Uno fa presto a dire, eh, ma in fondo sapevi già a cosa andavi incontro, di cosa ti meravigli?
Uno fa presto a tirare in ballo il senno di poi, senno di poi che da che mondo e mondo non ha evitato all’uomo, ma anche agli altri esseri viventi, le gazzella ogni giorno si sveglia e sa che deve correre per non farsi prendere dal leone, è vero, ma poi si ferma nella radura e ci resta secca, senno di poi, quindi, che da che mondo è mondo non ha evitato all’uomo, occupiamoci di lui, di incappare in errori, a volte anche fatali, figuriamoci in quelli che fatali non sono, presto rimossi dal subconscio, tutti pronti a ripeterli in un nonnulla.
Uno fa presto, più che altro, a puntare il dito, e mai come in questo caso anche solo l’idea di usare la parola dito è fuori luogo, sconveniente, poco delicata, se non addirittura provocatoria, irriverente, eversiva.
Il fatto è che, appunto, la storia dell’uomo ce lo insegna, per quanto uno si possa presentare all’appuntamento col destino preparato di tutto punto, non dico solo psicologicamente, ma anche fisicamente, allenato, vigile, per quanto uno possa prendere tutte le precauzioni del caso, fare strategie, azzardare difese, alla fine le cose vanno sempre e esattamente per come sapevamo sarebbero andate, senza lasciare spazio a variabili e sorprese alcune.
Cioè, sorprese… parliamone.
Perché, qui fossi più carenato nelle conoscenze di psicologia potrei sì dilungarmi e addentrarmi in discorsi complessi, ma non lo sono, credo che l’arrivare all’appuntamento col destino, chiamiamolo ancora romanticamente così, sprovvisti di uno straccio di preparazione, parlo di preparazione reale, altrimenti sapremmo poi ribattere colpo su colpo, senza subire, in qualche modo una sorpresa la implichi.
Non dico che ci siamo segnati la cosa con un promemoria sullo smartphone e quello, poco attendibile, non ce lo ha ricordato, come succede con la sveglia proprio il giorno che non ci possiamo permettere di arrivare in ritardo, è evidente, parlo di come a volte si tenda, io qui tirerei in ballo appunto il subconscio, ma sicuramente sbaglierei, a rimuovere certi passaggi anche futuri, prevedibili, della nostra vita, nascondendo neanche troppo metaforicamente la testa sotto la sabbia, come sin da piccoli ci hanno raccontato con dovizia di particolari tendano a fare gli struzzi, struzzi che però, esattamente come noi, è di questo che si sta parlando, no?, lasciano fuori il resto del corpo, nello specifico, provate a mimare l’atto di infilare la testa sotto la sabbia, provateci anche solo mentalmente, che magari vi viene l’affanno, siete di quelli che fanno versi anche solo per infilarsi i calzini, lo so, lo faccio anche io, i cinquantadue sono lì, dietro l’angolo, lasciano fuori il resto del corpo, in particolare le terga, qui volevo arrivare.
Che se uno pensa di poter ribattere ai colpi del destino, della vita, salvarsi da un predatore, semplicemente infilando la testa sotto la sabbia, beh, direi che un qualche problema a gestire il proprio rapporto con la realtà ce l’ha, e neanche ne è abbastanza consapevole da improntare un risposta di facciata, si fa trovare con la faccia impiastricciata di sabbia e i calzoni, metaforici o meno, calati.
Se siete tra quanti sono cresciuti col poster di Che Guevara in cameretta, quello con la nota frase “senza perdere la tenerezza”, o più in generale siete tra quanti ormai passano le giornate sui social a innalzare simboliche barricate contro i bulli di turno, la scritta DDL Zan fatta con il pennarello con la punta spessa sul palmo della mano, DDL Zan sacrosanto, intendiamoci, è sullo scriverlo sulle mani che ho seri dubbi, non per dire, lo ha fatto quella di “meglio fascista che frocio”, beh, dai, un minimo di empatia verso chi si lascia sorprendere immancabilmente dal destino dovreste provarla, da che mondo è mondo si fa tutti il tifo per Willie Coyote, mica per l’implacabile Beep Beep, o per lo sfortunato Paperino, non certo per il fortunatissimo Gastone o il ricchissimo Paperon de Paperoni.
