Parto da due fatti di cronaca spiccia, personale.
Cose che mi sono accadute sui social, prescindibili, quindi, ma sintomatiche di quel che passa il convento oggi, foto plastiche della contemporaneità, mi sentirei di azzardare.
Primo, una mia collega, che conosco di vista, e che a dirla tutta ho identificato come mia collega dopo essere andato sul suo profilo e aver letto che in effetti lo è, dopo averla riconosciuta guardando la foto profilo, fa un post ambiguo, nel quale fa illazioni sul fatto che ci sia una lobby di otto nostri colleghi che possono avere in anticipo notizie, scoop, precluse agli altri, con un chiaro riferimento al Concertone del Primo Maggio e al suo presentatore, tenuto segreto durante la conferenza stampa di lancio del cast.
Nello scrivere il post, la collega, non solo sottolinea quel numero, otto, con chiaro riferimento a un articolo apparso giorni fa su TPI, a firma Franco Bagnasco, nel quale si parla appunto della richiesta da parte di una sorta di SuperLega di quotidianisti che avrebbero chiesto ai vari uffici stampa di avere un trattamento diverso dal resto dei colleghi, specie da quelli delle free press e della rete, una sorta di ius primae noctis, un diritto di approfondimento precluso agli altri, fatto che era raccontato con un certo sconcerto e ironia.
Chiaramente, il fatto che parte di quei facilmente identificabili otto siano i tre Pool Guys, ovvero Laffranchi del Corriere, Dondoni de La Stampa e Giordano de Il Giornale, di cui io sono a lungo stato cantore, il riferimento alla SuperLega, qualche riga sopra, è proprio in riferimento a un tweet piccato da parte di Dondoni, uno dei Trettré in questione, lì a ribattere in quel modo scomposto al pezzo di Bagnasco, ha trovato molti concordi sul fatto che fosse un gesto intempestivo e sbagliato, come un voler pretendere un trattamento diverso a partire da non si sa bene che lignaggio o diritto ancestrale.
Questo a prescindere dal fatto che, poi, nei fatti, a qualsiasi conferenza è sempre seguito lo spazio dedicato a approfondimenti singoli, quasi sempre a vantaggio proprio dei quotidianisti (per la cronaca, quando ne ho chiesti li hanno sempre concessi anche a me, ma io evito quasi sempre le conferenze, proprio perché poco ho interesse a riportare quel che un artista ha da dire a tutti quanti).
Come dire, i modi erano sbagliati, vagamente massonici, ma magari un qualche senso la richiesta poteva anche averla, e lo dice uno che di quegli otto ovviamente non fa parte.
Quel che però mi induce a citare il post è il fatto che la collega, che tanto per non essere accusato di predicare bene e razzolare male è Antonella Nesi, riconduceva a questa metodologia denunciata da Bagnasco, il riferimento agli otto era inequivocabile, un fatto che, fino a prova contraria, poteva essere frutto del caso, cioè che una notizia non fosse stata data in conferenza stampa e poi invece fosse comparsa su quei quotidiani lì, senza però fare i nomi né dei giornali, né dell’ufficio stampa coinvolto, Vitanza di Parole e Dintorni, né, tantomeno, dell’evento, Il Concertone del Primo Maggio e il suo organizzatore Massimo Bonelli. Per la cronaca lo scoop incriminato era che a presentare il Concertone sarebbe stato Stefano Fresi, fatto taciuto da Bonelli durante la conferenza ma uscito su alcuni quotidiani l’indomani.
Mi sono sentito quindi in dovere di dire che se si vuole denunciare qualcosa, di prassi, sarebbe bene fare i nomi, onde evitare di scivolare nella facile e comoda illazione. Non ottenendo però altro che vaghezza. Il coraggio, direbbe don Abbondio, etc etc.
Quel che è successo dopo, però, mi sembra altrettanto interessante.
