I miei miti sono differenti.
Parlo di Perry Farrell, nello specifico, artista gigantesco e complessissimo che va a infoltire il gruppo di artisti che hanno in qualche modo segnato la mia esistenza, quasi mai incontrando il plauso delle masse, spesso neanche di quella parte di massa, chiamiamola nicchia per comodità, che segue l’alternative rock, vuoi per una sorta di snoberia che colpisce chiunque decida di uscire dalla comfort zone del solo suona e cantare, vuoi perché l’eccentricità in un ambiente eccentrico a volte viene confusa con posa, e già la cosa di suo farebbe ridere parecchio.
Un gruppo che non ho mai tenuto nascosto, quello di chi mi ha in qualche modo segnato, anche perché c’è sempre e comunque l’anagrafe a spiegare quel che io dovessi dare per scontato. Un gruppo che non riguarda ovviamente solo musicisti, vengo dai libri e ai libri torno spesso, anche se oggi mi va di appoggiare lo sguardo solo sulla musica, Dio la benedica.
Penso a Grant Hart degli Hüsker Dü, voce e batteria di una delle realtà fondamentali della musica rock americana dell’ultima parte del secolo scorso, impensabile immaginarsi il grunge, per dire, senza passare dal loro hardcore melodico e beatlesiano, per certi versi, artista dedito all’eroina a cui in genere anche i fan della band delle città gemelle preferivano Bob Mould, a sua volta voce e chitarra, ancora in attività e per altro titolare di uno dei lavori più interessanti usciti negli ultimi tempi, quel Blue Hearts che mi ha tenuto compagnia durante un devastante e devastato 2020, band con tre componenti e due galli nel medesimo pollaio, entrambi di grande personalità e grande talento, entrambi dichiaratamente gay, Hart purtroppo scomparso nel 2017.
Penso a Ian Brown degli Stone Roses, altra band seminale, alfieri della MadChester che così tanto ha influenzato la corrente elektropop futura, ultimamente caduto in disgrazia per certe sue uscite in effetti discutibili riguardo il Covid, ben oltre il negazionismo, ma artista di tale fattura che credo non solo non gli si dovrebbe imputare alcuna colpa, chi se ne frega di cosa pensa un artista del Covid o di qualsiasi altro argomento che non sia dentro le sue canzoni?, ma andrebbe semmai riconosciuto come uno dei pilastri della musica inglese di sempre, ruolo che spavaldamente si è autoassegnato sin dai tempi, provateci voi a fare testi militanti su quelle basi funkettone e psichedeliche, se ci riuscite.
Penso a Gerard Love dei Teenage Fanclub, da Glasgow con un carico di cori e wah-wah, altra realtà che ha in qualche modo segnato il passo, aprendo autostrade al brit-pop e non solo, considerati a ragione uno dei motivi per cui, guardando alla Gran Bretagna, non si possa certo concentrare lo sguardo solo sull’Inghilterra.
E penso, appunto, a Perry Farrell, dei Jane’s Addiction, prima, dei Porno for Pyros, poi, e dei Satelite Party, infine, oltre che con una propria carriera solita, sempre e comunque del mondo.
Troppo giovane per essere incluso nel novero dei grandi del rock, intendendo con questi coloro che, a cavallo tra gli anni sessanta e i settanta hanno imposto il genere come vera e propria forma di controcultura, andando a formare intere generazioni, arrivato sulle con Dave Navarro, Eric Avery e Stephen Perkins a metà anni Ottanta, quando cioè imperava un qualche tipo di pop.
Troppo vecchio per diventare un alfiere della seconda ondata di rivoluzione rock, quella grunge partita da Seattle, che ha avuto come punte di diamanti nomi quali Kurt Cobain, Eddie Vadder e Chris Cornell.
Più in generale troppo strano, per il suo modo di cantare, davvero unico, per quel suo essere artista a 360°, per quel suo star sempre lì a pensare nuovi modi di lasciare il segno, non solo musicalmente parlando, sia chiaro, ma anche e soprattutto nel sociale, e anche nel modo di intendere la musica, rock nel senso più ampio possibile, come qualcosa di davvero capace di unire, nel divertimento, certo, ma anche nella consapevolezza e nella presa di coscienza di aspetti assolutamente non secondari delle nostre esistenze, dall’ambiente al disagio sociale.
Difficile, infatti, dovendo trovare qualcosa di iconico da scegliere nelle tante cose fatte da Perry Farrell, capire se puntare lo sguardo verso la produzione musicale, dire oggi che i Jane’s Addiction abbiano introdotto certi suoni hard rock alle nuove generazioni, le stesse nuove generazioni che poi avrebbero letteralmente perso la testa per il suono di Seattle, che alla fonte dell’hard rock si è evidentemente abbeverato, sembra quasi inutile, tanto è scontato, andando proprio con la band di Grant Hart e Bob Mould a indicare le pietre d’angolo su cui il grunge è stato costruito, so di scrivere qualcosa che i puristi potrebbero contestare, ma li sfido a farlo pubblicamente, io porto i vinili e una chitarra elettrica, poi ne parliamo, o se invece scegliere di parlare di Lollapalooza, probabilmente il primo festival globale, aperto a musiche che non fossero circoscritte a un solo genere musicale, dal grunge, appunto, al rap, con tutto quel che c’è nel mezzo, dal crossover all’alt-country, e soprattutto primo festival globale a non proporre solo concerti, ma tutta una serie di iniziative collaterali, dalle mostre agli spettacoli circensi, passando per le presentazioni di libri e la proiezione in anteprima di film e documentari. Il fatto è che Perry Farrell è tutto questo.
