Lo credereste? Charlie Watts ha 80 anni. Proprio oggi, sì. E no, non lo credereste perché Charlie è sempre stato più anziano – vecchio mai, old fashoned sempre – di quanto sembrasse. Fin da quando, nel 1963, piantò il lavoro di grafico pubblicitario per unirsi a un gruppo di teppisti di belle speranze. Pochi mesi dopo prendeva moglie, Shirley, ed è sempre rimasto con lei ed è diventato nonno e bisnonno. Come gli altri del gruppo, ma senza cambiare mai né compagna né abitudini. Il fatto è che i Rolling Stones, la band più malfamata di tutti i tempi, hanno sempre vissuto di questa dicotomia: da una parte le escandescenze dei Mick Jagger, Keith Richards, Brian Jones, finché ha retto, e poi Ron Wood, e anche Bobby Keys, il sassofonista texano nato lo stesso giorno mese e anno di Keith; dall’altra, la calma sottotraccia di Charlie, di Bill Wyman, del povero Ian Stewart.
Watts ha sempre avuto due lavori, uno ufficiale, l’altro una specie di hobby: ed era fare il batterista con gli Stones; la professione vera è quella di jazzista, che viene molto prima e sopra ogni altra cosa. Dal 1969, alla fine di ogni tour, giura che è l’ultimo, che lui ne ha abbastanza: sono arrivati al 2021 e, se non torneranno in pista, sarà solo per colpa del Covid che ha imbavagliato il pianeta. Non certo sua, che ogni volta ha lasciato ed è tornato. Perché, vedete, Charlie dei ragazzi è il motore: lui non suona intorno al tempo, lui suona sul tempo. Sempre. “Il migliore dei migliori”, secondo Keith, ma la critica lo ha sottovalutato a lungo prima di rendergli il tributo che gli spetta, perché non gli interessano i numeri pirotecnici, le dotazioni faranoiche: eccolo lì, sul palchetto coperto da un tappeto, in mezzo alla sua Gretsch: cassa 22′, tom 12”, timpano 16”, rullante 5 x 14”, piatti Ufip Zildjian, bacchette Vic Firth: “Sono splendide se le suoni in tutta la loro lunghezza”.
È tutto lì, non serve altro. Charlie è un jazzista, cura le sfumature, il centimetro sulla pelle che crea un altro suono e dunque un’altra atmosfera. E davvero non importa che se ne accorgano gli altri, la musica è una faccenda personale, e il batterista è uno al servizio degli altri. Gente escandescente come Bonham, come Moon, negli Stones non sarebbe durata un mese; lui con Wyman ha creato una sezione ritmica unica, il bassista rivestiva di progressioni irripetibili i battiti di Watts e ci sono brani letteralmente trasfigurati dalle sue linee: se le senti da sole, capisci quanta oscurità contengono. Gli Stones, raccontò una volta Bill, non seguono la batteria, seguono la chitarra ritmica di Keith; il risultato è una pulsazione continua, un ritmo che “sembra sempre cadere e non cade mai”. Ed è una spiegazione che fa capire come, alla fine, i Rolling Stones siano una jazz band solo più dura. Dopo l’abbandono di Wyman, nel 1991, i Rolling Stones non sono più stati gli stessi.
Charlie, da parte sua, invece non è mai cambiato. Passavano le decadi ma lui se le faceva scivolare addosso; giusto un accenno di punk nei capelli, a fine settanta. Ma gli altri davano di matto, cambiavano look, lui, fuori dalla scena, sempre il suo impeccabile completo di Savile Row: perché la Regina non lo ha fatto baronetto, anche a lui? Niente ammucchiate, niente botte da matto. Nel 1972 il gruppo è ospite di Hugh Hefner, il boss di “Playboy” e giustamente se la spassa con le conigliette. Solo Charlie preferisce restarsene tutto il tempo in sala giochi, almeno fino a che Keith e Bobby Keys, strafatti in un bagno, non appiccano un incendio che arde l’intera residenza, una storia alla Nerone. A Watts queste stronzate hanno sempre dato un gran fastidio.