Prima ricevo un messaggio da una collaboratrice di Vitanza, che mi informa che in effetti non è da loro che è passata l’indiscrezione, e ci sta, non era di Vitanza che mi stavo occupando, e se lo avessi voluto fare lo avrei fatto chiamandolo, io invitavo la Nesi a fare il nome del capo di Parole e Dintorni non perché pensassi che la cosa fosse in effetti andata come ambiguamente raccontato, ma perché, conoscendolo, immaginavo avrebbe in qualche modo risposto, come puntualmente accaduto nel pomeriggio.
Poi ho ricevuto la telefonata del promotore di quella richiesta, quella raccontata nel pezzo di Bagnasco, il quale ci ha tenuto, legittimamente, a spiegarmene i motivi, motivi che, ripeto, non condivido ma capisco, convincere un direttore di un quotidiano cartaceo a concedere spazio a notizie che nel mentre sono uscite, identiche e raccontate con le medesime parole su siti e magazine online è lavoro improbo, immagino, e il tipo di approfondimento dei cartacei è per loro natura diverso, normale che si chiedano spazi diversi.
Ovvio, ripeto, che avere nelle proprie fila i Pool Guys sia piuttosto disagevole e imbarazzante, perché si finisce per rimanere macchiati dei peccati altrui, ma ognuno ha il proprio karma, mica è un caso che come Liv Tyler io ami ballare da solo.
A queste chiamate, cosa che non ha mancato di divertirmi, ne sono seguite molte altre, di altri addetti ai lavori, dal che ho scoperto che un commento su Facebook ha una rilevanza assai più ampia di quel che pensassi, e che alla soglia dei cinquantadue anni resto il ghepardo di una volta.
La faccenda si è chiusa con Antonella Nesi che, nel pomeriggio, dopo commento chiarificatore di Vitanza, ha fatto un altro post nel quale, in maniera velatamente ironica, ricostruiva l’accaduto, come a voler metterci una pietra sopra, ma anche a voler lasciare sulla pietra un cartello con scritto “Scemo chi legge”.
Passo quindi alla seconda faccenda che mi ha colpito, accaduta sempre sui social.
Inizia a circolare viralmente la notizia che del famoso concerto esperimento tenuto a Barcellona, dove una band ha suonato in un locale al chiuso per cinquemila persone, tutte risultate negative al tampone e presenti munite di mascherine e senza distanziamento, dopo due settimane, solo sei sono risultate positive, tutte asintomatiche e in almeno quattro casi con contagio avvenuto dopo e altrove. La notizia è stata condivisa ovunque con grande entusiasmo, della serie, bene, allora possiamo ripartire.
Ora, cosa ci sia da esultare dall’apprendere che se tieni cinquemila persone in un posto, tutte risultate negative al tampone, con mascherina, nessuno si contagi, a me, personalmente, sfugge. Se non sono positivo come mai potrei contagiare qualcuno?
Uno dirà, eh, ma i tamponi rapidi non sono così certi, vero, ma non c’era bisogno di dimostrarlo facendo un concerto che, stando agli organizzatori, è costato qualcosa come novantamila euro, concerto che prevedeva comunque l’arrivo con molte ore di anticipo, insomma, una situazione buona per un esperimento, non per fare da modello per qualcosa di praticabile in scala. Il tutto, poi, consapevoli che la filiera della musica, quella che stando a quanto annunciato da Assomusica nell’ultimo anno ha perso il 97% dei propri introiti, non è certo sui concerti piccoli che si poggia, ma sulle grandi manifestazioni, dove controllare i tamponi di decine di migliaia di persone diventerebbe impensabile, come gestire tutta la logistica, l’arrivo, i bagni, le partenze.
Ho provato a far notare questo, e ovviamente sono passato per uno che non ha a cuore il sistema musica, che vuole solo gli aiuti, che non vuole le ripartenze.
Fatto curioso, tenendo conto che mi occupavo del sistema quando in apparenza era tutto lustrini e paillettes, champagne e distese d’oro, ma va bene così, è il mondo dei social, baby.
In sostanza mi si è dato del Galli della critica musicale, uno che vuole tutto chiuso a oltranza, questo a prescindere dal fatto che quel che stavo sostenendo fosse inoppugnabile, e che per di più fosse uno sprone a concentrarsi sui protocolli praticabili, invece di star lì a inseguire la pancia della gente. Per dirla con il mai abbastanza compianto Freak Antoni, non c’è gusto in Italia a essere intelligenti.
