Verso l’inizio degli anni Novanta, la fine degli Ottanta, ho preso a passare quasi tutte le sere, dopocena, a casa della allora mia fidanzata, oggi mia moglie.
Cenavamo ognuno a casa propria, poi io arrivavo e passavamo la sera insieme, studiando per i nostri esami universitari. Quando io non avevo da studiare, perché avevo meno esami di lei, io facevo Storia Moderna, lei Economia e Commercio, lei studiava e io leggevo, o giocavo a calcio col computer. Ma prevalentemente studiavamo. Quando avevamo finito guardavamo un po’ di tv, poi verso mezzanotte io mi incamminavo verso l’autobus, le ultime corse erano rade e mai avrei voluto tornare a piedi, si trattava di fare circa tre, quattro chilometri a piedi. Avevo la vespa, certo, un 125 Primavera rosso fiammante, ma non la usavo sempre, propendendo più per l’autobus. Avrei preso la patente della macchina di lì a poco.
Tornado verso casa, Marina abitava verso la stazione, io in pieno centro, passavo per la piazza principale della mia città, Piazza Cavour, a due passi dal Municipio, che nei fatti in Ancona tutti chiamano Comune.
Ancona ha una strana pianta, piuttosto originale per essere una città italiana, palazzo del Comune e cattedrale sono assai distanti tra loro, in due quartiere diversi, il primo, appunto, presso la grande piazza che si trova esattamente a metà strada tra i tre corsi paralleli che conducono verso il porto e il lungo viale che conduce al Monumento dei Caduti, dove si trova un altro affaccio sul mare, il Passetto, la cattedrale, da noi noto come il duomo, chiesa dedicata al patrono San Ciriaco sorta sopra le rovine di un vecchio tempio a Venere, Ancona è una città fondata dai dori, si trova sopra il colle Guasco, sopra il porto e sopra quello che un tempo era il palazzo del potere, il Palazzo degli Anziani, a lungo sede proprio della Facoltà di Economia e Commercio, ora ospitata nella vecchia Caserma Villarey, a pochi passi dal Parco del Cardeto e da quel “campo degli ebrei”, antico cimitero ebraico, nel quale si andava a giocare da piccoli, così come si giocava da piccoli al campetto del maneggio, vedi come dalle mie parti si utilizzo in modo anomalo luoghi che hanno nomi precisi, lì dietro c’era anche la Polveriera, divenuta per un po’ di tempo un Centro Sociale Occupato dal nome La Ludoteca, Palazzo degli Anziani, dicevo, recentemente tornato a ospitare alcuni uffici dell’amministrazione locale.
Passando da piazza Cavour, in quei primissimi anni Novanta, fine Ottanta, incontravo la strana fauna che quella piazza abitava. Io per una decina d’anni, tra il 1972, anno in cui la mia casa era stata funestata dal terribile terremoto che aveva devastato Ancona, costringendo molti a andare in appartamenti non colpiti dal sisma, e la metà degli anni Ottanta, quando finalmente una nuova casa era stata costruita, ho abitato a due passi da Piazza Cavour, in via Vittorio Veneto, quindi in quella piazza ci ho passato parecchio del mio tempo di bambino, a giocare con altri coetanei, accompagnati dalle nostre madri. Sapevo quindi, per esperienza indotta, che il baretto che si trova all’angolo con il corso che, guardando verso il porto si trova a sinistra, Corso Stamira, poi c’è Corso Garibaldi, in mezzo, e Corso Mazzini, a destra, proprio davanti a una delle pizzerie al trancio più note di Ancona, Sante, si trovava il paretto di Gino e Velia Ionna, recentemente scomparsi a distanza di pochi giorni uno dall’altra, per tutti il bar di Ionna, famoso per i suoi frappè al cioccolato e per ospitare la fauna più strana in città, punk, dark, tossici, specie eroinomani, tutti i tipi bizzari si davano adunanza da quelle parti, che per me erano assolutamente off. Non una volta cresciuto, perché non c’era nessuno a controllarmi, e perché comunque passare di lì era la via più veloce per tornare a casa, in piazza Malatesta, detto il Campo della Mostra perché un tempo ci si esponevano i personaggi giustiziati dal Boia, la cui casa, e poi chiudo, è sita alla penultima curva dei tornati che portano su al Duomo.
