Suppongo che dire che gli ultimi tredici, quattordici mesi abbiano avuto, nei confronti della nostra vita, un impatto tale da modificare la nostra percezione del tempo non abbia nulla di confutabile. Poi, certo, quell’impatto avrà scatenato reazioni differenti, ma per tutti sono stati mesi anomali, che hanno in qualche modo costretto tutti noi a modificare abitudini talmente consolidate da essere diventate automatiche, quasi impercettibili, come quei movimenti meccanici e automatici che il nostro corpo svolge quotidianamente senza che ci sia un ordine preciso che diamo noi. Per dire, il nostro cuore batte perché così accade per impulsi automatici, non certo perché noi si debba star lì a ordinarglielo, come invece facciamo nel momento in cui decidiamo di alzare un piede per fare un gradino, o verso una mano tesa a afferrare una forchetta su cui, precedentemente, abbiamo infilato una costoletta di agnello fritta, azione, per altro, che renderà poi il sollevare il piede per fare lo scalino assai più faticosa. Tutto è stato talmente scombinato da averci indotto a rivedere la nostra quotidianità, spesso e malvolentieri in maniera coatta, mettendo anche in discussione scelte che avevamo preso ponderandole con quella che pensavamo fosse una certa razionalità.
Detto in parole povere, è andato un po’ tutto a puttante, e il tempo, in questo caso parlo ovviamente per me, si è dilatato e espanso. Dovessi usare una metafora, e chiedo già scusa per l’immagine che andrò a proporvi, e soprattutto chiedo scusa all’artista di cui parlerò a breve, che probabilmente, anzi, sicuramente, avrebbe meritato un trattamento differente, andrei a pescare un preciso passaggio del film Trainspotting 2, di Danny Boyle.
Spud, il tossico allampanato che tutti conosciamo, almeno quei tutti che siano fan di Irvine Welsh o di Ewan McGregor, ha deciso che la sua vita è un fallimento. Non l’ha deciso, l’ha definitivamente capito, e va detto che i segnali erano già più che evidenti anche in Trainspotting. Decide quindi di farla finita. La scena è molto malinconica, perché avviene lentamente e la lentezza controbuisce a caricare le immagine di un pathos quasi insopportabile. C’è lui, Spud, che si infila un sacchetto di plastica in testa, mentre Renton, McGregor, appunto, lo sta andando a trovare. Spud è lì, nella sua casa sgaruppata, in un palazzo malmesso della periferia povera di Edimburgo, dove la saga di Renton si svolge. Avendo Spud deciso di farla finita, mentre il sacchetto di plastica chiuso intorno alla sua testa comincia a fare il suo lavoro, l’ossigeno che comincia a scarseggiare, nella sua testa la dipartita si manifesta sotto forma di lui che sale sul tetto del grattacielo, molto brutto ma anche molto alto. Lui che si mette seduto spalle al precipizio, il tutto mentre Renton arriva alla porta di casa sua e comincia a bussare, chiamandolo, poi, l’aria è ormai finita dentro il sacchetto, Spud, nella sua immaginazione, fa rovesciare la sedia nel vuoto. Vediamo, tutto categoricamente al ralenti, la sedia che precipita lentamente nel vuoto, l’aria che ormai manca, il sacchetto che si appiccica alla faccia di Spud, Renton che lentamente toglie una toppa posticcia appiccicata alla porta, probabilmente a coprire il segno di un pungo. Poi vediamo Renton che dal buco che la toppa non può più coprire e vede il suo amico steso a terra, il sacchetto che aderisce alla testa, vediamo Spud, nel suo immaginario, che ormai sta per schiantarsi a terra, dopo un volo di non so neanche quanti piani, niente che evochi l’incipit ormai leggendario di L’Odio di Matthieu Kassovitz, “Questa è la storia di un uomo che cade di un palazzo di cinquanta piani. A ogni piano si ripete, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene. Il problema non è la caduta, ma l’impatto”, stavolta l’impatto è imminente, la morte di Spud sta arrivando inesorabile. Renton vede Spud a terra e sfonda la porta con un calcio, corre verso di lui e, mentre Spud si sta per schiantare metaforicamente a terra, lui si tuffa e lo abbraccia, salvandolo. Il che è metafora del tentato suicidio sventato, perché nei fatti Renton entra, prova a strappare il sacchetto dalla faccia di Spud che, invece, vomita dentro il sacchetto. Un fiotto, giallastro. Un secondo fiotto. Renton strappa il sacchetto, sporcandosi le mani, Spud è salvo.
Ecco, questi ultimi mesi sono stati, per me, lenti come quella scena, anche epica, per certi versi, sicuramente malinconica, ma al dunque priva di ogni aspetto poetico, uno che vomita dentro un sacchetto che gli sta impedendo di respirare.
