Non ho mai trovato affascinante l’epica dello scrittore. Nel senso, non ho mai guardato allo scrittore come a una figura distante, l’intellettuale accademico, quello che gira per casa in vestaglia, bevendo cognac e fumando un sigaro, e che passa le serate su una poltrona in pelle sfogliando i classici. Sarà che mi sono avvicinato alla lettura e quindi alla letteratura passando da autori che sapevo vivere la vita in maniera piuttosto pittoresca, eccentrica, più simile a dei rocker che a del poeti laureati, Hubert Selby jr, Bukowski, Hunter S. Thompson, Jim Carroll, di fatto se dovevo e devo pensare a uno scrittore mi viene in mente un fuoco acceso di notte in riva al mare a Big Sur, o una stanza pulciosa al Chelsea Hotel.
Del resto sono diventato uno scrittore, nel senso che ho pubblicato il mio primo libro e scritto i successivi due, compreso quello che mi avrebbe portato in Mondadori, mentre vivevo in un monolocale di pochi metri quadri, qualcosa che nel mio immaginario di ragazzo di provincia esisteva solo nel film Ragazzo di campagna, con Renato Pozzetto, e ho proseguito sempre ritagliando tempi e spazi al resto della mia vita, spesso lavorando la mattina presto o la sera tardi, quando i miei figli dormivano, o approfittando del loro essere a scuola, come se lo scrivere, che a ben vedere è da ormai ventitré anni il mio mestiere, fosse qualcosa cui non concedere poi chissà quale possibilità, fino a tre anni fa non avevo uno studio dedicato a questa attività e da che la pandemia è arrivata a scombinarci le carte, a noi che viviamo in casa e al resto del mondo, quello spazio è diventato il luogo dove mia moglie pratica per un numero spropositato di ore ogni giorno il cosiddetto smart working, io di nuovo relegato a ritagliarmi spazi nel resto di casa.
Certo, ho la mia libreria, grande, con migliaia di titoli, molti cercati con cura negli anni, le prime edizioni, certe rarità, ma mentre alla musica, per alzare un confronto, ho sempre dedicato una certa attenzione, quella determinata chitarra, quel determinato effetto, addirittura quel tipo di plettro rigido lì, con la scrittura mi sono sempre adattato con una certa naturalezza, il Pc su cui scrivo, a volte alternato a un tablet, è un Pc spartano, di poco conto, spesso quello che, a parità di caratteristiche, costava meno, non per spilorceria, si tratta di me, in fondo, ma più per quella faccenda del non riconoscere al mio lavoro, a una parte del mio lavoro, è vero, ma pur sempre la parte principale, quella che va avanti da più tempo, che mi ha portato più economie, volendo anche più soddisfazioni, quello che è userei per rispondere alla domanda “che lavoro fai?”, i gradi dell’ufficialità, come se riconoscendolo venisse meno parte della sua magia, o magari come a volermi aggrappare in maniera decisamente naif all’idea che essere scrittori, non fare gli scrittori, sia qualcosa più attinente all’arte che al lavoro, sguardo decisamente eccentrico e novecentesco su qualcosa che passa in tutti i casi per codici a barre, bollini SIAE, contratti e bonifici.
Essere eccentrici è parte del pacchetto full optional, credo, mica sarà solo il sentirsi appunto chiedere esattamente uno che lavoro fa.
Credo sia anche per questo che uno, nonostante non abbia mai scritto una sola pagina a penna, e perché mai dovrebbe farlo, dal momento che tanto poi il tutto andrebbe digitalizzato?, si riempie casa di quaderni, agende, Moleskine e collezioni penne stilografiche, con le quali per altro si ripete andrà a firmare i contratti, come in certa vulgata, salvo poi farlo puntualmente con la prima penna biro che capita sotto mano, spesso presa al volo da un astuccio dei figli, o magari residuo di un viaggio fatto, invece che una Montblanc ecco a voi la firma con la penna dell’hotel Tal dei Tali. Quaderni, agende e Molesikine, va anche detto, dove quasi mai si prendono neanche appunti, anche quelli ormai scritti su fogli word, su note del tablet, se non addirittura dettate nottetempo al cellulare su una nota vocale.
Attenzione, non sto cercando di uccidere quel residuo di poesia che magari qualcuno potrebbe riversare incautamente sul ruolo dello scrittore, per altro consapevole che io potrei non rientrare esattamente in quella casella lì, lo scrittore, appunto, quanto piuttosto per accompagnarvi, ci siamo quasi, in un viaggio che con la magia ha più che qualcosa a che fare, come con la scrittura e anche con l’eccentricità.