Del resto nessuno mi aveva mai rotto i coglioni, non vedo cosa mai avrebbero avuto chiedere a un ragazzo coi capelli lunghi fin quasi al culo, magro come un chioso quella accolita di punk, dark e eroinomani. Una sera, passando di lì, vedo che tra i punk c’è anche Roberto, che negli anni in cui io e la mia famiglia siamo stati “ospitati” in una casa non nostra, in attesa che finalmente ce ne dessero una nuova, di nostra proprietà, costruita con una cooperativa là dove un tempo sorgeva la casa dei miei nonni paterni, aveva abitato sotto casa mia. Roberto Bartola che era stato, insieme al fratello Paolo, lui un anno meno di me, l’altro due anni più di me, uno dei miei migliori amici d’infanzia, Giacomo e Michele, mio compagno di classe, erano gli altri due, ma a questi si erano col tempo uniti anche altri amici, quasi tutti maschi, la musica e il calcio a fare da principale collante, Roberto col quale avrei di lì a poco dato vita agli Epicentro, la nostra band punk hardcore, una piccola leggenda locale, anche oggi, in virtù del singolo Pentiganò, una invettiva sgangherata contro chi viene a interrompere le prove, valida credo in ogni dove ci sia qualcuno che si ritrova per suonare.
Lo vedo in mezzo ai punk, un collare da cane intorno al collo, e mi ci fermo ovviamente a parlare.
Da che ho cambiato casa, un cinque anni prima, ci siamo un po’ persi di vista. Cambiato quartiere, prese scuole superiori diverse, anche se in una piccola città come Ancona ci siamo davvero visti poche volte, e quasi sempre per caso. Come stavolta.
Ci fermiamo a parlare e, come spesso succede tra amici fraterni, tutto riparte là dove si era fermato. Iniziamo a pensare di mettere su una band, e in effetti di lì a poco ci troveremo al primo piano della fabbrica di sparachiodi da tappezzeria di suo zio Remo, nella zona fieristica vicino al porto, con Giacomo, Emanuele e altri amici, compreso Massi Di Prenda, che è già una piccola leggenda locale con le sue batterie. Quella sosta lì, in piazza Cavour, diventa una sorta di appuntamento fisso, e in seguito sarà anche il posto dove con Marina inizieremo a trovarci con alcuni amici, Roberto compreso. Allora però l’iter è questo. Dopo cena vado da Marina, studiamo, vediamo l’inizio del Maurizio Costanzo Show, io prendo l’autobus intorno a mezzanotte e, sceso a piazza Cavour, resto un’altra mezzora a parlare con Roberto e i suoi nuovi amici, tanto soffro di insonnia e andare a letto non è una mia priorità.
Una sera, di Roberto ho già parlato altre volte e capiterà che ancora parlerò in seguito, passo da Piazza Cavour ma stranamente non c’è nessuno che conosco. Anzi, non c’è proprio nessuno. C’è solo un ragazzo punk, con tanto di cresta, che però non ho mai visto prima. Sta seduto in una delle sedie lasciate lì da Ionna, e ha sulle gambe un radiolone portatile, quelli che in America chiamano Ghetto Blaster. Mi avvicino, intenzionato a tirare dritto. Non ho voglia di fare nuove conoscenze, e il tipo per altro non sta neanche alzando il naso verso di me, sembrerei quantomeno inopportuno. Mentre mi avvicino sento una canzone incredibile, una canzone che parla di un cassonetto nel quale buttare i feti frutto di aborti, il tutto con una musica rock molto gradevole e una dose di ironia davvero pazzesca.