È Jane says, certamente, i Led Zeppelin che si perdono nel deserto ben prima che qualcuno codificasse lo stoner, è Pets, la psichedelia che flirta col pop, la lezione inglese a farla da padrona, è la copertina di un qualsiasi suo album, su cui presumibilmente ha messo le mani, se non addirittura è completamente opera del suo ingegno, artista anche nel campo della scultura e della pittura, quando si dice essere “rinascimentali” assai dopo il Rinascimento, è una delle tante campagne per il sociale fatte con suoi colleghi, Tom Morello su tutti, è il Lollapalooza, vero miracolo che ha in qualche modo lanciato la corsa mondiale al festival più cool, andando in qualche modo a indicare in questa formula la principale fonte di entrate dei live in tutto il mondo.
Perry Farrell è quello che tecnicamente si chiama un iconoclasta.
Qualcuno capace di entrare nel tessuto di un comparto, quello musicale nel caso specifico, e cambiarlo dall’interno, andando a fare per altro qualcosa di impensabile prima del suo avvento, e finendo per diventare talmente tanto di tendenza da ritrovarsi poi a non poter, dover o voler gestire il tutto in prima persona. Rivoluzionario e autarchico, quindi, ma anche anarchico e in quanto anarchico restio a rimanere dentro regole che diventino troppo stringenti.
Un iconoclasta esattamente come lo è stato un Andy Warhol, o un Malcolm McLaren. Ecco, forse McLaren è il nome che gli potrebbe stare accanto più compiutamente, non fosse che Perry Farrell è anche un artista in prima persona, e che artista, Dio mio, andatevi a risentire Nothig’s shocking o Lo Ritual de Lo Habitual, giganteschi e attuali anche oggi, a distanza rispettivamente di trentatré e trentuno anni dalla loro comparsa sul mercato (e in camera mia).
E dire che gli sarebbe abbondantemente bastato essere il frontman di una band come i Jane’s Addiction, con quel loro fondere rock, psichedelia, attitudine glamour in anticipo sui tempi, veri e propri padri fondatori del grunge, senza se e senza ma.
Per non dire dei Porno for Pyros, band che per motivi che onestamente ho sempre faticato a comprendere è stata accolta con diffidenza, sia da addetti ai lavori che dalla fanbase, capisco che l’assenza di Dave Navarro facesse un certo effetto, nelle coppi del rock è sempre così, ma l’album eponimo e il secondo, Good God’s Urge suonano attualissimi ancora oggi, intrisi come sono di spunti geniali e di intuizioni avanti anni luce, e dei Satellite Party, fondati con Nuno Bettencourt degli Extreme, probabilmente uno dei migliori chitarristi hard-rock in circolazione, altro progetto notevole passato un po’ in cavalleria forse perché il marchio Jane’s Addiction è talmente alto da risultare insuperabile.
Ma più di ogni altra cosa, Perry Farrell è l’inventore, lui che inizialmente ha faticato a venir fuori per quell’idiota contrapposizione che lo voleva decisamente meno a fuoco di un Axl Rose dei Guns N Roses, di quello che oggi viene chiamato universalmente come il rock indipendente.
Fino a quel momento c’era stato il rock, con quel suo allargarne le maglie aprendo a altri generi, e con quel suo fare gruppo, concentrare sotto il cappello del Lollapalooza tutta la musica alternativa, anche quella destinata di lì a breve a diventare di massa, Farrell ha compiuto un vero e proprio miracolo: ha indicato un “noi” nel quale tutti quelli che in genere si sentivano “altro” o “altri” potevano identificarsi. Lui, il suo trucco pesante, la sua pancia asciutta e il suo amore per il surf.
Oggi Perry Farrell è un sessantaduenne, e questo rende tutti noi un po’ più vecchi. Almeno rende un po’ più vecchio me, che ho esattamente dieci anni meno di lui ma che a guardarlo mi sento come quei pensionati col giornale arrotolato nelle mani, congiunte categoricamente dietro la schiena, a guardare un cantiere dando consigli inutili a architetto e operai.
Siamo più vecchi, certo, ma anche un po’ più speranzosi.
Perché il fatto che Perry Farrell sia qui, sul pianeta Terra, lui che decisamente è un alieno capitato qui per caso, forse anche per sbaglio, e che intenerito dal nostro grigiore di fondo, dal nostro costante crogiolarci nella noia e nell’apatia ha deciso di rimanere, per regalarci idee e colori, è in sé una buona notizia, come è una notizia che abbia da poco compiuto sessantadue anni.
Perché significa che almeno lui, a differenza del grande Grant Hart, e di parte dei neuroni di Ian Brown, ditemi voi quanto io me li vada a pescare col lanternino gli idoli, è sopravvissuto a sessantadue anni vissuti non sempre nei binari del canonico (anche se Perry è indubbiamente un salutista, vissuto a lungo nel culto del corpo, con una buona carriera da surfista alle spalle, lui nato a New York a presto diventato californiano d’adozione).
E perché anche il pianeta Terra è ancora qui, fatto altrettanto incredibile, decisamente più incredibile.