Che Franco Battiato fosse nel baratro dell’oblio, afflitto da una malattia degenerativa, si sapeva, da anni, tutti lo sapevamo e il pudore ci frenava. Ma se c’è una cronaca di una morte annunciata, questa è proprio la sua: fioriscono i necrologi, ma Battiato, il siciliano, se n’era già partito da gran tempo. Di lui resta una parabola artistica complicata, anche pretenziosa, anche furba, dagli sperimentalismi degli esordi ai successi popolari degli anni ’80 che nessuno ha mai capito se fossero operette morali o esercizi di estetica; di lui si rievocano i momenti storici, il Cinghiale Bianco e La Cura, la doglianza di Povera Patria e lo sbeffeggio del Cuccuruccuccù che ricamava immaginari anche sociali. Qui ci piace tornare sull’ultimo capitolo originale, l’ultima eredità che, nel 2014, andava a chiudere un cerchio esoterico. Allora, dopo 40 anni, Battiato riannodava le sue spirali con un lavoro definito elettronico, quando era molto altro. Criptico e liberatorio, Joe Patti’s Experimental Group ritornava a un futuro remoto, a certe suggestioni primissimi anni Settanta, quando l’unico limite era non osare e “sperimentale” era un contenitore grande come l’universo ed era un imbuto per cui travasare qualunque bizzarria. Nuovi mondi, nuove possibilità elettroniche che 4 decadi dopo diventavano sconfinate. E allora, nel Joe Patti’s, certo qual imprendibile kraut rock dove potevi trovare, ad esempio nelle suggestioni classicheggianti di Omaggio a Giordano Bruno, i Popol Vuh di Hosianna Mantra, passaggi epocali alla ricerca ciascuno della propria India.
Quel nuovo-vecchio circolare fatale Battiato, che s’intitolava ad uno “zio d’America” realmente vissuto, che ricuciva arabeschi col fidato ingegnere-produttore Pino “Pinaxa” Pischetola, chiedeva alla polvere del tempo un tempo che non c’era più; Joe Pattis’ Experimental Group suonava, come suona, clamorosamente agée per quanto algido, nitido, digitale. Algido, non frigido: c’era dentro un siciliano di Milano col suo vulcano mentale, spirituale, creativo. Calor di lava uscito dal suono sintetizzato, di tasti, di tastiere, di pianoforti. Forse Battiato sapeva: questo ero, così me ne andrò.
Dentro al cerchio c’è una vita. Cominciata con l’avanguardia intrasmissibile nelle radio, esplosa a fine anni Settanta col pop radiofonico, sussiegoso e astuto, spalancatasi sulla scia di ogni corrente: altro pop, nuove derive elettroniche, classiche, rock, colonne sonore, regie, in una voracità artistica e culturale anomala per i nostri confini, inusuale dispersione, ambizione e presunzione e citazionismo forsennato.
Esauriti, sfiniti i contagi, i connubi, forse già minato, Battiato tornava all’assoluta libertà nietzchiana di essere chi era. In quel Joe Patti’s capita di confondersi in un titolo, CERN, che evoca aride meccaniche quantistiche e si rivela poi d’una vaghezza liturgica, non così distante – ma più dolce, più bella – dalla Lux Aeterna di Ligeti prima d’aprirsi in un inaspettato battito sintetico. Ma nell’Isola Elefante si possono volendo rintracciare vocalizzi dal sapore degli Uomini Celesti di battistiana matrice. E così via, in una caccia ai tesori appassionante e ostica, che solo chi conosce a menadito la musica poteva concedersi. La presunzione di Battiato! Ma senza presunzione un artista non è destinato ad arenarsi in “pareti del cervello senza più finestre”? La libertà di Battiato: osare, esagerare e esacerbare, partire per tangenti, finir sopra ogni riga: all’aurora dei settant’anni, uno questo diritto se lo è guadagnato; l’importante è ribadirlo in limine mortis. L’artista etereo, esoterico, enigmatico aveva capito molte cose concrete: che senza il complice Sgalambro non poteva più fare certi giochi, che le scadenze esistenziali incombevano, che il mercato non esisteva più e dunque tanto valeva fottersene meglio che mai. Allora, se invecchiare è, schopenhauerianamente,, scoprire giovinezze perdute, se il mercato appassisce e la tecnologia rigoglia come una foresta cannibale, perché non permettersi operazioni oltre la soglia della nostalgia poiché intinte di prospettive. Diciamo la verità, Battiato con quel suo atteggiarsi a mistico-politico stava anche stancando, pareva rinchiuso in qualche sua canzone, un bonzo alla corte dell’imperatore. Oggi è fatale esaltarne proprio quegli eccessi di consapevolezza – “Franco aveva capito tutto, come faremo senza di lui?” – ma la confusione del momento politico aveva ghermito egli pure. E allora, vivaddio, con l’epitaffio creativo di Joe’s Patti Experimental Group tornava la primigenia, giovanile incoscienza e questo ci piaceva. E ci piaceva la chiusa, affidata a Proprietà Proibita, che a 40 anni suonati s’era italianizzata, ha perso l’esotismo di Proprietad Prohibida con cui affiorava dall’album Clic. Dove l’ho già sentita? Ma non è la siglia del glorioso Tg 2 Dossier? Sì, ragazzo, ma oggi Battiato ha qui qualcosa di nuovo per te. Nuovo perché fuori tempo, fuori dal tempo, nuovo perché non hai idea. Perché la musica, quando è un affare serio, non è che invecchia, diventa circolo, diventa eredità. Anche se poi nessuno la raccoglie. Dagli tempo, magari fra cinquant’anni. Cambiano i giocattoli, non le vibrazioni. Magari Franco Battiato lo sapeva e questo era il suo modo di fartelo sapere.