“Avete mai provato a combattere contro una leggenda?”. Lo sceneggiatore James Goldman si permette anche il lusso di indovinare una di quelle battute indimenticabili che fanno la storia del cinema, all’interno del raffinato script di Robin e Marian. Un film che, a 45 anni di distanza, uscì nel 1976, resta un piccolo miracolo di equilibrio tra ironia, romanticismo e fatalismo.
Un risultato che va ascritto naturalmente anche alla regia elegante e capace di giostrarsi tra i vari registri del racconto di Richard Lester, che sin dai tempi del free cinema britannico aveva dimostrato di saper tenere in equilibrio una certa serietà di fondo con uno stile graffiante e svagato. Che qui trova un tono, come ha scritto Emanuela Martini nella sua Storia Del Cinema Inglese, di “tristezza quieta”, in “un omaggio al passato e all’impossibilità tremenda di riviverlo che ha certamente molti echi nella vita personale di Lester“.
Robin e Marian è attraversato da una malinconia manifesta, che è appunto, la malinconia del tempo che passa, che lascia cicatrici indelebili e allo stesso tempo memorie che sembrano sfuggire al ricordo come sabbia tra le mani. Le cicatrici, profondissime, ben incise sul suo corpo, sono gli effetti delle ferite accumulate in vent’anni di battaglie da Robin Hood (Sean Connery), ritratto invecchiato – questo l’intrigante assunto della sceneggiatura – , lontanissimo dall’immagine splendida delle sue avventure giovanili nella foresta di Sherwood contro lo sceriffo di Nottingham.
- Sean Connery, Audrey Hepburn, Robert Shaw (Actors)
Le cicatrici le ha anche Marian (Audrey Hepburn), la donna che lo ha amato disperatamente due decenni prima, e che quando lui è partito per le crociate, fedele al re Riccardo Cuor di Leone, ha deciso di togliersi la vita. Non riuscendoci, è diventata una suora. Così, tanti anni dopo, la ritrova Robin, tornato a casa dopo una vita di peregrinazioni dopo la morte del re, insieme all’amico fidato d’una vita, Little John (Nicol Williamson, che riveste un ruolo molto importante nella vicenda).
Le tracce del tempo sono segnate sulla loro carne e anche nelle loro menti. Eppure nel loro sguardo resta ben più di qualcosa dell’antica passione, per quel principio secondo il quale “i desideri non invecchiano quasi mai con l’età”. Marian con indosso la veste monacale sembra non ricordare più nulla della vita rocambolesca d’una volta, ma ha ben chiara la natura di un sentimento che invece, sebbene seppellito dolorosamente nel fondo del suo animo, non è mutato di un’oncia. Da parte sua, meno consapevole, ancora infantile e guascone, nel ritorno a casa Robin vive ancora l’illusione di essere l’uomo di un tempo, l’anarchico libertario capace soltanto con l’alone della sua leggenda di entusiasmare i contadini e convincerli a ribellarsi al cattivo. Che è sempre lo sceriffo di Nottingham (Robert Shaw), anche lui in un certo senso avvinto al passato, desideroso di ritrovare il nemico di sempre.
Robin e Marian è circonfuso di un’atmosfera elegiaca, ma è anche molto lucido nell’analizzare la stoffa di cui sono fatti storia e personaggi. Il racconto comincia nel segno di una cupezza estrema, quasi tragica, con le immagini di alcuni frutti marci e un uomo privo di un occhio che mette paura. Poi però il film tocca con gran libertà una tastiera variegata di toni. Il ritratto volutamente gigionesco e terminale di un Riccardo Cuor di Leone (Richard Harris) ormai sadico e quasi pazzo la dice lunga sulla natura perversa del potere. E infatti, con un tocco di grande finezza, una volta morto, Lester film il suo funerale in campo lunghissimo, e il tronfio sovrano che credeva di comandare il mondo è mostrato per ciò che era, un puntino minuscolo, lontano e insignificante, annegato in uno scenario arido e roccioso molto più vasto di lui e di tutti noi. Ed è ridicolo il re Giovanni (Ian Holm), che con pomposa serietà minaccia di uccidere tutti i preti che metteranno piede in Inghilterra, e subito dopo non sa resistere all’invito al talamo nuziale della sua sposa dodicenne.
Robin e Marian è perciò pure grottesco e demistificante, con quello stesso smontaggio dell’alone leggendario già usato nel precedente film di Lester, I Tre Moschettieri, in cui invece delle eleganti danze in punta di spada dei film hollywoodiani, i duelli venivano mostrati nella loro realtà di volgari zuffe in cui qualunque espediente era buono. Quando il bardo canta le gesta immortali di Robin, è l’eroe stesso a sottolineare che quelle avventure sono tutte inventate. Eppure in qualche modo ormai ci crede pure lui. Come crede di poter riavvolgere il nastro del tempo, riconquistare la donna della sua giovinezza, riconquistare Sherwood – “Questa è la mia foresta, qui vivo come piace a me” –, essere ancora e per sempre un eroe.
Marion cerca di ricondurre queste fantasticherie alla realtà, non riuscendo comunque nemmeno lei a sottrarsi al fascino fanciullesco e immaturo del suo uomo, e quindi del mito. Che è in sostanza il mito dell’amore. Sino a un finale che è un capolavoro di romanticismo insieme disperato, pacificato e consapevole. Perché l’unica cosa che è impossibile sottoporre al trattamento demistificante è proprio il sentimento. Bisognerebbe dire qualcosa naturalmente sui due protagonisti, uno Sean Connery che all’altezza degli anni Settanta era ormai un interprete ricco di sfumature, lontanissimo dall’immagine monodimensionale di James Bond; e la sorpresa Audrey Hepburn, tornata dopo quasi dieci anni a girare un film. Possiamo solo dire che non sbagliano un colpo: e che il mito che racconta questo film non è solo quello di Robin e Marian, e vive, duplicato, nel mito dei due attori.