“La moda di esibirsi travestiti da operai/ La moda di fumare/ La moda di sparare o non sparare/ La moda di spararsi”
Voglio partire da qui, dallo special del brano Il dio delle zecche dei Massimo Volume, tratta dall’album Aspettando i barbari del 2013.
Sui Massimo Volume, al secolo Emidio “Mimì” Clementi, quello che Manuel Agnelli cita in Bye bye Bombay, “Sai Mimì che la paura è una cicatrice/ Che sigilla anche l’anima più dura?”, voce e basso, oltre che romanziere di grande talento, Vittoria Burattini, metronomo umano col click naturale, ovviametne alla batteria, mia compagna di banco alle superiori, così, detto en passant, Egle Sommacal, chitarre degne di certo massimalismo americano, e ultimamente anche Sara Ardizzoni, chitarre e basso, andrebbe fatto un discorso molto articolato, perché credo, e credo fermamente, che siano una delle più importanti band della nostra musica alternativa, seminali, si diceva un tempo sulle riviste di settore, con molti tentativi falliti di imitazione e una folta eredità nel mondo del rock di casa nostra, prima o poi mi impegnerò a farlo.
Oggi invece voglio partire da una loro canzone, una di quelle composte e incise dopo la loro reunion, avvenuta nel 2008, per provare a affrontare un argomento ostico, talmente ostico che non saprei neanche che nome dargli.
Mi fermo e riparto quindi da altrove.
Avete visto tutti le foto di Frances McDomand alla Notte degli Oscar. Lei lì a ritirare il suo terzo Oscar in carriera, record condiviso con Ingrid Bergman e Maryl Streep, non esattamente due colleghe da poco, stavolta per Nomadland, film che d’altronde ha sbancato all’Academy, andando a portare a casa anche l’Oscar per il Miglior Film e quello destinato alla regista Chloe Zhao, nelle due occasioni precedenti con Fargo, nel 1997, film diretto da Joel e Ethan Coen, incidentalmente il primo anche suo marito, il secondo nel 2017 per Tre manifesti a Ebbing, Missouri, stavolta come Migliore Attrice non protagonista, categoria per la quale era stata nominata altre tre volte in precedenza, per Mississippi Burning, nel 1989, e per Almost Famous, nel 2001, e North Country, Storia di Josey, nel 2006.
Lei, Francese McDormand, sessantatré anni, appare vestita con un abito in apparenza semplice, in nero, in realtà un Valentino col solo guizzo di piume di struzzo che escono dalle maniche, dettaglio non da poco ma decisamente di difficile decrittazione, i capelli spettinati, la ricrescita in evidenza, una forcina a provare a fare l’impossibile, denti non perfetti, da fumatrice, esibiti con naturale generosità. Tutto apparentemente antiglamour, proprio nella serata che più di ogni altra è votata al culto del proprio aspetto, la selezione dei migliori outfit a campeggiare praticamente su tutti i quotidiani e i magazine, il Red Carpet eletto a luogo dell’effimero che, per una notte, accampa pretese anche fuori dal settore della moda, una attenzione quasi spasmodica da parte di chi, a volerla dire tutta, sembra più interessato a questo aspetto che a quel che la serata andrà a certificare.
Una immagine, quella del McDormand in apparenza, mi preme di usare ancora e ancora questo giro di parole, sciatta, quella che ha fatto il giro dei media di tutto il mondo, che sui social è stata accolta a suon di “Frances una di noi”, talmente potente da aver in qualche modo sdoganato world wide il concetto di antidivismo, l’icona che diviene tale anche per il non esibire alcun aspetto tipico dell’iconografia, almeno di quella hollywodiana, potente anche in virtù della personalità di chi quella immagine ha veicolato.
Proprio nell’anno della pandemia, dei lock down, dei parrucchieri chiusi e le ricrescite selvagge, dei selfie in balcone in tuta e felpa, dei chili in eccesso messi su per il troppo panificare, ecco che ti arriva una attrice dall’incredibile talento, tre Oscar non è che li si vinca per intercessione divina, che si dimostra umanissima, mortale, lì a ostentare rughe e denti ingialliti dalla nicotina, senza neanche aver fatto un passaggio per una messa in piega dal parrucchiere, né al trucco e parrucco dell’Academy. L’Antidiva, quindi. Una di noi. Una Anna Magnani americana, non nascondermi le rughe, ci ho messo una vita a farmele venire fuori. Quella roba lì.
Mettiamo da parte anche questo.
Poi ricongiungo i puntini, fidatevi, indosso pantaloni di iuta e tolgo le scarpe e fingo di essere Steve Jobs, parola di lupetto.