Arriviamo a Bucarest dopo aver fatto un giro dalle parti del Delta del Danubuoi e in Transilvania, è l’estate del 2017. Da tempo ci dicevamo, io e mia moglie, che avremmo voluto conoscere questa parte piuttosto esotica d’Europa, esotica in quanto a noi sconosciuta e legata a tutta una serie di stereotipi fatti prevalentemente di suoni vagamente tzigani, costumi accostabili a quelli balcanici, conti Dracula e vecchi orpelli del Comunismo. Tutto per altro piuttosto presente, l’ombra oscura di Ceausescu a incombere su tutto, temuta o disprezzata, o temuta e disprezzata, una atmosfera più da horror che da film di Kusturica, e perché mai poi Kusturica dovrebbe essere presente da queste parti?, Dio come restiamo provinciali, un paesaggio montuoso imponente, spazi enormi, panorami mozzafiato, un incanto a solo un’ora e poco più di volo da casa.
Questo non è però un pezzo sulla Romania, non scrivo di viaggi, da queste parti, o se ne scrivo è sempre per flaneureggiare altrove, anche stavolta.
Arriviamo a Bucarest.
Abbiamo una auto a noleggio, a sette posti, ma di quelle in cui i due posti aggiuntivi, il sesto e il settimo, sono retrattili, là dove solitamente si trova il portabagagli. Trovarla è stata la parte più difficile di organizzare questo viaggio, perché quando prenoti un auto, spesso, non ti assicurano il modello, e a noi serve obbligatoriamente un auto a sette posti e con un minimo di bagagliaio. Questa era il massimo che passasse il convento. È una monovolume, certo, ma non è esattamente la monovolume più spaziosa su cui noi sei, tanti siamo, abbiamo viaggiato. Uno dei due posti, per altro, è lasciato giù, perché altrimenti non avremmo posto per i bagagli.
Bucarest è una città di una bellezza quasi asfissiante, una bellezza per di più abbastanza inaspettata, parlo almeno per me. Ha tutta l’aura delle città imperiali, l’epica enfatica e boriosa del comunismo e quell’atmosfera decadente che la caduta del comunismo si è portata dietro, le crepe, le macerie, gli sgaruppamenti. Un mix davvero affascinante, a punto che, lo dico senza tema di essere smentito, anche perché quello che sto per per dire riguarda me e me soltanto, è una delle città europee più belle che io abbia mai visto, e lo dice uno che per lavoro ha viaggiato e visto tanto.
Viaggiare in tempi di smartphone è una faccenda diversa da quel che era viaggiare in passato, si mette un indirizzo su Google Maps, complice il fatto che le compagnie telefoniche non possono più neanche fare un sovrapprezzo per i giga di traffico che si hanno dentro la Comunità Europea, e si lascia che sia lui, il navigatore, a dirci dove andare.
Questo, da una parte, ci impedisce di concentrarci sui dettagli, non più necessari, una traversa o la successiva non sono più fondamentali, a meno che non ce lo dica il navigatore, dall’altra ci permette, è il nostro caso, di perderci, letteralmente, nel paesaggio urbano che ci si para di fronte, lasciando che la meraviglia prenda il posto dell’attenzione, spaesati da tanta bellezza decadente e imperiosa.
Da che abbiamo ripreso a viaggiare all’estero, da che, cioè, dopo la nascita dei gemelli, abbiamo ponderato che rimetterci a organizzare viaggi impegnativi, che prevedano voli, spostamenti da città in città in auto, camminate che portino via buona parte del giorno, pranzi e cene in luoghi che non potranno fornirci i cibi che i nostri figli sono abituati a mangiare, abbiamo preso l’abitudine di affittare casa, più che prendere stanze d’albergo.
Siamo anche tanti, sei, ripeto, e in tutti i casi avremmo non poche difficoltà nel trovare stanze che servano al nostro caso.