Nei fatti, il destino arriva, come è sempre arrivato, e ci trova impreparati, magari semplicemente distratti, o, peggio, ingenuamente convinto che non fosse da noi che stava per bussare, un pacco di Shein atteso da tempo che si manifesta sotto le spoglie sciatte di un ufficiale giudiziario pronto a consegnarti la notifica di un qualche atto.
Ora star qui a fare un esempio specifico potrebbe suonare superfluo, ciascuno di voi, ciascuno di noi, sa bene di cosa sto parlando, non è mica questione di fortuna o sfortuna, occasioni o illusioni, la vita è vita, però è evidente, questo è un diario, non un trattato di filosofia, per altro in caso sarebbe un trattato di filosofia spiccia, roba tipo Il primo bicchiere di birra, quel tipo di saggetto da supermercato, e trattandosi di un diario, non servono didascalie o disegnini, è ovvio che ogni singola parola dovrebbe prendere le mosse da un fatto realmente accaduto al suo autore, che poi sarei io, un accadimento, una situazione reale, la mia vita.
Questo mio porre così tante parole, lo so che sono tipo da tante parole, figuriamoci, è il mio stile, la mia cifra, e scrivere, cioè dar corpo alla mia cifra e il mio stile, è il mio lavoro, questo mio portarvi a spasso per la pagina, imbambolandovi di chiacchiere, indicando a destra e sinistra, gesticolando, buttando dentro il discorso quelli che a ben vedere anche a occhio nudo sembrano diversivi belli e buoni, dovrebbe già avervi fatto intuire che quel di cui sto per parlarvi, forse, sempre che io intenda smetterla con questo mio girovagare a zigzag, questo mio perdermi e farvi perdere dentro le frasi, come sempre arzigogolate, complesse, ma in apparenza più arzigogolate e complesse del solito, quasi con un compiacimento che però, sempre a occhio nudo, non sembra tanto dettato dall’aver messo a segno un gol particolarmente spettacolare, di quelli che ti fanno correre sotto la curva, la maglia alzata fino alla testa, così da esibire gli addominali a tartaruga, se sei tipo da addominali a tartaruga, o una simpatica maglietta con dedica, in genere rivolta alla propria donna o a un figlio nato o in arrivo, modo neanche troppo singolare per annunciare una futura paternità questa, lì a beneficio di telecamera, no, niente di tutto questo, qui si tratta più di un compiacimento vagamente morboso, di chi ha una cicatrice, anche piuttosto evidente, e invece di nasconderla la mette in evidenza, passandoci continuamente su un dito con un gesto che alla lunga diventa un tic, un vezzo, qualcosa di caratterizzante, non dico qualcosa che ricordi la ormai anche da me troppe volte citata storiella dei giapponesi che evidenziano le crepe aggiustando i vasi rotti con dei fili d’oro, ma comunque qualcosa che guarda in quella direzione, se ha fatto successo Denny De Vito, ti dici, come potrei non far successo io, che non sono un nano e ho un viso decisamente più piacente, anche se nel dirlo, nel pensarlo dovrei precisare, ti viene da chiederti se oggi come oggi dire nano sia qualcosa di praticabile, e intendi per praticabile qualcosa che non implichi, poi, finire in mezzo a una qualche shit storm, e sai che chiamare shit storm quello che oggi sembra una legittima stigmatizzazione di un errore divenuto tanto quotidiano da passare per naturale è a sua volta a rischio di shit storm, ma non è di questo che vorresti domandarti, quanto piuttosto del poter chiamare un nano nano, senza per questo passare per razzista, anche se il nanismo non è tirare in ballo le razze, un tempo si diceva razzista chiunque praticasse una qualche forma di discriminazione basata su un qualche tipo di differenza, fosse essa di razza, religione, sesso, oggi mettici pure l’aspetto fisico, il body shaming, è quello di cui ti stai interrogando, anche se dire persona particolarmente bassa per dire nano fa quasi più specie che dire nano, ti sei ripetuto spesso, e ricordi di quella volta che, sono passati ormai quasi venticinque anni, in un circolo letterario di Macerata, eri uno scrittore alle prime armi, ancora forse non