Ora vi chiedo un po’ di partecipazione, qualcosa in più di star semplicemente lì a leggere, comodamente seduti (che si tratti di stare seduti alla scrivania, se siete tra quanti leggono al computer, sul divano o a letto, se siete tra quanti leggono sul talbet, o sulla tazza del bagno, se siete tra quanti accompagnano con la lettura il momento più intimo della giornata).
Vi chiedo, e pensate voi a quanto può essere anomalo quel che sto per fare, io che parlo con voi, come se voi foste qui davanti a me, a sentirmi o leggermi in presa diretta, quindi pronti a rispondermi, a seguirmi, e non con tutto il lasso di tempo che può intercorrere tra chi scrive e chi poi legge, magari un lasso di tempo che si allunga anche nel mezzo della lettura, arriva una telefonata, qualcuno bussa alla porta del bagno che ha una impellenza, arriva ora di andare a cena, mettiamola così, a me di dar vita a certe stranezze non solo non disturba, non mi mette né a disagio né mi imbarazza, ma anche, cresciuto a furia di massimalismo e scrittura avant-pop, mi diverte, un tentativo direi coerente con se stesso di creare un ipertesto pur su una pagina ferma, ecco, vi chiedo di chiudere gli occhi e lasciarvi andare nel vuoto, alle vostre spalle.
Chiaramente sto metaforizzando, e chiedendo a voi di seguire il filo del mio discorso, perché magari siete con la schiena appoggiata alla testiera del letto, o allo sciacquone del bagno, non potreste anche volendo lasciarvi andare all’indietro, e anche poteste, magari soffrite di emorroide e siete costretti a leggere stando in piedi, nel momento in cui vi trovaste a chiudere fisicamente gli occhi non potreste più continuare a farlo, interrompendo di fatto non solo la lettura, ma anche questo passaggio un filo più sperimentale. Insomma, fate finta di essere in uno di quegli incontri che a volte hanno vita nelle aziende, specie nelle multinazionali, quando tutti i dipendenti sono chiamati a partecipare a questi corsi di automotivazione, sempre affidati a esterni, quasi sempre di Milano.
Ci sono io, che mi sforzerò per una volta di abbandonare la mia pesantissima inflessione anconetana, e ci siete voi, divisi in gruppo. Con voi, al momento, ci sono quattro o cinque dei vostri colleghi, compreso quello che vi sta più antipatico, quello che prova sempre a mettersi in bella mostra col capo, a soffiarvi i clienti migliori. Voi siete in piedi su una sedia, loro disposti su due file, due alla vostra sinistra due alla vostra destra, alle vostre spalle. Io vi dico di chiudere gli occhi, voi li chiudete, il silenzio è così pesante che sembra vibrare, come foste dentro una vecchia fabbrica dove è di scena un rave. Invece siete nella mensa dell’azienda per cui lavorate, momentaneamente adibita a location di questo corso. Io vi dico di lasciarvi cadere, alle vostre spalle, e di farlo senza esitare, perché lì ci sono i vostri colleghi che vi accoglieranno, eviteranno che voi cadiate rovinosamente a terra. È una questione di fiducia, di fiducia cieca, nello specifico di fiducia cieca in me.
Perché ora vi parlerò di un argomento che, in apparenza, avrete capito che la parola chiave oggi è apparenza, non a caso, con quanto detto fin qui non c’entra niente.
Vi parlerò, anzi, di un fatto di cronaca, recente, che però è ricollegabile con una certa facilità a altri casi di cronaca un po’ meno recenti, alcuni dei quali ho trattato, imbastendo una mia teoria, forse avrei dovuto usare il verbo azzardare, perché la mia teoria è piuttosto ardita, un discorso a base di arte e morale, magari ricorderete.
No, non voglio parlare di Marilyn Manson, né di Ryan Adams, che ha da poco annunciato la prossima pubblicazione del suo album Big Colors, album inizialmente atteso nel 2019, primo di una tripletta, tipica del suo stile gargantuesco, e poi bloccato in seguito alle accuse di molestie e allo scandalo, che di fatto ha azzerato la sua carriera, al punto che oggi a definire Big Colors “tanto atteso”, probabilmente, potrei essere solo io, che continuo a considerarlo una delle migliori penne del rock d’autore americano. Non è di loro che voglio parlare, anche se è di loro che poi andrò a fare menzione, visto il tema su accennato, arte e morale. Sia chiaro, il MeToo è lì, nessuno lo tocca, io però mi concentrerei proprio su questo binomio, questo disagevole accostamento, arte e morale.
