Oggi parlerò di ironia, autoironia, satira, censura e del motivo per cui, in fondo, non posso ancora parlare del nuovo disco di Caparezza.
Quando ero molto giovane, forse dovrei dire piccolo, parlo delle scuole medie, in classe mia c’erano diversi soggetti che oggi definirei particolari. Particolare è un aggettivo strano, che sottintende, parlando di persone, qualche stranezza, riuscendo nell’impresa di non essere offensiva e di non incappare in quella zona oscura che oggi è il politicamente scorretto.
All’epoca, quando facevamo le medie, dire particolare parlando di quei soggetti non rientrava nel mio stile, perché non avevo probabilmente idea di cosa fosse non particolare, dire normale mi farebbe incappare esattamente nella medesima zona grigia, e perché, come sta girando ormai da qualche giorno, credo in virtù di quanto inizialmente detto da Antonello Piroso nella bellissima intervista fatta a Simonetta Sciandivasci su Il Foglio, ai tempi ci si permetteva di dire senza vergogna e anche senza troppa malizia parole come mongoloide, mongolino o spastico, come se niente fosse. Io non ho mai usato una di queste parole, e non certo perché fossi più moralmente elevato degli altri, o più sensibile. Mi infastidivano, forse in virtù del fatto che uno dei miei più cari amici aveva una sorella che frequentava l’Istituto Bignamini di Falconara, che nella nostra zona era il centro specifico per chi aveva qualche deficit nell’area neurologica. Anche la parola handicappato, che veniva usato come le altre su menzionate mi metteva a disagio, perché, seppur indicasse in maniera dignitosa una condizione reale, nascondeva una qualche benevolenza pelosa che mi infastidiva. Ero solito frequentare quel centro, perché mentre la sorella del mio amico faceva le sue terapie io tenevo compagni al mio amico, e quindi ero in qualche modo coinvolto direttamente nella faccenda, me ne sentivo parte.
Questo, suppongo, riguarda in parte la faccenda relativa all’ironia e all’autoironia che è esplosa quando Pio e Amedeo hanno fatto il loro ormai anche troppe volte citato monologo. La questione che per fare autoironia tocca essere parte del discorso, non si può fare ironia conto terzi, quella sarebbe ironia e basta e fare ironia su chi vive una condizione di disagio, di fragilità, di debolezza non è satira, la satira è rivolta al potere, il re è nudo, non lo schiavo, cioè lo schiavo è nudo ma sfotterlo per quello è inutile, è cosa nota e sottolinearla senza volerlo difendere è da vili, dare del mongolino a qualcuno non era ironia, era ignoranza, e basta, questo pensavo, o intuivo sin da piccolo. Per questo ho sempre avuto grandissima difficoltà a ragionare col branco, con quanti, cioè, nella mia classe delle medie, prendeva di mira i tipi particolari di cui sopra. Anzi, ho sempre provato a empatizzare, per quel che mi era possibile.
Ce n’era uno, di cui non farò il nome perché c’è ancora e vive una vita mi sembra tutt’altro che particolare, che stando a quanto sostenevano i miei, era “introverso”, cioè particolarmente chiuso, al limite del patologico. Dicevano anche che era “caratteriale”, che era un modo un po’ più scientifico per dire che aveva qualche difficoltà a socializzare con gli altri, molte difficoltà. Questo lo rendeva ovviamente un bersaglio facile per quelli che oggi definiremmo bulli della mia classe e anche della mia scuola. Ai tempi, nella mia città, bullo era una parola cool, “sei bullo un bel po’” era un gran complimento, ma questa è una mera faccenda linguistica, folk. Il primo passo dello sfotterlo, e questo è proprio ai livelli elementari, era distorcerne il cognome, nel suo caso diventava Majakovskij (in realtà era un altro esponente russo, ma prendete questo per buono, non voglio rovinargli la vita anche da adulto), come qualcuno di cui a volte si parlava dentro la televisione. Il secondo prenderlo a coppini, così chiamavamo gli schiaffi dati sulla nuca, lui portava sempre il capelli corti, con la sfumatura alta, e altre simpaticissime amenità. Ai tempi, confesso, funzionava sempre così. C’erano quelli grossi e fighi, spesso scemi, che prevaricavano, e c’erano noi altri, più mingherlini, più educati, più intelligenti, a volte, che subivamo.
