Ha un che di maledetto, la morte di Chris Cornell. Una maledizione che è tutta della stampa, che mutua la parola “maledetto” dal decadentismo che è proprio della letteratura dell’Europa per riproporla al mondo del rock. Un vocabolo che viene usato da ben due secoli ma che oggi viene frainteso, reinterpretato e usato a sproposito.
Chris Cornell di maledetto non ha nulla, non un endorsement a Satana né una manifesta tendenza al libertinismo, all’esaltazione delle droghe o alle bracciate nell’alcol. Lui è la voce dei Soundgarden, degli Audioslave e di se stesso, e proprio questo, un quarto dopo la mezzanotte del 18 maggio 2017, lo coglie impreparato. Poche ore prima, il giorno 17, pubblica il suo ultimo tweet. Si trova a Detroit con i Soungarden e lì, nella Rock City, al Fox Theatre chiude il concerto con la cover di In My Time Of Dying dei Led Zeppelin.
Sono le 23:30 e il concerto è terminato. Chris infila l’ingresso dell’MGM Grand Hotel e saluta la sua guardia del corpo Martin Kirsten. Entra nella stanza 1136 e chiude la porta. A Miami c’è sua moglie, Vicky Karayannis, gli telefona per un problema alle luci dell’appartamento che solo Chris può risolvere grazie al controllo in remoto da un’app. Suo marito, però, è strano: biascica le parole, è nervoso, dice che un errore del fonico del palco gli ha rovinato la voce. Dice di aver preso due Ativan per calmarsi, è aggressivo e Vicky si preoccupa.
Per questo Vicky chiede al bodyguard di accertarsi che il marito stia bene. “Butta giù la porta, se necessario”, gli dice. Sì, è necessario. Chris non risponde al richiamo esterno e Martin sfonda la porta. Chris non c’è, resta solo il bagno. Martin anche quella porta e Chris è lì, privo di sensi.
Diranno che sono stati i farmaci, che Chris si fosse ficcato qualcosa in vena, ma non è vero. Chris si è impiccato, ha lasciato questa Terra in preda al terrore.