Stavolta, in realtà, abbiamo inizialmente dovuto fare un’eccezione, per i giorni iniziali del viaggio, perché nel cercare e trovare casa io, personalmente, ho commesso un errore sciocco. L’idea era questa, arrivare a Bucarest di sera, quello era il volo che avevamo trovato, dormire una notte qui, tanto per iniziare a assaporare l’idea del viaggio, poi spostarci verso il Delta del Danubio, perché questa era la prima tappa del viaggio, tre giorni in zona, compresa una gita in barca fino al Mar Nero, costeggiando anche il confine con l’Ukraina. Poi via, verso la Transilvania, Brasov, Sibiu, Bran, tutti i posti più caratteristici. Infine tornare a Bucarest, ma stavolta per visitare davvero la città, che anche senza averla vista ancora immaginavamo meritasse. Tutto perfetto, solo che, nello scegliere una casa sul Delta del Danubio, non ho tenuto conto che il Delta del Danubio riguarda un’area molto ma molto vasta, e che di vero delta si tratta, selvaggio e impervio. La faccio breve, ho affittato una villetta con giardino, dopo il viaggio fatto l’anno prima a Stoccolma, dove avevamo soggiornato in una villetta strepitosa con giardino in un’isoletta nella periferia della capitale svedese l’idea del giardino ci allettava. Solo che la villetta che ho affittato è a tipo tre ore di barca dal porto da cui si parte per addentrarsi nel Delta, da dove in effetti prenderemo la barca per la nostra gita verso il Mar Nero. Tre ore che però si possono percorrere in due sole maniere, o affittando una barca, ma io ovviamente non so guidare una barca e non saprei minimamente come trovare una villetta dispersa nel cuore del Delta del Danubio, o ricorrendo al servizio di traghetti, che però da quelle parti passa una volta alla settimana.
Questo l’ho scoperto neanche una settimana prima di partire, quando l’host della villetta mi ha chiesto con che tipo di imbarcazione intendevo raggiungere l’abitazione, domanda alla quale credo di aver risposto con qualcosa che suonava come un sonora “vaffanculo”, salvo poi ritrovarmi a prenotare un albergo a Tulcea, questo il nome dell’ultima cittadina prima della natura selvaggia, albergo che in qualche modo abbiamo occupato militarmente, due stanze, uno per me e i figli maschi, una per mia moglie e le figlie femmine, poste l’una di fronte all’altra, noi a scambiarci vestiti e altro nel corridoio, con buona pace degli altri ospiti.
Il Delta del Danubio, per la cronaca, è a sua volta uno dei posti più incredibili che mi sia capitato di visitare, cosa che non si può dire del Mar Nero, perché quello nel quale abbiamo immerso i nostri corpi, alla fine della nostra gita in barca, gira durata tutto il giorno che ci ha visto anche mangiare in una fazenda in una delle insenature, menu a base di granchi e zuppe di pesci pieni di spine, buonissime, era qualcosa che alla mia memoria ha ricordato le acque di Rimini, non esattamente il massimo, per capirsi.
Siamo quindi entrati a Bucarest, negli ultimi giorni del nostro viaggio rumeno, e siamo diretti, sotto la guida asettica del navigatore, verso la casa che abbiamo affittato. L’host ci ha detto che c’è parcheggio adibito, in strada, il che mi ha lasciato un po’ dubbioso. A meno che non ci sia un cortile, infatti, non ho idea di cosa si intenda per parcheggio in strada. Arriviamo all’indirizzo dell’appartamento, e in effetti il parcheggio in strada è quello che uno si dovrebbe immaginare quando si parla di parcheggio in strada, cioè un parcheggio che devi cercarti in strada, al pari di chiunque altri intenda parcheggiare da quelle parti. Niente di sicuro, niente di riservato, niente di protetto. Ci va bene, perché troviamo a pochi passi da lì, e comunque, proprio a causa della monovolume che sapevamo non sarebbe stata enorme e forti di anni e anni di esperienza abbiamo davvero poche valige da portare in casa, quindi ci dirigiamo verso il portone, io un pochino contrariato per quella neanche troppo vaga presa per il culo.