Siccome il nostro compagno era appunto piuttosto introverso, la mamma aveva chiesto a mia madre se io potessi ogni tanto andare da lui, anche se noi non è che fossimo proprio amici, così da farci compagnia. Lui era un grande appassionato di telefilm che arrivavano dall’oriente, arti marziali, Godzilla e roba del genere. A me facevano abbastanza schifo. Per cui la cosa durò qualche volta, ma finì presto.
Anni dopo, facevo credo il secondo anno delle superiori, mi è capitato di incontrare il nostro compagno proprio mentre ero in giro con i pochi miei amici di allora coi quali continuavo a vedermi. Abitavamo tutti in centro, Battisti ci ha spiegato come è facile incontrarsi anche in una grande città, figuriamoci in una piccola. La cosa sorprendente, letteralmente, è stata non tanto incontrare lui, che in quanto introverso non è che facesse tutta questa vita sociale, quanto il fatto che incontrandolo, poi avremmo scoperto che ci era venuto a cercare intenzionalmente, ci siamo trovati di fronte un ragazzo assai diverso da come lo ricordavamo. Era successo che lui, Majakovskij, si era scocciato di tutti questi soprusi, e si era andato a fare qualche mese intensivo in palestra, metteteci pure la crescita, quel che è, nei fatti di colpo, mentre eravamo a passeggio per il corso, ci siamo trovati una sorta di John Cena con la faccia ancora implume del nostro ex compagno di classe. Una sorta di massa di muscoli, uno che se fosse a torso nudo avrebbe messo in mostra tartaruga e affini, mentre l’ultima volta che lo avevamo visto era una specie di sfigato, uno gracile, cui i bulli davano i coppini.
La storia finisce che noi la tartaruga l’abbiamo vista, perché il nostro ex compagno, che più che caratteriale o particolare era un po’ sotto stress, si è sfilato la maglietta, come Bruce Lee, mostrando i muscoli dei bicipiti, contratti, e gli addominali, il tutto con l’intento di predirci cosa stava per accaderci, cioè lui che ci avrebbe picchiato a sangue. Sul perché lui volesse picchiare noi e non i bulli mi sono spesso interrogato, ma forse la sua era più una vendetta alla Carry, un dove becco becco, nei fatti ancora una volta nella vita ho potuto constatare che la velocità è dote migliore della potenza, mentre lui mostrava i muscoli di me e dei miei amici non vi era più traccia, come in certi cartoni animati forse abbiamo lasciato alle spalle una nuvoletta sospesa a mezz’aria. Vengo ai giorni nostri, lasciamo momentaneamente Majakovskij che mostra i muscoli a un me stesso, per altro innocente, di sedici anni. Scrivo di musica. E scrivo di musica spesso andando a colpire il sistema, con piglio ironico e anche sarcastico, la penna affilata che a volte ferisce, a volte uccide.
Un paio di anni fa, facciamo anche due anni e mezzo fa, mi è capitato di criticare durissimamente la Universal. Capirete, io che attacco la più grande multinazionale del disco, una sfida alla pari. Nello specifico mi sono più volte trovato a criticarli per alcune scelte discutibili, e l’ho sempre fatto col mio stile irriverente. Loro sono il re, io il giullare che dice che il re è nudo. Le cose funzionano così da che mondo è mondo. Certo, a volte il giullare finisce in pasto ai cani, lo so, ma vale la pena correre il rischio.