Resto paralizzato.
Lo chiamo.
Il tipo alza la testa, mi saluta con gli occhi. Gli dico una frase senza logica, non ci conosciamo e con buona probabilità non ci dovremmo vedere più: “Mi presti questa cassetta, domani a quest’ora te la riporto?”. Non chiedo “Chi sono questi mostri?”, non chiedo “Come si chiama questo album?”, chiedo di avere in prestito da uno sconosciuto una cassetta promettendo di riportarla, e il tipo, con gesto plastico, preme Stop sul Ghetto Blaster, sfila una cassetta TDK da novanta, la mette dentro la custodia su cui ha appuntato i titoli della canzone con la biro, e me la passa dicendo “A domani”.
Così ho fatto la mia conoscenza con Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu e soprattutto con gli Elio e le Storie Tese, un album incredibile, di una band mai sentita nominare, ma che dentro aveva perle come John Holmes (una vita per il cinema), Nubi di ieri sul nostro domani odierno (Abitudinario), Carro, Nella vecchia azienda agricola, Silos, la già menzionata Cassonetto differenziato per il frutto del peccato, Piattaforma, Cara ti amo e Cateto. Una sorta di capolavoro assoluto, che ovviamente da quel momento sarà fissa nel mio stereo e in quello di chiunque mi capiterà a tiro, mio scopo nella vita immediata quella di divulgare il verbo.
L’indomani, ovviamente, sono tornato a Piazza Cavour, nottetempo, e ho riconsegnato al ragazzo la cassettina preziosa, coprendo che lui era di Milano, di passaggio qui da certi cugini, e che a Milano gli Elii, così li chiamavano, erano una sorta di leggenda locale. Lo sarebbero diventati anche da noi, poco dopo, con Italyan, Rum Casusu Cikti, album trainato in vetta alle classifiche dalla hit Pippero, ma con dentro altre perle immortali, da Servi della gleba a Uomini col borsello (ragazza che limoni sola), passando per Il vitello coi piedi di balsa, Supergiovane, Urna e La vendetta del fantasma formaggino, nell’anno del Signore 1992. Anche in questo caso sarò una sorta di propagatore del verbo, quando a bordo della nave che avrebbe condotto noi e altre centinaia di connazionali alla conquista del Peloponneso, noi avremmo poi proseguito fino a Rodi, lo avrei sparato a ripetizione dal mio stereo portatile, facendone la colonna sonora dell’estate greca.
Gli Elii poi li avrei conosciuti di persona, intervistati a più riprese, e il loro chitarrista Cesareo avrebbe messo una sua chitarra in palio per il mio crowdfunding Monina Sì vs Monina No, fatto che mi ha stupito non poco, come tutta la generosità dimostrata dagli oltre duecento artisti che hanno preso parte a quella anomala iniziativa, all’epoca non avevo ancora ripreso a scrivere di musica e non avevo iniziato a collaborare con Vasco, tradotto: non ero la cazzo di rockstar che sono ora.
Ma non è tanto degli Elii che voglio parlarvi, quanto più del modo in cui li ho conosciuti, una TDK tirata fuori dal Ghetto Blaster di un tipo che non conoscevo, divenuta quindi veicolo di diffusione, seppur illegale.
Questa cosa delle cassettine registrate, prima o poi, dovrei provare a raccontarla meglio. Non che non sia stato già fatto da altri, intendiamoci. Il fatto è che le cassette erano qualcosa che in qualche modo anticipava di anche quarant’anni lo streaming, partendo però dal presupposto che qualcuno, a monte, avesse acquistato il benedetto disco dal quale le cassette sarebbero scaturite.
Cassette, tecnicamente dovrei dire audiocasette, ma ci siamo capiti, che potevano essere interi album, io preferivo le Novanta proprio perché permettevano di registrare due album, uno per lato, o diventare delle compilation, che sarebbero esattamente le playlist di oggi. Le mie, già l’ho detto più volte, funzionavano benissimo alle feste, specie quando si trattava di alternare brani spinti, power, a quelli lenti, per pomiciare.