E dire che oggi voglio parlare di qualcosa che di poetico ha molto, se non tutto, e di una artista cui ho già dedicato anche parecchie parole, al punto da aver legato in maniera direi inossidabile a me, insieme abbiamo vissuto esperienze professionali credo importanti, sicuramente per me lo sono state. Anzi, a pensarci meglio, credo che anche per questo motivo, per aver in qualche modo incastrato le nostre rispettive carriera in avvenimenti e situazioni per noi importanti, renda la scena di Spud e Renton pertinente, perché Spud e Renton sono sì due disperati tossici, Spud lo è ancora, Renton meno, ma sono anche fondamentalmente due persone che la vita ha legato, due amici, quindi rimangio le mie perplessità, la vita nell’ultimo anno è stata un po’ questa cosa qui, un lento stillicidio che ci riporterà sì, alla vita di prima, ma lasciandoci addosso qualcosa di giallastro e appiccicoso, il vomito di Spud.
Scelta bizzarra, però, la mia, perché tempo fa, quando la pandemia che ci tiene in manette era giusto frutto della fantasia di Steven Soderbergh, per chi avesse visto Contagion, scrivendone, cioè scrivendo di lei e della sua arte e del fatto che la sua arte, che nel corso di una carriera ancora giovane, ha centellinato forse con un po’ troppa cautela, evocando in qualche modo un suo subitaneo ritorno, ritorno nei fatti mai avvenuto, ero ricorso a ben altre memorie e racconti, qui trovate quel di cui sto parlando https://www.optimagazine.com/2019/10/16/del-perche-abbiamo-bisogno-di-ilaria-porceddu-e-della-sua-musica-e-altre-cose/1604895. E così ho anche svelato il nome fin qui tenuto stupidamente in serbo. Stupidamente perché, partendo dal presupposto che quando io scrivo non lo faccio direttamente nell’impaginato, quindi le mie parole non sono accompagnate da una immagine e, soprattutto, non sono già poste sotto un titolo e un occhiello, voi che leggete le medesime parole, parole che potrebbero poi risultare forse un po’ diverse, perché strada facendo potrei anche decidere di tornare indietro e riscrivere qualcosa, spostare qualche blocco, scrivere al computer rende tutto questo molto semplice, seleziona, copia e incolla, fatto che non cambia comunque il senso del ragionamento, chiamiamolo generosamente così, ho tenuto in serbo il nome di Ilaria Porceddu fin qui, ma voi lo avete letto sul titolo, fatto che probabilmente vi ha anche indotto a leggere quel che state leggendo, e avete visto la foto che accompagna le mie parole e quel titolo, fatto che a sua volta avrà indotto altri a leggere queste mie parole, il mio tenere il suo nome occulto è stato uno sciocco esercizio di stile, paragonabile a chi, scrivendo un giallo, decide di scrivere nel titolo il nome del colpevole e poi fa finta che nessuno sappia chi sia il colpevole finché non lo dichiara dentro la trama. Va beh, pensatemi a terra, un sacchetto lacerato di plastica in faccia, il vomito spiaccicato un po’ ovunque e ogni voglia di darmi del coglione vi passerà.
Perché oggi, nel parlarvi di Ilaria Porceddu, che per chiunque legga quel che scrivo è ovviamente nome familiare, come anche per chi ama la buona musica, ovvio, e è nome familiare perché con lei ho appunto condiviso imprese per noi importanti, dal TedX a Matera, Venere senza pelliccia, al recital Cantami Godiva, entrambi del dicembre del 2018, tempi lontani, cui non posso non guardare con un misto di malinconia e tenerezza, nel parlavi di Ilaria Porceddu volevo partire in tutt’altra maniera, per arrivare invece a una situazione negli anni ormai consolidata, una sorta di topos della mia poetica.
Andiamo con ordine, però.
