Non ero preparato a tutto questo. Non ero preparato perché, in fondo, non volevo esserlo. E dire che di segnali ne erano arrivati parecchi, tutti a indicare la medesima direzione, ineluttabili. È morto Franco Battiato, settantasei anni compiuti da poco, nella sua casa di Milo. La notizia arriva di mattina presto, lanciata da Rockol e presto confermata dalla famiglia. E io non ero preparato.
No, non sto parlando di un coccodrillo, così si chiamano quegli articoli in memoria di un personaggio noto, pronti da essere pubblicati alla sua morte. Uno di quegli articoli che ne ripercorrono a volo d’angelo le imprese, le opere, nel caso di Battiato potremmo anche parlare di miracoli, almeno musicali e culturali. Non ne ho mai scritto uno, di coccodrillo, non avrei certo voluto fare eccezione per un artista che stimo, e non sto tirando in ballo la scaramanzia, sia chiaro, parlo di rispetto. Sto parlando proprio di me, non ero pronto a ricevere una notizia del genere, non in una rara giornata di sole, realmente primaverile, non dopo poco dalla notizia della morte di una delle artiste che con Battiato più a collaborato, e che con Battiato, mia opinione, ha dato il meglio di sé, Milva. Non ero pronto perché, in fondo in fondo, non volevo credere ai segnali piuttosto evidenti di una fine imminente, per quanto nessuno avesse mai dato conferma della sua malattia, sicuramente non la famiglia o i suoi stretti collaboratori, quella sua scomparsa dalle scene risalente ormai a quasi tre anni fa poteva essere il segno di un invecchiamento precoce, magari, o di una volontà di starsene appartato in una Italia divenuta nel mentre così presenzialista e volgare. Non ci volevo credere perché pensavo, povero stolto, che un genio fosse in quanto genio come protetto dai mali, quelli che lui stesso diceva di poter tenere lontani dal suo amore ne La Cura, una delle sue canzoni più note. Ma soprattutto non ero preparato perché l’idea di perdere una voce così importante mi sembrava evidentemente troppo, specie dopo tutto quello che abbiamo vissuto, un lutto pubblico che nei fatti è un lutto personale, mio e immagino di molti tra quanti mi leggeranno.
In questi casi si dice che chi resta è più povero e più solo, intendendo con quel “più povero” non certo una condizione economica, ma spirituale, culturale. Mai come nel caso di Battiato, una anomalia nella nostra discografia, un caso a se stante, capace di portare in vetta alle classifiche e dentro le case di una quantità impressionante di ascoltatori dischi affatto semplici, con testi che dietro quell’apparenza non sense nascondevano e nascondono tesori ricchissimi, i continui riferimenti a culture altre, il mescolamento ossessivo di testi alti e di riferimenti scanzonati, quel vezzo di inserire versi di canzonette dentro le proprie canzoni, vere e proprie scatole cinesi capaci di contenere, tre, quattro, cinque piani di lettura differenti.
Non voglio star qui a fare un coccodrillo, però. Perché ne stanno giustamente uscendo a decine, a centinaia, come è normale che sia quando muore un artista di tale grandezza e fama, e perché voglio augurarmi che tutti sappiate quel che c’è da sapere a riguardo. Non voglio neanche fare quel che faccio solitamente, cioè tirare in ballo le mie esperienze personali, non è il momento dei personalismi.
Di fatto, come nel caso di Lucio Dalla, stessa capacità di giocare coi generi, stessa potenza comunicativa, stessa volontà di rendere comune quel che comune non è, Franco Battiato è stato, è ancora a dirla tutta, perché gli artisti non sono destinati a morire con l’uomo, un rarissimo esemplare di artista rinascimentale sputato da un Dio benevolo nel mondo d’oggi. Sperimentatore musicale, grande autore di hit, compositore classico, regista, saggista, per certi versi asceta.
Cercando conferma della sua morte, oggi ci si muove prevalentemente sui social, non dico nulla di nuovo, ho notato che molti hanno dato la notizia ferale usando il verbo “spegnersi”, usanza garbata per nascondere dietro la delicatezza la brutalità della morte. Ho sempre trovato questa consuetudine sciocca, e non certo perché non ritenga la morte qualcosa di sufficientemente duro da necessitare tutte le cure e i balsami possibili, ma proprio perché ritengo che chiamare le cose col suo nome sia un giusto tributo a un passaggio della vita come questo, radicale, per alcuni definitivo. Franco Battiato è morto, quindi, e forse la sua mente era morta già da tempo, questo si diceva nei corridoi, qualche volta questa voce usciva e veniva gridata, sempre nel riservo di chi però aveva a cuore la sua tanto amata privacy, la sua musica credo resterà ancora a lungo.
Fa però strano accostare la parola morte a un artista che così tanto ha cantato di spiritualità, spiritualità declinato al plurale, per altro, nelle sue opere. Perché la morte è cosa terrena, lo spirito, come la musica, vola più in alto.