Ma le cassettine erano anche un modo, spartano, per far girare musica indipendente, ma indipendente davvero.
Andare in studio a registrare un disco era una impresa epica, assai costosa. Nella Marche, poi, ce n’erano talmente pochi che i prezzi erano davvero proibitivi, neanche da ipotizzare. Così ci si arrangiava con i registratori a quattro piste, e quel che si registrava finiva categoricamente in cassettine, duplicate e con le copertine fotocopiate e ritagliate ad hoc. Figuriamoci, non avevamo i soldi per andare in studio, dove avremmo mai potuti trovarli per incidere il tutto su vinile?
È quindi su cassetta, anzi, su una cassettina, che ho conosciuto per la prima volta gli Elio e le Storie Tese, e è su una cassettina che ho conosciuto per la prima volta anche la musica di una band delle mie parti che, in quanto a leggendarietà e fama, nulla aveva a che invidiare ai tempi agli stessi Elii.
Un gruppo che in realtà era talmente leggendario da far sì che anche chi non aveva mai ascoltato una loro cassettina, conoscesse almeno i titoli delle loro canzoni, Acqua e limo’, anomala cover dei Judas Priest, Vie’ a beve el vì, Svynalvil, ‘Na Madonna che castagna, Slongame la biscia, Vì roscio de Morro, Tanighe piene, damigiane vote, Vì Metal, una sorta di vero e proprio inno immortale, Skioppa Ni’ Co’ sono solo alcune delle tante canzoni imparate a memoria e passate da fratello maggiore a fratello minore, da amico a amico, contenute dentro quelle cassettine, appunto, oggi le chiamerebbero mixtape o demo, dai titoli altrettanto evocativi, Bumba Atomika, 1986, Vattafadantelvì, del 1987, Svynavil, del 1988, Slongame la biscia del 1989, questo prima dell’arrivo dei dischi veri e propri, in mezzo due live, sempre su cassettina, The Final Tazz Live Studio, del 1992, e A Volte Arcacciane Live, del 1997. Quindi di nuovo Bumba Atomika, una specie di greatest hits di quanto fatto fin lì, sempre nel 1997, poi Stand by Vì, del 1999, con dentro la perla assoluta Cattiva Reputazio’, e la leggendaria Porta ‘Na Donna, canzone ovviamente sempre oggetto di censure e reprimende, nel 2000 è la volta del live Fuckin’ Giubilive, passano tre anni prima di un ritorno in studio, con Takki a Beve, album che vede l’ingresso di tre nuovi membri nella line-up, con l’ingresso di due nuovi batteristi, la band presenta un doppione di tutti i ruoli, due voci, John Big George e Ricky Tiger BigWhite, due chitarre, Michael Trilling e Mark Nardiello, basto escluso, nello specifico i due nuovi batteristi sono J.J. Guasto e Max Vortex, e il un nuovo bassista, Andreas Kleinestein, pensate a una band che rivoluzioni il proprio assetto cambiando tutta la sezione ritmica, in effetti cambiando un po’ il suono, vagamente ammorbidito rispetto a certe derive trash-metal del passato, C’ho il bisolfito da quel momento nel cuore di tutti i fan, fan che dovranno rimanere, è il caso di dirlo, a bocca asciutta per sette anni prima del ritorno dei ragazzi sulla traccia, con Vì, di cui è assolutamente da mandare a memoria Reperibilità, ennesima storia di ordinaria quotidianità, un anno e è la volta del bootleg ufficiale Unvined.