Esattamente quattro anni fa usciva Di questo parlo io, il terzo album della cantautrice sarda di cui, sembra impossibile, vi sto parlando già da un migliaio e passa di parole. Un album che, ne ho scritto e ne ho scritto davvero tanto, considero tra i più belli usciti in Italia negli ultimi anni, fondamentale nel guardare al cantautorato, che brutta parola, e al cantautorato femminile, che brutta parola. Perché lei, Ilaria Porceddu, non fatemi star qui a ricordare i suoi esordi in seno a X Factor, la sua vittoria morale, il suo essere in qualche modo maltrattata da chi la doveva accompagnare verso il successo, certo, con un buon passaggio a Sanremo, ma pur sempre una storia discografica che, servisse un disegnino, ben renderebbe l’idea di come in Italia spesso e volentieri chi gestisce la macchina, nel mondo della musica, è del tutto privo del know how, del resto se arrivi a fare il dirigente discografico dopo essere entrato in azienda come autista qualche dubbio sulla tua preparazione posso pure concedermelo, mica siamo dentro una commedia americana a base di “Yes I Can”, perché Ilaria Porceddu ha infilato nel suo terzo lavoro, la cui storia a sua volta è stata oggetto di stramberie che meriterebbero approfondimenti, della serie come si possa prendere un ottimo lavoro, importante, e lasciarlo lì a poltrire per pura mancanza delle basi dell’imprenditoria, nessuna voglia di sfruttarne le potenzialità, anzi, il più che ostinato tentativo di esercitare una qualche minima leva di potere per dimostrare che “come t’ho fatto te disfo”, non a caso poi l’etichetta in questione, che neanche merita menzione, non è andata da nessuna parte, perché Ilaria Porceddu ha infilato nel suo terzo lavoro delle perle che andrebbero fatte studiare nelle scuole di musica, per far capire come si possa prendere la nostra tradizione, quella antica, folk, come quella che fa riferimento alla musica leggera, a partire dagli amati cantautori arrivando fino al pop, e farne una miscela riuscita, alta ma non difficile, colta ma semplice alla fruizione, di una bellezza rara, bellezza che per altro lei, Ilaria, incarna, è evidente, anche esteticamente, ma che in qualche modo sembra aver indotto chi l’ha incontrata sulla propria strada a trattarla con superficialità, questa è una cosa che letteralmente mi manda ai matti, siamo credo il solo posto al mondo in cui essere belli è un problema, se si decide di far qualcosa che ambisca a rimanere, a scendere nelle profondità dell’anima, ragionamento ovviamente riservato prevalentemente alle donne, ma almeno per oggi lasciamo fuori il patriarcato, sto mettendo decisamente troppa carne al fuoco. Ilaria Porceddu è una delle nostre migliori cantautrici, questo ci dice Di questo parlo io. Ilaria Porceddu è una delle migliori cantautrici, punto. Questo mi ha detto anche l’aver potuto ascoltare le canzoni che Ilaria ha scritto nel corso di questi quattro anni, canzoni che ha in qualche modo provato a produrre, andando cercando collaborazioni che la lasciassero libera di esprimersi, sempre difficile cercare una sponda nel momento in cui si è dotata di una personalità delineata. Quattro anni, in discografia, sono tanti, tantissimi. Quattro anni di questi tempi, quelli, per intendersi, in cui Daniel Ek, CEO di Spotify indica come unica strada futura per gli artisti il tirare fuori un singolo al mese, lasciando da parte l’idea degli album ma soprattutto spingendoli a una iperproduttività sicuramente incline a soddisfare il suo modo bulimico e sciatto di intendere la musica, l’esempio concreto di una Dua Lipa, artista che nel corso degli ultimi dodici mesi di album, più o meno, ne ha tirati fuori tre qualcosa ci deve pur dire. Ecco, Dua Lipa, sarei curioso di sapere se qualcuno le avrebbe mai dato i consigli sbagliati dati a Ilaria, o se qualcuno le ha mai puntato contro la sua bellezza, Dio mio che provinciali che siamo qui in Italia.
Dicevo, scuserete se oggi sono particolarmente contorto, ma il tema che affronto mi sta particolarmente a cuore, e soprattutto ho piantato in testa l’immagine di me in terra col sacchetto in faccia, non sono belle immagini, ho ascoltato le nuove canzoni di Ilaria, e le ho ascoltate come provini, prima, e come preproduzioni, poi. Voi non le avete però ascoltate. E non le avete ascoltate non perché siate distratti o disinteressati all’artista in questione, la prima ipotesi potrebbe anche starci, siamo in pandemia, i tempi dilatati, il sacchetto di Spud e tutto il resto, la seconda, fidatevi, la terrei in caso per me, come di chi, resto nel territorio da cui sono partito, oggetto di una sorta di codice che non va svelato in pubblico, come di chi ami mangiare merda, lo fa, magari i suoi amici più stretti lo sanno pure, ma non è che lo possa dire in pubblico come se niente fosse, ecco, non siete tra quanti hanno a cuore Ilaria Porceddu, al punto da disinteressarvi alla sue nuove uscite, sappiatelo, siete esattamente come quelli che mangiano merda, e lo dico, sia chiaro, solo a coloro che la merda non la mangiano, perché altrimenti le mie intenzioni denigratorie non andrebbero a buon fine (chissà se dire se usare l’espressione “sei uno che mangia merda” è da considerare body shaming, in considerazione che esiste gente che mangia merda, in effetti?), comunque tranquilli, non avete ascoltato le nuove canzoni di Ilaria Porceddu non per distrazione, non fatemi ripetere, o disinteresse, ma perché le nuove canzoni di Ilaria Porceddu, a eccezione di Sa coia, di cui ho scritto qui https://www.optimagazine.com/2020/06/22/sa-coia-di-ilaria-porceddu-una-canzone-che-non-prova-vergogna-a-mostrare-bellezza-spudoratamente/1850729, canzone di una bellezza rara, rarissima, ma che esce in qualche modo dal novero delle sue nuove produzioni, per le ragioni che lì trovate, non avete ascoltato le nuove canzoni di Ilaria Porceddu, in buona sostanza, perché le nuove canzoni di Ilaria Porceddu non sono mai uscite. E non sono mia uscite perché lei non le ha incise, non ha portato a termine la produzione, e perché nessun discografico si è preso la briga di andare da lei e dirle: Ilaria, ma come cazzo è possibile che siano passati quattro anni, giusto oggi, e ancora non hai tirato fuori un altro album?