Non ero preparato, maledizione, sto faticando a riordinare le idee, come succede quando una notizia inattesa ci coglie di sorpresa, o meglio, come quando una notizia di cui temevamo l’arrivo da tempo, poi un giorno arriva davvero. Vorrei raccontare di come mi sia messo a leggere la biografia di Padre Matteo Ricci dopo aver scoperto, casualmente, che era lui il gesuita euclideo vestito come un bonzo alla corte dell’imperatore, o parlare degli scritti di Giuseppe Tucci che mi sono piovuti addosso cercando i riferimenti del suo Gigalmesh. Vorrei parlare di come rimasi sconvolto, da ragazzino, nel vedere quel tipo con quel nasone ballare con dei sandali e un buffo codino dentro il mio televisore, e scoprire, poi, che quel nasone arrivava da una brutta botta presa andando a sbattere contro un palo, portiere disattento in una partita di pallone, a riprova che il calcio è faccenda alta, altissima, checché se ne dica. Vorrei parlare di come prima che arrivasse internet io abbia passato pomeriggi interi a sfogliare Conoscere, prima, e le enciclopedie più serie nella Biblioteca Benincasa di Ancona, per cogliere quello che percepivo non fosse solo un testo buffo, un insieme di testi buffi, il ricordo leggero di un’intervista tv fatta con Corrado Augias, entrambi a sostenere che il mondo ruotasse intorno all’eros, togliendosi sostanzialmente di mezzo, vorrei parlare de Il violino e la selce, di come Battiato abbia dato una defibrillata alla mia città, Ancona, e alla mia Regione, le Marche, portandoci artisti enormi che altrimenti non avremmo mai visto, da Nyman a Bijork, e mostrare la fotografia di lui che fa i cori a un concerto in quel contesto dei Bluevertigo, proprio a pochi passi da dove io, ragazzino, giocavo a pallone, all’ex maneggio della mia città. Vorrei dire di come l’ultima volta che l’ho visto cantare dal vivo, ultima di una lunga serie, a Sirolo, fosse già malconcio, sul palco con un K-Way a suonare e cantare le sue canzoni del periodo sperimentale, Pinaxa a fare sul palco i suoni con lui, mio figlio Tommaso, nove anni all’epoca, a chiedermi quando sarebbero arrivate tutte quelle canzoni che ascoltavamo sempre in macchina. Vorrei, e questo credo potrebbe essere necessario, sottolineare come un successo tardivo come il suo, arrivato quasi a quarant’anni, quarant’anni fa, per altro, oggi sarebbe non solo impensabili, ma quasi scandaloso, soffermarmi sul miracolo di far passare per leggero quello che leggero non è, semplice quello che è dotato di grande complessità, pensate a uno che pubblica una canzone che parla di attualità intitolandola Inneres Auge, o andatevi a vedere la puntata di 33 Giri Italian Master dedicato a La voce del padrone, scoprite quanto tutto fosse incredibilmente sovrastruttura, pur non lasciando che questo pesasse all’ascoltatore.
Questa nostra epoca, che a molti sembra moderna, ma che nei fatti è regredita incredibilmente verso uno stadio da medioevo oscuro (non tutto il medioevo è stato oscuro, non confondetevi), poco si addiceva a un artista che giustamente tutti chiamavamo maestro, la attualità di tutte le sue canzoni, anche nei suoni, non solo nella genialità dei testi, ascoltare per credere, in qualche modo ce lo ha fatto sentire vicino, pur essendo chiaramente fuorisincrono rispetto a questa frammentazione di linguaggio, questa parcellizzazione dei discorsi, questa costante richiesta di nuovi stimoli, continui, quando di stimoli ce ne sarebbero già a sufficienza.
Non ero preparato, e non credo riuscirò oggi, istanza divenuta mestamente presente, a ascoltare la sua musica, cosa che ho sempre fatto, con continuità, negli ultimi quarant’anni. Non condividerò video, adotterò il silenzio, la dinamica, che è gioco tra suono e silenzio, è una delle sue peculiarità più evidenti, in questa epoca di omologazione delle frequenze.
Pur considerando la morte di Battiato, la sua assenza che da oggi si radicalizza, si sedimenta, una perdita devastante per la nostra cultura, voglio augurarmi che chi oggi muove le cose della musica, incapace anche solo di ipotizzare una carriera simile, a prescindere dall’incontrare o meno un talento simile, possa riflettere su dove la musica sia andata a finire. Ricordo bene i discorsi fatti riguardo che fine avrebbero fatto artisti come lui ora che la musica si muove con lo streaming, il pensare in che modo chiudere un contratto d’altri tempi, “quando ancora i dischi si vendevano”, e posso solo immaginare l’imbarazzo e il disagio, oggi, nel realizzare di che portento si stesse parlando così, con supponenza e superficialità.
Ho sempre trovato buffo un passaggio de La cura, canzone che per intendersi è, al pari di Karma Police dei Radiohead, la colonna sonora del mio filmino di nozze, quello in cui la voce narrante, Battiato, parla al proprio interlocutore descrivendolo come fragile e difettoso, ipocondriaco e di umore instabile, destinato a ammalarsi, a morire. Un testo che solo superficialmente si può leggere come una canzone d’amore terreno, che cioè esuli lo spirito. Un testo nel quale, a un certo punto, arrivano dei versi davvero incomprensibili al primo ascolto, e confesso anche oggi, quel “vagavo per i campi del Tennessee, come vi ero arrivato, chissà”. A colpirmi la anomalia di inserire un riferimento così preciso, il Tennessee, immagino metafora di uno spazio sconfinato, libero, anche se poi oggetto di conquista, dentro una canzone che ambiva a essere comunque una perfetta hit pop, appena stemperata da quel “vi”, usato al posto di un più canonico “ci”, un vezzo linguistico capace di distrarmi, come del resto la lingua dovrebbe sempre saper e poter fare.
Non so se ora Battiato sia spirito e vaghi per i campi del Tennessee, o se sia corpo destinato alla decomposizione. Ambisco a credere più alla prima ipotesi, con pure una mia idea personale di come vi sia arrivato. Grazie per la musica, maestro, e per le parole.