La strada su cui si trova l’appartamento è una delle arterie attraverso le quali si accede al centro di Bucarest, molto trafficata e caotica, e anche piuttosto vicina al centro stesso. L’host è un giovane che, ci dirà quasi subito, cura la casa per conto dei proprietari. Parla un inglese fluente, e ha modi decisamente eleganti. Ci porta all’appartamento, che si trova al secondo piano di un grattacielo i cui corriodi sembrano molto quelli che si vedono nei telefilm americani, poca luce, tremolante, porte tutte uguali. Entriamo, sappiamo, per questo l’abbiamo scelta, per una volta venendo meno alla nostra idea di andare sempre in case singole e con giardino, fatto piuttosto raro in città, che è un appartamento piuttosto ampio, siamo sei, ripeto, e almeno quando viaggiamo Lucia, la nostra figlia più grande, ambisce a una stanza tutta per sé, fatto che non le è mai capitato nella vita quotidiana, sempre in compagnia di sua sorella, a lungo, in passato, anche in compagnia dei fratelli, in una stanza che avevamo deciso di destinare a loro camera pur partendo nella planimetria come sala della nostra prima casa milanese. L’ingresso sa di vecchio, in perfetta linea con Bucarest. Mattonelle anni sessanta in terra, poca luce, spazi angusti, troppe porte tra le quali scegliere. Basta però imboccare quella giusta, di porta, e ecco che arriva la prima sorpresa, una sorta di epifania, la casa si apre in una sala spaziosa e luminosissima, affacciata su una finestra enorme che prende interamente la parete che dà sull’esterno. È una stanza che si estende per lungo, con una libreria, piccola ma ben fornita, sul lato opposto alla finestra, un tavolo lungo e massiccio al suo centro, un paio di poltrone poste agli angoli della enorme vetrata e un paio di porte che danno rispettivamente su una stanza da letto, quella che diventerà momentaneamente la camera matriomoniale, e un corridoio. Notiamo subito che manca la televisione, fatto che in altri contesti creerebbe veri e propri attacchi di panico, ma siamo in vacanza e quel che si vede dalla finestra è assai più interessante di quello che una tv rumena potrebbe offrire a chi la televisione vorrebbe guardare, i nostri figli. Il resto della casa si dipana tra mille corridoi, uno grande che porta nei bagni e nelle camere da letto, uno piccolo e tortuoso che porta verso la zona della servitù, così ci viene presentata, quindi la cucina, la dispensa, un altro bagno talmente piccolo da ospitate appena un water.
In sostanza, da una parte c’è un ambiente molto cool, la vetrata enorme, il tavolo di legno massiccio, la piccola libreria, su uno scaffale della quale trova spazio anche una macchina da scrivere, dall’altra una serie di cunicoli tipo quelli che ci capita di vedere quando andiamo in visita alle reggie, a Versailles, per dire, adibite al passaggio della servitù, veloci e invisibili. Ovviamente la cosa colpisce la mia attenzione, perché siamo in un appartamento di Bucarest e non alla Reggia di Caserta, e perché la parte “pubblica”, la sala, è decisamente molto occidentale nel suo presentarsi anche così spoglia di mobilio. Viene in mio soccorso l’host, in vena di chiacchierate. Ci spiega che l’appartamento è una sorta di luogo culto, per la cultura rumena, perché, prima dell’avvento di Ceausescu, nei confronti del quale, così, a pelle, direi che il nostro provi una certa ammirazione, perché nel pronunciarne il nome non noto smorfie di fastidio o indignazione, come per molti altri mi capiterà di vedere, qui viveva Radu Stanca.
Ora, immaginatevi di aver preparato una vostra presentazione di un qualsiasi progetto, qualcosa di elaborato, che preveda un percorso tra slide o pagine di power point, e che a un certo punto, di colpo, preveda un colpo di teatro, ta-dan, ecco la sorpresa, lo spiazzante disvelamento di qualcosa di talmente unico da risultare quasi incredibile. Poi immaginatevi che, di fronte al vostro disvelare l’indisvelabile ci sia una risposta fatta di sbadigli, facce da gatto che neanche ti guardano, distrazione e comunque assai poca presa. Questo succede. L’host ci ha introdotto in casa, ci ha fatto vedere prima la bella sala, poi le camere, e poi si è addentrato per i cunicoli, noi alle sue spalle in fila indiana, per poi tornare davanti alla gigantesca e spettacolare vetrata, la strada trafficata e rumorosa due piani più sotto, il tutto col solo scopo di farci dire un altrettanto gigantesco “WOW” di fronte alla notizia che quella era la casa di Radu Stanca, solo che nessuno di noi ha neanche la minima idea di chi sia Radu Stanca. Ignoranza nostra, sia chiara, nel mio caso ancor più grave dal momento che, scopriremo subito dopo, andando in seguito a approfondire, che Radu Stanca è uno dei maggiori drammaturghi rumeni, per altro originario di Sibiu, paese molto bello che avevamo visitato nei giorni precedenti. Nei fatti di cultura rumena so poco o nulla, conosco ovviamente le opere di Ionesco, difficile non conoscerle, e so che recentemente ha vinto il Nobel Herta Muller, rumena di nascita ma tedesca di cittadinanza, per il resto so poco, ho in casa da tempo la trilogia di Mircea Cãrtãrescu, Abbacinante, ma non ho ancora trovato il coraggio di leggerlo, per il resto credo di non aver mai letto nulla di autori di questa terra, e per la cronaca nulla di Radu Stanca è tradotto in italiano, diffidate di quanti vi diranno che il rumeno è simile alla nostra lingua, perché con comune matrice latina, a sentirlo parlare e a provare a leggerlo non ci si capisce nulla. Tornando a Radu Stanca, era una celebrità nel mondo della cultura locale, defraudato della sua casa dal regime comunista, a suo tempo, e poi ridonata agli eredi, dopo la caduta di Ceausescu, avvenuta dopo la sua morte.