Chiaramente il detto discografico non si sarebbe dovuto limitare a fare la domanda, non è questo il loro lavoro, ma avrebbe dovuto sottoporle un contratto, fornire un budget adeguato a produrre un album, fanculo Daniel Ek, avrebbe dovuto anche, magari, anche questo sarebbe il suo lavoro, metterla in contatto con un produttore adatto alla sua scrittura, alta, colta, ma anche pop, sensuale, insomma, avrebbe dovuto realizzare l’album, prendersi cura dell’artista Ilaria Porceddu, volendo anche comprarsi il master dell’album di cui oggi si festeggia il quarto compleanno, Di questo parlo io, e tenerlo a cuore, il repertorio è sempre parte importante per chiunque abbia a cuore gli artisti e la musica. E invece questo non è successo. Certo, Ilaria non è proprio il tipo che si butta dai ponti con un elastico legato a una caviglia, tocca andare a stanarla, tempo fa avevo scritto che se non si fosse spicciata a fare il suo nuovo album sarei andato a casa sua e le avrei rapito i suoi amati gatti bianchi, chi la segue sui social ben sa come siano loro, i gatti bianchi, al centro del suo immaginario, a proposito di non voler sbattere la propria bellezza in mezzo alla scena, lei che volendo potrebbe farlo senza neanche sforzarsi, maledetti gatti, prima o poi verrò davvero a togliervi di mezzo, ma che la discografia non stia dietro agli artisti dichiaratamente di talento è prova provata di quanto la discografia sia ormai lavoro per gente priva di sensibilità e acume.
State lì tutto il tempo a lamentarvi che i talenti latitano, che vi siete scocciati di seguire le mode vacue del momento, anche se non usate la parola “vacue”, perché siete di media analfabeti, e non analfabeti funzionali, dichiarate che certo lo streaming vi ha dato ossigeno, e già questo è rimarchevole, perché quantomeno dimostra una sorta di presa di coscienza da parte vostra, quasi di refolo di orgoglio, perché in quest’epoca di fluidità e di rivendicazione della propria essenza anche star lì a dichiarare a voce alta “io non capisco un cazzo” dovrebbe essere plaudito come presa di coscienza, credo, comunque state lì a lamentare che non ci sono più gli artisti di una volta e poi, quando una grande artista ce l’avete sotto il naso neanche ve ne accorgete, e la lasciate a far sentire le proprie perle, perché di perle si tratta, ne ho ascoltato giusto una nuova anche stamattina, capre, la lasciate a far sentire le proprie perle solo a me e pochi altri. Intendiamoci, sapete che non ho esattamente un ego in versione mignon, l’idea che una grande, grandissima artista come Ilaria Porceddu canti e suoni solo per me potrebbe soddisfare il mio narcisismo, farmi sentire come un imperatore che chiama a corte l’artista per il suo piacere, si fotta il popolo bue. Ma non è così che dovrebbe andare, e in tutti i casi io non faccio il discografico.
Forse è i vostri gatti che dovrei rapire, discografici. Anche se non siete neanche capaci di farne parte di un immaginario estetico. Andatevi a recuperare Di questo parlo io, intanto, son quattro anni che sta lì a infondere bellezza, io vado a fare scorte di Kit e Kat, ho un’azione dimostrativa da mettere in atto, per il bene della musica e della bellezza.
Quanta verità, “Di questo parlo io” è uno degli album più belli usciti negli ultimi anni, Tabula rasa è straordinaria e Sas Arvures ti incanta anche non capendo una parola.