Voglio parlare di quel che sta per accadere alla tanto attesa, quella sì, biografia ufficiale di Philip Roth, firmata da Blake Bailey, uscita a inizio aprile per Norton, ottimamente accolta dalla critica, a parte qualche rarissima stroncatura, come quella di Laura Marsh sul The New Republic, ennesimo fiore all’occhiello di una carriera di scrittore che lo aveva in precedenza visto occuparsi di altri autori, sempre come biografo, John Cheever e Richard Yates. Le oltre novecento pagine di questo tomo, dal semplice titolo Philip Roth- The Biography, frutto di oltre dieci anni di lavoro, sette dei quali passati al fianco dello stesso Roth, poi la morte dell’autore di Pastorale americana e La macchia Umana, tanto per citare due delle tante opere culto del nostro, ha reso infattibile la cosa, sono appena state mandate al macero dell’editore Norton, che ha fatto questa singolare scelta per una serie di ignominiose accuse piombate addosso a Bailey, nello specifico molestie e addirittura una accusa di violenza sessuale. Accuse rigettate dal biografo, ma talmente pesanti da essere già state considerate come una sentenza, bye bye libro.
La notizia, sia delle accuse, sia della scelta della Norton, ha fatto il giro del mondo, almeno di quello occidentale, perché Philip Roth è un autore considerato tra i più rilevanti del Novecento e del nuovo millennio, perché la sua opera è sempre stata giocata sul filo dell’ambiguità, i suoi personaggi molto somiglianti all’autore, la presenza di alter ego onnipresenti a ingigantire questa stessa ambiguità, accuse di sessismo e anche razzismo rivolte alle opere cui Roth non solo non si è mai sottratto, ma sulle quali ha sempre giocato, divertito, lui che con La macchia Umana ha scritto probabilmente il più impietoso libro su razzismo e ipocrisia.
A tal proposito, questo è l’argomento di cui volevo far cenno, in questo mio capitolo piuttosto ondivago del mio diario del secondo lock down, diario che forse dovrebbe terminare, dal momento che in teoria siamo in zone gialle, in aperture costanti, o quantomeno cambiar nome e tiro, si è espressa Elisabetta Sgarbi, editrice di lungo corso, prima in Bompiani e ora in La Nave di Teseo, creatrice della Milanesiana e regista cinematografica al momento in giro per il mondo con un film sugli Extraliscio, band da poco vista al Festival di Sanremo, anche in quell’occasione lei presente come produttrice, titolo del film Punk da balera. Lei, Elisabetta Sgarbi, senza ombra di dubbio un intellettuale, e io non rientro nel novero di quei minus habens che usa la parola intellettuale con intenti denigratori, tutt’altro, ha sostenuto a piena voce che il libro di Bailey non andasse ritirato, e su questo credo potremmo essere in molti d’accordo, anche distrattamente, andando però oltre, e in questo, ne sono convinto, il gruppo di concordanti diventa più sparuto, diciamo poco più che quello che n un film di guerra verrebbe chiamato un “manipolo di persone”, e sostenendo che le parole “cancel” e “culture”, cioè la nuova tendenza molto in voga in America e arrivata impetuosa anche da noi, è un ossimoro, le due parole sono incompatibili, inconciliabili, danno vita a una aberrazione. Le parole che avete lette, sia chiaro, non virgolettate, sono mie, che condivido appieno questo pensiero, ma sintetizzano il dire di Elisabetta Sgarbi. Perché io ritengo, l’ho scritto più volte, anche in questa sede, che l’arte non possa, attenzione, non non debba, ma non possa essere giudicata secondo la morale, è proprio impossibile. Non voglio citare Caravaggio, davvero abusato, Picasso e il padre che era, Celine o lo stesso Philip Roth, non serve, l’arte non ha nulla a che fare con la morale, e moralizzare un’opera d’arte perché si ritiene che l’autore sia immorale, è addirittura peggio che moralizzare l’arte. Perché e opere sono opere, e se a produrle è stata una persona deprecabile sempre le medesime opere restano. Certo, possono metterci a disagio, possono indurci quasi a provare un senso di vergogna, per apprezzare qualcosa passato dalla testa, dal cuore, dalle mani o quel che è di una persona spregevole, ma è un ragionamento sbagliato, sciocco, inutile. Esattamente per lo stesso motivo per cui, giudicare bene un’opera perché a produrla è una persona lodevole, meritevole di stima, è altrettanto sciocco, umanamente comprensibile ma sciocco.