Considerando che la mia prima intervista in assoluto è stata fatta negli anni Novanta a Trent Reznor, uscito per la Universal, che per la Universal mi è capitato di lavorare come consulente, carta canta, e che quando ho deciso di provare a fare un esperimento dadaista che includeva l’uscita di un album, il progetto Bikinirama, è uscito per la Universal, converrete che non è che si tratti di una ostilità personale, o di qualcosa che parte da lontano. Ho sempre pensato che tocchi dire quel che si pensa, se è frutto di un ragionamento lucido, e questo ho fatto. Ho criticato una nuova linea editoriale che non condivido e nel farlo ho criticato alcune scelte aziendali, su tutte quelle di investire in termini di credito e di forza su un nome, Jacopo Pesce, passato da accompagnatore degli artisti a contratto a A&R, a direttore Island. Ci sono andato giù pesante, specie in un pezzo nel quale parlando di Jovanotti, criticavo in maniera assai più pesante l’AD dell’azienda, Alessandro Massara, ma ripeto, il re è nudo, ci siamo capiti. Solo che succede questo, al Sanremo che poi avrebbe vinto Mahmood mi viene fatto sapere, in maniera diretta, che io non avrei potuto intervistare artisti di quella major, perché lui, Jacopo Pesce, ha messo un veto. Una sorta di fatwa, senza che però fosse previsto che qualcuno mi facesse saltare in aria. Così è, a parte il caso dei Negrita, che sono amici, e di quel che pensa l’azienda, giustamente, se ne sono infischiati. Altra eccezione anche Federica Carta, quell’anno in gara con Shade. Lei viene a Attico Monina, e tra gli accompagnatori c’è anche lui, Jacopo Pesce. Io sto lavorando e mi guardo bene dal chiedergli ragioni della fatwa, figuriamoci. Mahmood vince. Io per tutto il Festival non lo giudico mai nelle mie pagelle, dichiarando che non lo faccio perché il suo discografico mi ha messo al bando. Tornati io scrivo un pezzo piuttosto ironico, nel quale azzardo un paragone con Gino con le Mutande. Non è Majakovskij, Gino con le Mutande, perché Majakovskij, a memoria, non giocava a calcio. Gino con le Mutande è una figura retorica, quello che quando eravamo giovani, per vergogna di farsi vedere nudo, faceva la doccia con le mutande dopo gli allenamenti. Il motivo, non detto, un pisello non esattamente da esposizione fieristica. Il pezzo esce nel giorno e nell’ora in cui all’Universal tengono il board con tutti A&R e i direttori di etichetta. Il pezzo, mi dicono, arriva in contemporanea sui whatsapp di quasi tutti, in genere coi miei pezzi succede così, c’è una grande condivisione tra addetti ai lavori, fatto che non credo sia stato graditissimo a Gino con le Mutande.
Se prima ero stato messo al bando, ora vengo proprio esplicitamente dichiarato “persona non gradita”. Non ricevo più inviti a conferenze, mi sono negate le interviste, non ricevo più album e neanche comunicazioni. Neanche quando sono in radio, durante il Sanremo 2020, per Rtl 102,5. Una fawta, ripeto.
Ora, si potrebbe ipotizzare che io abbia fatto del bullismo. Che nel paragonare un discografico al tipo che alle medie veniva preso in giro perché faceva la doccia negli spogliatoi con le mutande abbia addirittura praticato un doppio salto mortale, per bullizzare qualcuno abbia usato un becero esempio di bullismo. Qualcosa che, stando a quel che si legge in questi giorni, esula dall’ironia e anche dalla satira, perché non essendo autoironia, quella richiesta, ma semplice ironia subita, sarebbe da rispedire al mittente con fermezza. Come dire, a colpo reagisco con un colpo, mi attacchi e io ti faccio fuori, censurandoti.
Piccolo problema.
Gino con le Mutande ricopre un ruolo di potere. Grande. Io no.
Io sono quello che indicandolo dice “il re è nudo”, non viceversa.
Io sono quello che, metaforicamente, viene dato in pasto ai cani, o gettato nel fossato agli alligatori.
C’è chi scrive e c’è il potere, e c’è chi scrive facendo ironia, satira, attaccando il potere e l’uso malsano che se ne fa, e c’è chi il potere lo esercita per nuocere a chi scrive, tagliandolo fuori, facendolo fuori. Ne sono consapevole, e la mia scelta non può che essere di assecondare questa volontà. Non posso avere a che fare con artisti Universal? Non cerco di averci a che fare usando vie alternative, buona parte di quegli artisti li conosco, mi sono amici da quando Gino con le Mutande presumibilmente faceva quelle docce in mutande, saprei come arrivarci. Non scrivo quasi mai di artisti Universal, e se lo faccio sottolineo questa anomalia. Quando voglio intervistare qualcuno lo chiamo direttamente, e chiaramente se viene usato un ufficio stampa esterno, beh, a loro decidere se forzare o meno la mano alla major, spesso succede così. Ma ripeto, se posso me ne tengo a distanza. Solo che stanotte a mezzanotte è uscito l’album nuovo di Caparezza, non per la Island ma per la Universal.