era uscito neanche un libro a tuo nome, solo qualche racconto su rivista e in un paio di antologie, e tu eri lì, in questo circolo culturale di Macerata, quando hai deciso di acchiappare il like del pubblico, venticinque anni fa se qualcuno avesse detto “acchiapare un like” lo avresti guardato come se quel qualcuno se ne stesse lì, di fronte a te, col coso di fuori, questo senza essere il tizio Louis C.K. e tu una stagista, ma siamo nel 2021, non è che mentre racconti un aneddoto di un fatto accaduto nel passato tu debba necessariamente usare le parole che si usavano in quel passato, le serie tv come Bridgerton hanno dimostrato come usare musiche modernissime come colonna sonora di storie che si sono svolte in epoche passato sia possibile, in realtà il primo a farlo, a mia memoria, era stato Buz Luhrmann con Romeo + Juliet, un giovanissimo Leonardo Di e una altrettanto giovanissima Claire Danes, la medesima Claire Danes che confondo sempre con Anna Paquin, si parlava poco fa di serie tv, Anna Paquin conosciuta bambina in Lezioni di piano di Jane Champion e che poi avremmo visto di sangue ricoperta, solo di sangue ricoperta, per intendersi, nell’ormai vintage True Blood, converrete con me che quando si tratta di portarvi a spasso per far perdere le tracce, nello specifico le mie tracce, sono un asso, altro che correre sotto la curva con la maglia alzata, dovrei semplicemente fermarmi e alzare un dito al cielo, tanto basterebbe, perché ridendo e scherzando ormai non vi starete neanche più a ricordare quale fosse, da principio, il filo del discorso, il capo del filo del discorso, a dirla tutta, cosa cioè io stessi per affrontare, con neanche troppo velato imbarazzo, al punto da decidere di cominciare questo contortissimo giro panoramico, col solo scopo di rimbambirvi, lì stesi sul divano, un braccio calato verso terra, un filo di bava che corre giù dal labbro pendulo, come un Homer Simpson qualsiasi, e adesso potrei serenamente attaccarci che giorni fa è andata in onda l’ennesima puntata dei Simpson con ospite un artista uscito dalla scena musicale, praticamente se non sei passato da una puntata dei Simpson non sei nessuno, artista che però, a differenza di altri, da Bono ai R.E.M., passando per chiunque, è talmente bilioso e iracondo da non essere neanche stato chiamato col suo nome reale, certo, faceva un po’ ridere la cosa, perché non è che se prendi una tipologia piuttosto nota di personaggio, sia da un punto di vista estetico che poetico, lo descrivi cioè somigliante all’originale, fisicamente, e gli crei pure intorno un immaginario che coincide preciso preciso col suo immaginario, stiamo parlando di un esistenzialismo da cameretta, certo, ma anche il veganesimo, le accuse di simpatia col nazismo, la musica di sottofondo a farla da padrona, poi basta cambiargli il nome per cavartela così, a buon mercato, infatti lui, Morrissey, è di Morrissey che sto parlando, non foste rimando incastrati nella vicenda della SuperLega lo avreste sicuramente saputo, del Morrissey vagamente riconducibile al Morrissey giovanile, quello degli Smiths, seppur mashuppato con tutte le stramberie sopraggiunte nel tempo, ha sbroccato e li ha accusati di averlo attaccato per tutta quella serie di motivi per cui, oggi come oggi, se attacchi qualcuno in un nonnulla viene sommerso di guano, però, siccome a fare quelle accuse è stato Morrissey, cioè uno che ha sempre palesato quelle sue simpatie sovraniste e vagamente filonaziste, ovviamente nessuno ha fatto nulla a riguardo, nessuna campagna di difesa d’ufficio, già ai Simpson è toccato ingoiare il rospo per quella faccenda del doppiatore di Apu, il titolare dell’emporio indiano di Sprignfield, un bianco caucasico che gli dava voce facendo una inflessione scema, da indiano, o meglio, non vorrei subire lo stesso trattamento anche io, già non è che me la stia vedendo benissimo, la voce scema col quale chi vuole rendere gli indiani macchiette dà voce agli indiani, che è un po’ come chi vuole rendere macchiette i cinesi dà voce ai