Che vergogna. Ho fatto una cosa per la quale mi dovrei sputare in faccia, lo so, ho cioè seguito una modalità canonica per introdurre quel che hanno fatto fin quei quelle che dai loro fan sono conosciute come le Kurnacchie, al secolo la band di Vì Metal, questo il nome che hanno dato al genere del quale sono unici epigoni, i Kurnalcool. Certo, ho allungato sapientemente il momento in cui ho finalmente fatto il loro nome, che però è nel titolo, quindi, un bel “e grazie al cazzo” non ce lo toglie nessuno, ma era più un modo per far sapere che lo sapevo e potevo fare, tipo quando un bravo chitarrista allunga un assolo trasformandolo in una sorta di esibizione fallocentrica, non cambia il senso della mia vergogna per aver parlato di una band così anomala in una maniera così convenzionale.
Ci riprovo, quindi. I Kurnalcool. Erano loro le cassettine cui facevo riferimento, i miti non solo marchigiani o almeno non solo nelle marche. Una leggenda che ho avuto il piacere di incrociare a più riprese nel corso della mia vita, la prima volta, appunto, attraverso un passaparola clandestino, fatto di “hai sentito questa canzone”, poi col passaggio di quelle cassettine, l’arrivo ai loro concerti, sempre molto divertenti e energici, infine l’approdo in line-up del mio amico fraterno Massi Di Prenda, nella line-up col nome di Max Vortex, mio compagno di mille avventure, compresa la nascita dei miei Epicentro, quante ore passate nel suo garage a suonare e cantare, con lui e Ayala, quanti dischi prestati. In realtà, l’ho raccontato quando anni fa mi hanno chiesto di scrivere la prefazione al loro libro, Skoppia ‘Ni Co’, per Crac Editore, anch’egli di Falconara, alcuni di loro avevo avuto modo di conoscerli in certe partite la domenica mattina giocate in un campo d’erba dalle parti di Chiaravalle, organizzate da un nostro amico che di cognome faceva Raspa, strano non sia finito in un testo di una loro canzone, una raspa è una raspa, partite alle quali sia loro che noi arrivavamo direttamente dopo le notti di bagordi, eravamo il “gruppo etilico”, ai tempi, forse per questo io non avevo realizzato che fossero i Kurnalcool, e quando anni dopo glielo raccontai loro non ne avevano memoria.
Una volta, per la cronaca, abbiamo anche calcato lo stesso palco, io e i Kurnalcool.
Era il 25 gennaio del 2012, la location era l’Aula Magna dell’Università di Ingegneria, luogo in cui in precedenza, quando ero ancora residente in città, mi era capitato di assistere a incontri con Dario Fo o Jovanotti, e cito entrambi per far capire la varietà possibile, non certo per vanto. Eravamo lì, io e i Kurnalcool, perché esattamente quaranta anni prima, il 25 gennaio del 1972, a ora di cena, la città era stata devastata da un terremoto che non solo sconvolse tutti quanti, costringendo molti, come me, a abbandonare la propria abitazione e fare lo “sfollato”, ma a perdere i propri beni, ma che in qualche modo inciderà per sempre l’immaginario collettivo locale e verrà bellamente dimenticato da tutto il resto d’Italia, come non fosse mai esistito, ignorato ogni volta in cui un sisma purtroppo colpisce la penisola, mai citato né menzionato.
Noi, qui, ce lo ricordiamo benissimo, il mio primo ricordo di bambino è di quella sera e per questo ho scritto un monologo, A come Andromeda, citando lo sceneggiato tv la cui visione è stata interrotta per noi dalle scosse del sisma e dalla conseguente fuga in strada, che ho recitato accompagnato dalla band in versione unplugged, una cosa mia vista prima e, immagino, mai più vista dopo, con tanto di ospiti illustri, Federica Torbidoni dell’ensemble Nino Rota al flauto traverso, Lucia Galli, all’arpa, più la voce soul di Kitsy Kinté. Uno strano spettacolo, il nostro, una band dai suoni solitamente in bilico tra l’heavy metal e il trash, con testi decisamente alcolici e ironici, il Vì Metal di cui sopra, in chiave acustica, inedita, accompagnati dai suoni classici del duo Women Classic Group e dalla voce black di Kitsy Kinté, il tutto mentre io recito le mie parole, intrise di malinconia e paura, qualcosa che i pochi presenti, perché va detto di gente non ne venne poi molta, credo sotto le duecento persone, ancora ricordata, non fosse altro perché è stata un unicum, un incontro che sulla carta sembrava impensabile, per me, che quelle cassettine ho divorato, anche qualcosa di particolarmente surreale.