Metto insieme queste due situazioni, in apparenza slegate tra loro, perché in effetti legate sono, e perché, almeno per qualche ora, mi hanno concesso l’illusione di essere tornato a prima del Covid, quando passavo il tempo a commentare lo stato dell’arte al telefono, con addetti ai lavori, o sui social, fatto che potrebbe sembrare catalogabile come “perdere tempo”, ma che nei fatti è parte integrante del mio lavoro.
Credo che un grosso problema del mondo dello spettacolo, inteso non come concetto astratto, gli amici artisti che ci fanno divertire e emozionare cantati dal Presidente Conte, ma come filiera e comparto economico capace di generare una seppur minima porzione di PIL, circa il 3%, ma che supera il 10 se ci si mette tutto l’indotto, settore che coinvolge quasi un milione di persone, ecco, credo che un grosso problema del mondo dello spettacolo sia che da sempre si muove su ambiguità e aleatorietà.
Niente è mai ben definito, col risultato che, quando il palazzo crolla e tutto diventa fumo e macerie anche solo fare la conta dei morti diventa difficile, se non addirittura impossibile.
Da una parte ci si è sempre mossi a tutti i livelli per consorterie, vezzo questo tipicamente italico ma che, in questo ambito, sembra aver trovato un humus davvero fertilissimo. Quindi è vero che ci sono dei colleghi che si sentono più colleghi di altri, anche se oggi il motivo di quel loro sentire, cioè lo scrivere per i grandi quotidiani nazionali, quelli di carta, è diventato più sinonimo di irrilevanza e luddismo che fatto di cui vantarsi, i lettori dei giornali di carta sono sempre meno, è un fatto, e chi, leggendo i giornali di carta, cerca le pagine di spettacolo, sparute e cianotiche, è una minima porzione di una minima porzione, al punto che, non fosse stato per Nostra Signora della Televisione, al secolo Maria De Filippi, che li ha posti tutti davanti a una telecamera, di quelle firme oggi si sarebbe persa traccia, sempre che avere una faccia riconoscibile abbia un qualche valore in comunicazione o nel mondo dell’informazione, quindi sì, esiste una lobby di giornalisti, e esiste anche qualche ufficio stampa che a quella lobby ha sempre riservato delle delizie, esclusive, cene, pranzi, video, quel che è, ma è pur vero che esiste un’area grigia ancora più diffusa che ha preso a comportarsi non come una lobby, ma come il popolo francese che, caduta la monarchia, ha goduto nel vedere le teste rotolare, tutti a sputare astio e livore, incuranti del male che anche questo fa alla categoria. Categoria di cui, lo dico per l’ultima volta, non faccio parte, io gioco una mia partita a latere, non cerco notizie, non inseguo scoop, ballo da solo, come Liv. Come in una guerra tra bande, per intendersi, o stai da una parte o dall’altra, al punto che, quando anni fa, ho attaccato in uno dei miei pezzi non tanto i Pool Guys, sui quali la mia letteratura è amplissima, ma i ragazzini che mettevano i cuoricini agli artisti, come a voler dire anche ai piccoli che cadere nella trappola del narcisimo è un attimo, una collega che scriveva per Libero ci tenne a dirmi che così facendo ero ingeneroso, perché me la prendevo con la parte sbagliata.
Difficile quindi che ne esca qualcosa di buono.
Anche perché nel mentre è un continuo rincorrersi di scosse e cataclismi, crolli e macerie, i ristori che non arrivano, gli artisti che tacciono, il sistema che viene preso in giro dalla propaganda di governo che annuncia aperture nei fatti impensabili, e qui veniamo al secondo punto. Non sono tra quanti hanno goduto delle chiusure. Leggo ovunque che tanta gente ci ha fatto su il grano, ma io non sono tra questi. Ho perso un sacco di lavori, e tuttora buona parte del mio indotto è ferma al palo. Prima del Covid avevo una vita sociale piuttosto vivace, seppur io mi sia sempre nascosto dietro i panni dell’orso misantropo, andavo almeno a due concerti la settimana, incontravo gente, mi muovevo. Ora sto sul divano, immobile. Ma pensare che tutto ripartirà perché a Barcellona hanno fatto un esperimento in perdita o perché il governo annuncia che ora i teatri e le sale concerti sono aperte, è una idiozia conclamata.