cinesi, nel caso dei cinesi la erre che diventa elle, è ovvio, magari accompagnata dagli occhi fatti a mandorla, come del resto recentemente hanno avuto l’ardire di fare in diretta a Striscia la Notizia i due conduttori, Jerry Scotti e Michelle Hunziker, salvo poi, dopo le dure critiche partite ovviamente dalla puritanissima America, chinare il capo, capo cosparso preventivamente di cenere, e chiedere umilmente perdono alla comunità cinese, esattamente come in precedenza era accaduto a Dolce e Gabbana, anche in questo caso, sembra, all’origine del tutto una faccenda di affari e mercato, direi che milleduecentosettanta parole, tante sono, ora milleduecentosettantacinque, milleduecentosettantasei, ci siamo capiti, milleduecentosettanta, tra voi, toh, diciamo anche noi, mi ci metto anche io, e quello da cui volevo distrarvi direi che sono abbastanza, e so che questo mio avervi riportato al punto di partenza, svelandovi i reali motivi di questo mio tergiversare, seppur di tergiversare quantomai stiloso, in qualche modo ne ha vanificato l’effetto, come uno che volesse appunto distrarre qualcuno e continuasse a ogni occasione a ricordare a colui che vuole distrarre il motivo della distrazione cui lo sta sottoponendo, anche se nel caso specifico non è che voi sappiate qual è il motivo del mio tergiversare per distrarvi, sapete, ve l’ho detto, che è una faccenda legata a un qualche imbarazzo, ma non sapete esattamente di cosa sto parlando, sapete, piuttosto, che voglio appunto distrarvi, l’ho svelato a suo tempo, e ve l’ho risvelato ora, solo e esclusivamente per gigionismo, per un vezzo neanche troppo nascosto di volersi vantare delle proprie capacità, come un Omar Sivori, questo me l’ha raccontata mio padre, io non ero neanche nato al momento dei fatti, che preso puntualmente a calci dal suo marcatore, durante una azione di gioco, scartata mezza difesa e giunto solo davanti alla porta sguarnita decide di tornare sui suoi passi per scartare il terzino troppo maldestro, andando poi lui a segnare, non io, perché ormai l’ho tirata troppo per le lunghe e credo sia giunto il momento di chiuderla qui, missione miseramente fallita per mia stessa mano, e il fatto di ammetterlo non rende certo meno critica la mia posizione, in questi casi non funziona così, non c’è il corrispettivo di quello che in giurisprudenza è il patteggiamento, millesettecentoerotti ormai le parole vanificate per star qui a bullarmi, che poi ‘sta cosa del bullo e del bullismo mi ha sempre fatto strano, perché dalle mie parti, Ancona, Marche, dire bullo, almeno quando io ero piccolo, equivaleva a dire figo, a dire cool, “sei bullo un bel po’” era la massima espressione di stima da rivolgere a qualcuno che si fosse messo in evidenza per qualcosa di clamoroso, mentre oggi dire bullo equivale a dire sei un gradasso arrogante e anche grezzo, bullismo una delle massime accuse rivolgibili, alla faccia di Bulli e pupe, vallo tu a dare della pupa una donna, del resto, ti troveresti impalato come fossi capitato nel giorno sbagliato alla corte del Conte Vlad, Vlad l’impalatore, quello che in qualche modo è diventato nell’immaginario collettivo Dracula, nel cui castello, a Bran siamo andati con la nostra famiglia qualche anno fa, quando ancora pensare di fare una vacanza che contemplasse il prendere aerei, girare, andare per ristoranti e castelli, sembrava cosa fattibile, che poi protagonista di Bulli e pupe era Marlon Brando, ungi oggi col burro il le terga di una Maria Schneider prima di sodomizzarla, così, senza preavviso, vedi poi che fine ti farebbe fare la prima Michela Murgia di passaggio, a te e a Bernardo Bertolucci, questo è un passaggio che suppongo vi resterà in mente a prescindere dal mio dirvi, ora, di tenervelo bene a mente, non manca molto che capirete il perché di questo mio dire, e adesso basta davvero, direi che è arrivato il momento di fermarmi e andare oltre, stop.
Il destino arriva, non ce n’è, non siamo mai sufficientemente preparati a accoglierlo come si deve, o meglio, come ci dovremmo.
