Il 17 Aprile si è tenuto a Roma un nuovo capitolo della protesta degli operatori del mondo spettacolo, a circa sei mesi dai primi appuntamenti di piazza. Sei mesi in cui, bene dirlo, non è accaduto assolutamente nulla. Forse sarebbe opportuno partire da questo sconfortante dato di realtà per provare a dare un contributo critico a questa protesta.
I lavoratori del mondo della Cultura, dell’Arte e dello Spettacolo sono certamente – e non casualmente – tra i maggiormente falcidiati dalle politiche emergenziali dei Governi Conte II e Draghi , solo per questo il loro grido di aiuto e di dolore deve essere accolto con riverenza e umana partecipazione; chiunque non sia in malafede sa benissimo che l’insostenibilità dichiarata da queste persone è pura verità. Occorre però provare a ragionare fuori dalle categorie meramente emozionali per immaginare come una sacrosanta battaglia come questa possa condurre ad un esito positivo e non a una sconfitta già scritta.
Iniziamo da un problema di consapevolezza prospettica che sembra gravare su tutte le proteste di queste settimane, ovverosia reclamare un sostegno e una assistenza maggiore da parte dello Stato (i famosi “ristori”…), laddove invece si dovrebbe rivendicare il diritto di poter riprendere in mano le sorti della propria vita. Lavorare e svolgere la propria attività. Solo gli aderenti di IoApro sembrano finalmente essersi convinti, sia pur con qualche incongruenza, della bontà di questa impostazione… Elemosinare diritti che si posseggono e che sono stati conquistati con fatica è infatti un terribile errore strategico che pone l’interlocutore nelle condizioni di poter decidere delle sorti dell’altro, quasi si trattasse di una sorta di diritto divino.
Che questa consapevolezza non si sia ancora radicata in determinate categorie lavorative può essere comprensibile, ma che essa manchi laddove si parla di Arte e di Cultura è davvero sconcertante. Soprattutto perchè, più di qualsiasi altra categoria, quella di cui stiamo qui discorrendo dovrebbe rivendicare la sua insostituibilità, la sua capitale importanza. Per metterla nel gergo dicotomico dei televirologi la sua “essenzialità”. Vi è forse qualcosa di più essenziale all’uomo dell’Arte, della Cultura, dello Spettacolo, della Bellezza?
Esiste una incisione fonografica della Nona di Beethoven condotta da Wilhelm Furtwängler nel 1944 a Berlino in cui – si dice – l’impeto dell’orchestra sia rafforzato dai suoni della battaglia che infuriava alle porte del Teatro… Follie naziste, si potrà obiettare! Bene, che dire delle commedie di Noel Coward rappresentate nella Londra bombardata dalla Luftwaffe?
Esempi per far capire che non esiste emergenza che possa arrestare l’Arte. Anzi, è proprio in tempi di crisi, di instabilità, che essa ci dovrebbe fare da appiglio per resistere. Il Silenzio della Cultura è una delle vergogne di questi quattordici mesi appena passati…
Un’altra dimensione che non può essere messa in discussione all’interno della ricezione dei fenomeni artistici è la socialità. Arte e Cultura dovrebbero essere messe a riparo da qualsiasi distopico “distanziamento sociale”, poichè è nella comunione di corpi e energie che molto del messaggio creativo può liberamente sprigionarsi e diffondersi… Ho visto molti volti a noti nella protesta di Roma, diciamo che avrei apprezzato maggiormente la loro presenza se avessi udito da almeno uno di costoro parole chiare, inequivocabili contro la modalità dello streaming, un artificio che in nessun modo può essere immaginato come possibile sostituzione della interazione dal vivo. Eppure molti, troppi, questa modalità l’hanno utilizzata, magari giovandosene pure…
Affermare che il proprio orizzonte non vuole essere quello di una “Netflix della Cultura” potrebbe essere un’altra leva su cui impostare una battaglia maggiormente consapevole del proprio ruolo e delle proprie responsabilità. Già… parlando di “Netflix della Cultura” non si può non accennare a Dario Franceschini, Ministro della Cultura che in questi mesi è stato tra i più genuflessi alla narrazione pandemica e che non in una sola occasione abbia osato affermare quei paradigmi che qui stiamo tentando di esprimere. Non sarà che tanta della subalternità del mondo dello Spettacolo a queste folli misure sta nella evidente illusione che una certa parte politica sia l’ideale interlocutrice delle proprie istanze? Non sarebbe meglio riconoscere in determinati gruppi di potere dei nemici della propria causa, esattamente come altrove?
Il mio non è un invito a scegliersi altri interlocutori, ma semplicemente ad uscire da una forma di sudditanza che troppo male sta facendo a questo mondo che sta a cuore a tutti noi.
L’immagine di quei bauli in Piazza del Popolo è stata una immagine emozionalmente fortissima, da stretta al cuore. Se quei bauli si riempissero di rinnovata consapevolezza, sono certo che l’intero comparto si riapproprierebbe del protagonismo che gli spetta.
C’è una cosa più necessaria dell’arte?
La vita
Arte e Cultura dovrebbero essere messe a riparo da qualsiasi distopico “distanziamento sociale”
Possiamo ancora, dopo 14 mesi, subire noi lettori, frasi del genere?
Criticare le soluzioni adottate per far fronte ad una pandemia mi sembra il minimo, rinnegare il distanziamento con un virus che continua a minacciarci per la nostra sconsideratezza (non solo ovviamente) mi sembra una supponenza che tiene poco conto di quanto altri ambienti soffrano.
Facile additare “gli altri”, quelli “sopra”, ma l’arte ha bisogno di una consapevole rivoluzione, una piccola reazionaria azione borghese in salsa cospirazionista, farà sicuramente i servigi di alcuni ambienti ma non dell’arte né degli artisti.
Viva i bauli, senza colori, senza bandiere, solo quelle di noi lavoratori, di noi artisti.