Io e Caparezza siamo amici da quasi venti anni. Siamo stati nelle nostre rispettive case. Abbiamo scritto un libro insieme, Saghe mentali, uscito per Rizzoli. Ci vogliamo bene. Ieri è stato organizzato il lancio stampa, e io non sono stato neanche avvisato. Cioè, il mondo della discografia è come Ancona, facilissimo incontrarsi, sapevo tutto, ma non ho voluto forzare la mano, magari chiamando direttamente lui. Credo che sia una cosa grave, impedire a chi lavora di fare il proprio lavoro. Credo che sia una ingerenza violenta. Un esercitare il potere da parte di chi, quando poi il potere viene irriso, reagisce in questo modo.
Non fosse che Caparezza è Caparezza, cioè uno degli artisti che massimamente stimo in Italia, presumibilmente il problema non si porrebbe, non ne scriverei a basta. Magari neanche lo ascolterei, non c’è scritto da nessuna parte che io debba ascoltare tutto quel che esce. Ma è stato un anno molto difficile, e credo che un album di Caparezza sia necessario sempre, figuriamoci oggi. Però, proprio perché Caparezza è Caparezza, mi sembrava necessario raccontare pubblicamente quel che io so, e anche Caparezza sa, io non c’ero, all’incontro stampa e non c’ero stavolta non perché amo non esserci, ma perché non hanno voluto che ci fossi. Mi hanno fisicamente escluso, nonostante io sia tra tutti coloro che scrivono di musica colui che quando Caparezza ha deciso di scrivere un libro aveva il suo nome al suo fianco, due delle quattro mani che quel libro hanno scritto.
Certo, fare quello che a Milano chiamano “il piangina” non è sport che mi piace praticare, per cui continuerò a pensare che alla base di questa situazione ci sia esattamente quel punto di partenza lì, non so se solo metaforico, la doccia, lo spogliatoio, le mutande tenute su, quel che dentro le mutande c’è, o non c’è. E continuerò a pensare che l’ironia vada esercitata esattamente in questa maniera qui, colpendo il potere, se a ragione, e non certo colpendo chi il potere non solo non lo esercita, ma neanche ce l’ha mai avuto. Ovviamente essendo anche autoironici, quindi non lesinando nel raccontare di come, quando Majakovskij ha minacciato di farci del male, la mia reazione sia stata darmi alla fuga, alla faccia dei film di arti marziali visti con lui. Per la cronaca, poi, non è che durante la doccia post-allenamento io esibisca chissà cosa, è solo che ho capito che un paio di mutande sotto la doccia si notano di più di un pisello assolutamente normale.
Quindi no, oggi non posso recensire il disco di Caparezza, che ieri intorno a mezzanotte ho acquistato su Amazon (sono contro Spotify ma uso Amazon, non solo ho un pisello nella media, sono anche pieno di contraddizioni) e che mi arriverà solo domani. Dopo essermelo sentito, se riterrò necessario, sentirò Caparezza come abbiamo sempre fatto, col telefono, e poi ne scriverò.
Ironia della sorte, esattamente tra una settimana, e stavolta proprio per Island, esce anche il disco di Margherita Vicario, artista nei confronti della quale ho una stima pari a quella che ho per Caparezza, seppur la sua carriera sia ancora assai più giovane. Nel suo caso ho ricevuto invito alla conferenza stampa, da ufficio stampa esterno, immagino che dopo il pezzo di oggi potrebbe venirmi negato, o magari dire che potrei essere censurato sortirà l’effetto Fedez al Primo Maggio, escludermi sarebbe un clamoroso autogol. Nei fatti, anche in quel caso, ascolterò, se serve chiamerò, e ne scriverò.
Il mio ex compagno di classe, ora, vive una vita serena, lo vedo sui social, è sposato, ha un figlio e spero che non abbia più memoria di quegli orribili anni. Gino con le Mutande, benché vesta spesso tute acetate e indossi sneaker e cappellini di grido, resta sempre uno che quando si tratta di fare la doccia in uno spogliatoio sta lì, a nascondere quello che agli occhi di tutti è già evidente di suo.
Io mi trovo nella surreale condizione di dover dire “Il re è nudo” a uno che nei fatti ha sempre addosso le mutande, chissà che Caparezza prima o poi non ci tiri su una delle sue canzoni multistrato.