La macchina da scrivere, ci dirà l’host, era la sua macchina da scrivere, i libri i suoi libri. Immagino il letto matrimoniale non il suo letto, perché a occhio sembra un modello base dell’Ikea, ma ci siamo capiti.
Si potrebbe a lungo discutere su come una nazione desiderosa di riappropriarsi della sua cultura e la sua tradizione, dovendo fare i conti con un passato recente doloroso e cui guardare con una certa rassegnata ostilità, a differenza di quel che succede da noi gli eredi di Ceausescu vivono appartati, con vergogna, anche se mi ha fatto sorridere che il figlio che più di ogni altro era destinato a seguire le orme paterne, quello recentemente risalito ai disonori delle cronache per essere stato il padre-padrone della ginnasta Comaneci, si sia salvato dalla giustizia sommaria che aveva portato alla subitanea morte dei suoi genitori, solo per essere stato a lungo presidente della Dinamo Bucarest, il calcio gli aveva salvato la vita, ogni mondo è paese.
Lascio da parte Bucarest, che è città più che meritevole di ogni attenzione, ripeto, una delle più belle e fascinose viste in vita mia, una città che sta crescendo, ma come incapace di non far vedere i segni delle cicatrici, grande merito ai miei occhi, e provo a arrivare al punto del mio, lasciatemelo chiamare bonariamente così, ragionamento.
È stato lì, in quell’appartamento di Bucarest, mentre sedevo a un massiccio tavolo di legno affacciato su una finestra gigantesca, una delle arterie più trafficate di Romania qualche metro più in basso, una macchina da scrivere senza più rullino per l’inchiostro e fogli, che ho realizzato per la prima volta in vita mia, quasi cinquant’anni, oltre settanta libri pubblicati, che essere scrittori, e anche fare gli scrittori, dai, è un lavoro decifrabile anche a occhio nudo, per chi non è tenuto a sapere cosa tu abbia scritto, perché è magari nato in un paese dove le tue opere non sono arrivate, dove il tuo nome è sconosciuto, legittimamente, qualcosa che un host quasi quarant’anni dopo la tua morte potrà esibire con affettazione, le tue opere lì impilate su una libreria semispoglia, a futura memoria. Non lo dico con vanto, ma piuttosto come di chi prende consapevolezza di qualcosa che forse dovrebbe essere scontato.
Se oggi mi ritrovo a pensare a Radu Stanca, alla sua sala e la sua macchina da scrivere e anche al mio posto nel mondo, è perché stavo ragionando sul fatto che, in Italia, salvo rarissime eccezioni, non abbiamo destinato sufficiente attenzione ai luoghi nei quali gli artisti hanno vissuto e lavorato, da critico musicale sono passato a parlare di musica leggera, di pop. A parte la casa museo di Lucio Dalla, a Bologna, non mi sovvengono altri luoghi simili, e dire che di grandi artisti ne abbiamo persi parecchi, decisamente troppi. Possiamo andare a Graceland, o nella casa che fu di Jimi Hendrix a Londra, in Oxford Street, possiamo attraversare le strisce pedonali di Abbey Road o, prendendo appuntamento, visitare gli Hansa Studios di Berlino dove Bowie e Brian Eno hanno fatto quel che hanno fatto, ma non abbiamo a disposizione una sala come quella di cui vi ho parlato nella quale un host nostalgico vi possa dire, qui ci ha abitato, che so?, Rino Gaetano, o Ivan Graziani, o Enzo Carella.
Niente, ci tenevo a dirlo, ora torno su quello che in futuro verrà indicato come “il divano dove Monina passava le giornate fingendo che guardare le serie tv fosse davvero parte del suo lavoro”.