Riassumendo, è sciocco giudicare secondo morale un’opera, sia che essa sia opera di fantasia, la voce narrante di un romanzo, il protagonista, non necessariamente coincide con l’autore, sia che sia autobiografica, poco cambia, è arte, e è sciocco giudicare un’opera a partire dalla statura morale dell’artista, un’opera non è giudicabile secondo questi canoni, e l’autore non è certo parte dell’opera. Nel bene e nel male, un quadro, per dire, non è bello o brutto a seconda della bontà del pittore che l’ha dipinto, e un quadro non è bello o brutto se quel che ci mostra è moralmente accettabile o meno.
Quindi, non ho letto il libro di Bailey, ma se è vero come molta parte della critica ha sostenuto che si tratti di un dei libri più importanti degli ultimi anni, addirittura un’opera in grado di risollevare le sorti della letteratura, è tanto che le biografie e la non-fiction, penso ai memori, sono stati inclusi nel novero della letteratura, credo che non solo non andava mandato al macero, ma fosse cosa buona e giusta tradurlo in tutte le lingue del mondo. Poi, ovviamente, se lui risulterà colpevole dei crimini di cui è accusato, spero sia l’opera tradotta in tutte le lingue del mondo di un criminale, che dovrà pagare per quel che ha fatto.
Voi direte, ma perché hai messo nella stessa pentola Frances McDormand che si presenta a ricevere il suo terzo Oscar, così, in apparenza, siamo sempre lì, come era per casa e un fatto di cronaca che sfocia nella questione della cancel culture?
Perché credo che il caso della McDormand, attrice che adoro, sia chiaro, e la cui scelta di fottersene delle regole non dette dello star system metta in scena una situazione non troppo diversa da quella di Bailey, parlo di approccio dal punto di vista di chi guarda, non certo nel merito di quanto fatto.
Frances McDormand è una attrice tra le più brave tra le nostre contemporanee, non lo dico per gli Oscar, che diciamolo apertamente, non è che abbiano sempre dato a Cesare quel che era di Cesare, ma entro nello specifico di quanto ha fatto nel corso della sua carriera. È una grande attrice, che per di più non ha manco commesso passi falsi, e questa è una indubbia nota di merito. Ma pensare che quel gesto sia un gesto naturale è naif, ma davvero tanto. Come è naif non ammettere che quel gesto ci è così tanto piaciuto perché incarna una sorta di rivalsa di chi si sente legittimamente normale verso quel mondo lì, il mondo dello spettacolo, di cui la McDormand fa parte a pieno titolo. Lei indossava un abito di Valentino, non era andata a H&M a prendersi qualcosa a venti euro che non sembrasse preso al bancone della Caritas, per intendersi. E il suo palesare quel look così sciatto, la ricrescita, è una scelta poetica molto precisa, specifica, di chi sa di potersi permettere quel che vuole, perché è universalmente riconosciuta come brava, perché è lì in quanto nominata e addirittura vincente. Fosse stata normale, fossimo stati noi, col cavolo che sarebbe andata spettinata e con la ricrescita, avremmo passato il giorno prima dal parrucchiere e dall’estetista, e avremmo chiesto al truccatore dell’Academy di fare i miracoli, pensate a come in genere appaiono gli ospiti “comuni” nei programmi tipo quelli della De Filippi, sembra che stiano andando alla Prima Comunione del figlio, mica al mercato a comprare il pesce. Solo che lei, la McDormand è brava e fa bei film, per cui noi tifiamo per lei a prescindere, anzi, eleggiamo un gesto che nei fatti è tutto fuorché da antidiva, semmai è il più divistico ipotizzabile, a iconografico, travisando la realtà. Fosse stata una che fa film di cassetta, o che si fosse messa in evidenza nel tempo come una brutta persona, sul profilo personale e quindi morale, ne avremmo probabilmente riso, magari facendo anche del body shaming (non fingiamo di essere così radicali, anzi, non fingetelo voi, io non lo sono affatto, su questo).
Esattamente come finiamo per giudicare impubblicabile un libro, o un disco, perché il suo autore si è dimostrato una persona biasimevole e da condannare prima a gran voce e poi in tribunale.
Siamo in balia delle apparenze, questo è il punto, e tendiamo a giudicare tutto a partire da una sorta di empatia, di tifo, che ci obnubila la vista. Se però davvero decidiamo di essere ortodossi, io nel lavoro lo sono, eccome, cerchiamo di esserlo sempre, provando a cominciare dall’essere lucidi, altrimenti tra noi e quelli che vogliamo giudicare non ci sarà davvero niente di diverso. E per una volta tanto questo non sarà encomiabile.