Per far partire la filiera dei live servono protocolli, ancora inesistenti. Ne sono stati proposti tanti, penso a quello studiato da Claudio Trotta, per dire, ma ancora il governo a riguardo non si è pronunciato. Hanno solo detto, ora è aperto, ripartite. Come se non servisse avere tempo per programmare, le aperture sono vincolate ai colori delle regioni, vai tu a arrischiare una programmazione incerte, prevendere, organizzare, gli artisti devono produrre i loro live, provare, allestire. Non si fa in quattro e quattr’otto. E non si fa così. Col coprifuoco, poi, che rende il tutto impraticabile. Leggo, sempre sui social, chi propone di fare i concerti verso le 19, come a Londra. Solo che da noi alle 19 ancora la gente è di ritorno dall’ufficio, sempre che non stia lavorando, e in genere ci sono tante regioni dove si mangia tardi. Non chiudiamo tutto alle 17, come al nord Europa, non scherziamo.
L’impressione è che sia il classico contentino, e che nei fatti nulla di concreto si stia facendo, come del resto in tanti altri campi. Che si voglia far vedere che ci si pensa, certo, ma nei fatti si sta pensando a altro, chi se ne frega del teatro o dei concerti.
Bene ha detto Manuel Agnelli quando ha specificato che andare in tour così sarebbe un suicidio. Lo possono fare solo i piccoli, o quelli con strutture agilissime. E la filiera è retta decisamente più dai grandi eventi, quelli capaci di muovere decine di migliaia di persone a botta, con tutto quel che quelle persone poi porteranno, tra alberghi, ristoranti, viaggi. Non saranno mica i concertini nei mini club a risollevare il settore. Sempre poi che la gente abbia soldi per andare ai concerti e voglia di andarci, magari correndo dei rischi, fatto che mettere sul piatto tanto quanto gli altri aspetti del discorso, io, per dire, non andrei mai in un palasport a seguire un concerto, stanti le cose come oggi, e neanche in uno stadio o una grande arena. Piuttosto continuo a stare sul divano, in balia dell’apatia.
Io credo che questo lungo periodo di stop sarebbe dovuto servire a cercare innanzitutto di far ordine dentro il settore, cancellando tutte le zone grige, le gestioni fantasiose di certe cooperative, i tanti lavori in nero, le professionalità non riconosciute, e anche per irregimentare il comparto, solidificarlo per poter affrontare il futuro in maniera non ondivaga, e soprattutto senza correre ulteriori rischi negli anni a venire. E credo che per farlo il Governo si sarebbe dovuto sedere a un tavolo con tutte le parti, non solo con le solite cricchette che vengono consultate, per questo avrei amato sentire la voce tonante di quegli artisti che, se parlano, vengono ascoltati, ripresi dai giornali, cui i politici non possono non rispondere perché muovono numeri a volte anche più grandi dei loro. Invece niente, i consigli su come indossare la mascherina, gli #iorestoacasa di turno, ma niente richieste di attenzione, niente prese di posizioni radicali.
Meglio dire “da domani è tutto aperto” e inseguire il sogno del concerto con 5000 spettatori di Barcellona, meno impegnativo che studiare soluzioni concrete e tirarsi su le maniche.
Del resto, se a raccontare la situazione è chiamata una categoria di giornalisti che non riesce a andare oltre le guerricciole tra bande, il “io sono io” alla Marchese del Grillo versus i “questi chissà chi si credono di essere”, direi che c’è davvero pochino in cui sperare.
Io, per intendersi, sto facendo un discorso concreto, non perché non ami dar sfogo alla mia vena poetica, ma per amor di lavoro è sulla concretezza che ora devo concentrarmi. Se poi vogliamo dire che andrà tutto bene diciamolo, basta solo imparare a crederci davvero.