Lo dico perché, seppur sapessi che prima o poi sarebbe capitato, e magari potevo anche intuire, così, andando un po’ oltre la superficialità di un approccio agli aspetti sanitari molto basica, è successo che l’altro giorno, mentre me ne stavo serenamente disteso a pancia all’aria su un lettino di uno studio medico, le gambe piegate con le ginocchia verso l’alto e le piante dei piedi appoggiate perpendicolarmente, così, di punto in bianco, mi sono trovato un dito del medico che mi stava visitando nel retto, che poi è un modo scientifico per dire qualcosa che col tempo è diventata metafora efficacissima di quando le cose non vanno per il verso fiugsto, ispezione rettale, la sua, per altro approfondita e anche piuttosto dolorosa.
Quando superi una certa età e vai a fare una visita inerente alla prostata, in effetti, capita, e la cosa è talmente nota che ci si scherza su, il gesto di infilarsi il guanto di lattice e muovere le dita come per calzarlo bene è un classico modo per dire, occhio, che ti sto per infilare un dito laggiù, metaforicamente sto per farti del male, punirti, qualsiasi cosa sia ascrivibile a quel luogo oggi diventato infrequentabile che l’ambiguo terreno dell’omofobia all’acqua di rose, tutti diciamo “vai a prendertela in quel posto” o “l’ho presa in quel posto”, sto praticando una censura del linguaggio per tutelare quanti si ritengono particolarmente sensibili ma sapete tutti cosa si intende per “quel posto”, e si dice così per indicare un insulto o una situazione nella quale ci è andata male, e senza voler genericamente sostenere che gli omosessuali pratichino sempre e comunque il sesso anale, e che per di più il sesso anale sia solo inerente gli omosessuali, è evidente che in questi casi è al mondo degli omosessuali che ci si riferisce, e ci si riferisce così senza intenti omofobi, sfido chiunque a dire il contrario, mi sono spesso interrogato sul perché questo linguaggio sia proprio anche del mondo omosessuale, cioè di coloro che questo linguaggio, seppur bonariamente o involontariamente, prende per il culo, toh, di nuovo.
Nei fatti mi sono trovato un dito in culo, senza preavviso, io che ero convinto quella fosse una sorta di visita preliminare.
Invece, zac, eccolo lì e eccolo lì a perlustrare, senza neanche troppa fretta. Chissà come deve essere fare un lavoro che prevede che tu passi parte delle giornate infilando diti nel retto alla gente, se te la vivi come una sorta di divertissement, si stenda pure, oops, eccomi, o se invece con un po’ di imbarazzato disagio, suppongo che se ne vedano e sentano di ogni tipo.
Nei fatti, così, per la cronaca, la visita è andata bene, niente da dichiarare, come si dice in questi casi, ma resta che, mentre non me lo aspettavo, un tipo mi ha infilato un dito in quel posto, cogliendomi di sorpresa.
Star ora qui a imbastire un parallelo tra quel che ci è successo un po’ a tutti nell’ultimo anno e due mesi e quel dito, credo, sarebbe svilire un discorso letterariamente e letteralmente un filo più complesso e ambizioso, uno non spende così tante parole dentro una unica lunghissima frase per poi dire, oh, raga, è arrivata la pandemia e ce l’ha buttato a tutti in quel posto, dai, non scherziamo.
Solo che, e su questo credo continuerò a interrogarmi ancora a lungo, se per un dito in quel posto rimasto per quanto?, venti secondi?, forse anche meno, evento shoccante e sorprendente, io mi sono ritrovato qui a scrivere quel che avete appena letto, come cavolo è possibile che di tutto quel che abbiamo vissuto nessun artista italiano ha ancora avuto necessità di raccontarci nelle proprie canzoni? Fosse anche in maniera evasiva, vaga, metaforica?
Sarò fatto male io, ma è nelle parole delle canzoni e dei libri che tendo a cercare le risposte alle domande che non sono uso trovare altrove, spesso addirittura risposte a domande che non mi sono ancora posto.
Vorrà dire che prima di capirci qualcosa, parlo del Covid, mi toccherà portare pazienza ancora un po’, per ora mi limito a riascoltarmi la vintagissima Come una bomba degli Otierre, quella di “Quando meno te lo aspetti, come una bomba”, non che c’entri molto col tema, ma parlando di qualcosa che arriva all’improvviso mi sembra coerente, e Godzilla di Eminem che tra miliardi di parole sputate a supervelocità, non so se vi ricorda qualcuno, ci infila pure l’esame per la prostata, almeno per qualche secondo mi sento meno solo, lì, un dito in quel posto come Slim Shady.