmente parco di stereotipi), la studentessa di cui s’innamora – e da cui, inevitabilmente, è spaventato.
A quasi venticinque anni di distanza Will Hunting ha retto la prova del tempo. Hollywoodiano sì, nella chiarezza dei rapporti tra i personaggi, nei climax emotivi scolpiti, nella rappresentazione spettacolare del processo terapeutico. E però anche attraversato da angosce e smarrimenti – e improvvisi lampi di ironia – che suonano autentici. Cosa che accade grazie al talento degli attori (con i bravi Damon, Affleck e Driver in primo piano) e alla capacità di Gus Van Sant di confezionare un contesto che rende credibile la vicenda. Con gli ambienti quotidiani e proletari di Boston, il chiacchiericcio interminabile degli amici di Will sempre sul filo della provocazione (è il modo ai loro occhi “virile” di dimostrare affetto), la fatica di una fiera vita operaia che sai già non offrirà sbocchi. E allora no, pur non essendo il capolavoro del regista (per quello darei la palma a Drugstore Cowboy o Elephant), Will Hunting non è certamente un’opera di servizio. E resta a tutti gli effetti “un film di Gus Van Sant”.