Niente cazzate, niente bravate e niente golf: i cavalli, quelli sì. Capace di scendere in Toscana a prendersi un purosangue valutato centinaia di milioni. E quella mania, o vezzo, di dipingere ogni stanza d’albergo in cui si è fermato, anche solo una notte: in sessant’anni, quell’album è diventato una galleria di momenti tra il Novecento e il secolo successivo, anche perché gli Stones, che fanno attendere un disco nuovo da 16 anni, non hanno mai suonato tanto in giro come dal Duemila.
“Stone face”, faccia di pietra. Nessuno scherza con Charlie, a meno che non gli venga permesso. Per forza, se devi reggere con quei tipi lì, devi essere un duro a modo tuo. A cominciare dalla battute, secche come scudisciate. “Eh, Charlie, 25 anni con gli Stones…”. “Già: 5 anni a lavorare e 20 a fare un cazzo”.
Ogni volta, alla fine di una tournée, Jagger lo chiama al telefono, gli fa gli stessi inutili infiniti discorsi, “sono venuto a sapere che hai detto che esci, ma no, ma cosa ti sei messo in testa, ma come facciamo, ma non puoi, ma non pensi ai soldi che ci sono ancora in ballo, ma sei uno dei tre fondatori, ma tu sei il gruppo, ma…”. Watts ogni volta lo ferma con due parole due: “Not true”, non è vero. Poi riappende. Unica volta in cui ha perso la strada, a metà degli Ottanta, quando il gruppo era praticamente esploso per il cozzare degli immensi ego dei due capotribù, Mick e Keith. Charlie casca nel vortice dell’eroina a 45 anni, così salutato da Richards: “Non è mai troppo tardi, amico”. Ne esce da solo, dopo un po’: non gli piace non avere il controllo su di sé. Anni dopo gli scoprono un cancro in gola – gli Stones, anche quelli tranquilli, non hanno mai vissuto vite precisamente salutari e anche Charlie ha le dita gialle di nicotina. Lui non dice niente a nessuno e, quando, con suo enorme fastidio, la faccenda trapela, si limita ad una preghiera perentoria: “Non guardatemi come fossi già morto”.
“Sa parlare!”, lo sfotte – con rispetto – Mick quando lo presenta ogni volta all’immenso pubblico di ogni concerto: e l’ovazione per Watts supera quella di tutti gli altri. Lui accenna un inchino, impacciato, infastidito, fate vobis, non me ne frega niente, e torna dietro ai tamburi, si siede e dai pantaloni un filo troppo corti, come moda jazzistica comanda, si vedono i calzini rigorosamente intonati alla maglietta. È tutto qui, non serve altro. Eppure gli Stones – solo un’altra favola di ordinaria follia nella eccitante vita della band più esagerata di tutti i tempi – hanno rischiato di finire proprio per lui. Jagger per poco non finiva ammazzato proprio da lui. Accadde nel 1984 ad Amsterdam. I due “gemelli scintilla”, Jagger e Richards, sono appena tornati in albergo da una notte di casini, sono le 5 e Mick propone: “Perché non chiamiamo Charlie? Magari ci mettiamo a suonare un po’…”. “Lo sai com’è lui” commenta Keith “a quest’ora dorme, lascia stare”. “Beh, io lo chiamo”. Stacca la cornetta e, ubriaco, bofonchia: “Ehi! Dove cazzo è il mio batterista?”. “Chiarlie non fa una piega. Non risponde. Si alza. Si veste di tutto punto. Si mette pure l’acqua di colonia. Poi va a bussare alla stanza di Mick. Quando quello gli apre, lui gli spara un cazzotto dritto in faccia. C’è la finestra aperta e Mick, dopo aver travolto un piatto di salmone, sta filando giù dal ventinovesimo piano; lo salva Keith, lo afferra per una gamba “eh, ma portava la mia giacca, mica potevo sciuparla così”. Con Jagger ancora groggy, Charlie gli spiega: “Non provare mai più a chiamarmi il tuo batterista; sei tu il mio cantante del cazzo”. Esce e se ne torna a dormire. Immaginatevi, l’indomani, i titoli dei giornali: Jagger muore spiaccicato volando dalla finestra dopo una rissa con Watts. E ci saremmo persi 40 anni di Rolling Stones, comprensivi di tutto. No, non sei troppo vecchio, Charlie. Non lo sarai mai. Ottant’anni senza perdere un colpo. Grazie per ogni battito, perché il cuore è quello tuo ma fa pulsare il nostro.