Metteteci pure che, mentre partivo, la mattina, da Milano, mi ha chiamato Marina per avvisarmi che lì, a Milano, la città dove i terremoti non ci sono mai e non ci sono mai stati, si era sentito fortissimo una scossa fortissima, al punto che inizialmente pensavo scherzasse, scossa che sarebbe stata la prima di una serie, conclusasi con il Terremoto che sconvolse un paio di mesi dopo l’Emilia.
Veniamo a oggi, le cassettine, ci dicono ciclicamente, presto torneranno di moda, come è successo col vinile, il che da una parte mi rincuora, perché succede sempre così quando si pensa al nostro passato che di colpa sembra tornato di moda, ci si sente bene come se nel mentre noi non si fosse invecchiati e il mondo intorno a noi non avesse seguito il suo corso, ma dall’altro c’è da rabbrividire, perché se mi fa cagare abbondantemente la qualità dell’ascolto in streaming non è che quello delle suddette cassettine fosse esattamente il top, comunque, le cassettine sono lì, pronte a tornare nelle nostre vite ma, oggi, nelle nostre vite sono invece già tornati i Kurnalcool, e questo è sì un evento cui guardare con piacere anche fisico. Dopo undici anni buoni, roba che manco i Guns N’ Roses con Chinese Democracy, anche se lì di anni ne erano passati quindici, la band marchigiana titolare del Vì Metal torna e torna con un singolo che prelude a un prossimo ritorno sulla lunga distanza, con un album dal titolo The Final Tazz.
Il singolo, K.U.R.N.ALCOOL, in inglese, un inglese non esente da forti inflessioni marchigiane, Dio mio che nostalgia a sentirli cantare in quel modo, mi sembra di essere lì a mangiare moscioli bevendo verdicchio o dal loro amato Lacrima di Morro D’Alba, è un classico brano heavy (potete ascoltarla qui https://www.youtube.com/watch?v=6Dp_keYUK-E), una variazione sul tema, ci tengono a far sapere, che però porta avanti un argomento assolutamente in linea con la loro poetica, una poetica che potrebbe suonare come la versione alcolica dei temi tanto cari al buon Max Pezzali: la gioventù che non torna, il divertirsi in giro, la figa, per loro ovviamente l’alccol. Il tema che tratta infatti questa canzone, tirata fuori per rimarcare la volontà di un ritorno e anche per prendere tempo in attesa che passi questo periodo così anomalo, è quello di un fatto che spesso capita a chi, come me e come loro, raggiunge la mezza età: arrivano i primi acciacchi e il dottore non ha di meglio che suggerirti di smettere di bere. Un modo ironico, ma serissimo, di raccontare la vita di provincia, so che il paragone con Pezzali può suonare surreale, ma non fosse che per il comune amore per il metal direi che è perfetto, il tentativo vano di non crescere mai, di affrontare comunque la vita a testa alta, per quanto sia possibile farlo dopo una bella sbronza.
Li ascolto, i Kurnalcool, e nonostante io sia un cinquantaduenne che da ventiquattro anni vive a Milano, così, di colpo, torno un ragazzo con la faccia martoriata dall’acne giovanile appassionato di musica e capace di reggere bene, quando si trattava di bere.
L’anno prossimo sono trent’anni di Pentiganò, fosse la volta buona che si metta in piedi questa benedetta collaborazione, e le strade del hardcore punk anconetano e del Vì Metal falconarese si incrocino, finalmente per una bella nuova versione di quel brano, sarebbe un ottimo modo per far tremare le Marche proprio a cinquant’anni dal Terremoto, no?