Oggi è Pasqua, il giorno che, per i cristiani e nello specifico i cattolici, si celebra la resurrezione di Gesù Cristo.
Per tutti gli altri è semplicemente Pasqua, una delle vacanze del nostro calendario, quella che in genere prelude alle uscite fuori porta di Pasquetta, le grigliate di carne, le birre a raffreddare nell’acqua del ruscello. Pasqua con chi vuoi, da contrapporre al Natale con i tuoi.
Nello specifico è la seconda Pasqua che si passa in lock down, anche se l’anno scorso eravamo in lock down e quest’anno siamo in zona Rossa, sfumature verbali che nascondono la medesima condizione. Pasqua con i tuoi, esattamente come Natale.
Pasqua con i miei, quindi.
In casa.
Siccome non mi piace però flagellarmi troppo, e non mi va neanche di star qui a flagellare voi, seppur probabilmente lo meritereste eccome, voglio provare a far fare almeno mentalmente una gita fuori porta. La grigliata di carne e le birre al fresco, è evidente, ce le dovete mettere voi. Si fanno miracoli, è vero, ma tutto fino a un certo punto.
Chiaramente, se mi leggete abitualmente ci sarete abituati, se non mi leggete abitualmente prendete per buono quel che vi sto dicendo, in fondo è per il vostro bene, mica per il mio, chiaramente, dicevo, ho di fronte due strade che portano in direzioni assai distanti tra loro, il classico bivio che porta comunque altrove, il fuori porta cui si faceva cenno sopra, ma che è un fuori porta di due tipi diversi, come se uno decidesse di andare a passare una giornata al mare o in collina, in montagna o al lago.
Se l’intento è portarvi in giro, non nel senso di prendervi per il culo, sia chiaro, se capita anche quello, ma è un optional, potrei imboccare un sentiero come l’altro, ma qui si tratta di compiere un’opera pia, quindi in teoria la scelta deve essere necessariamente oculata, per cui decido di compiere una azione che risulta possibile solo qui, nel campo letterario della scrittura, nel boschetto della mia fantasia, per dirla con Elio.
Come?
Semplice, imboccando contemporaneamente entrambi i sentieri, e chi se ne frega se non sono contigui e forse neanche paralleli. Distrazione sia.
Un bivio, quindi.
Il solito bivio, direi.
Da una parte c’è la data di oggi, precisa, 4 aprile 2021.
Dall’altra un più generico inizio primavera.
Nei fatti anche nel secondo percorso di sarebbe una data precisa, tra il 21 e il 23 marzo, ma come è evidente, ho cannato l’anniversario, e pure di anniversario tondo si sarebbe trattato, facendo quelle giornate riferimento a qualcosa accaduto esattamente cinquanta anni prima, nel 1971, quindi la prendo più larga e parlo di primavera.
Anzi, parto proprio da lì, dai giorni che vanno dal 21 al 23 marzo del 1971, e soprattutto a quel che quei giorni lì hanno visto nascere, hanno contribuito a far nascere, arrivando quindi fino a noi e, con un doppio salto mortale, un triplo avvitamento di quelli che solo i campioni sanno fare, giuro, mi ritroverò nel bel mezzo dell’altro sentiero, miracoli che solo la parola scritta può permettersi.
Cinquant’anni fa, qualche giorno più qualche giorno meno, nasceva ufficialmente il gonzo jouralism.
Nasceva, come a volte capita di leggere in certe notizie che descrivono situazioni di particolare degrado, da una donna che neanche sapeva di essere incinta, le mestruazioni ballerine che non si erano più presentate da tempo, nella disattenzione più totale, la pancia che era sì cresciuta, ma in mezzo al grasso di una linea persa chissà quando. Così, arrivano dei dolori e il tempo di chiedersi cosa sia che il gonzo journalism era lì, tra umori e sangue, pronto a strillare e dibattersi.
Una immagine che oggi non mi dovrei poter permettere, credo, quel riferimento così poco rispettoso alla maternità, quei dettagli riguardo il degrado, le parole a forte rischio body shaming rispetto all’obesità. Immagini sguaiate che però, lo dico facendo astrazione da me, ben descrivono la situazione che voglio farvi comparire davanti agli occhi, in un gioco di mimesi che necessita appunto esattamente quel tipo di fastidioso storcere il naso lì.
La donna incinta, e qui vado sempre peggiorando la mia già discutibile posizione, ha la faccia assai poco femminile, i lineamenti squadrati, i pochi capelli, un look che assolutamente non è di grande aiuto, di Hunter S. Thompson, già noto come giornalista e scrittore, qualche anno prima, nel 1967, ha dato alle stampe un libro di un certo interesse, Hell’s Angels, nel quale, tra cronaca e fantasia, raccontava del suo essersi infiltrato tra le fila dei noti motociclisti, sostanzialmente una banda di criminali, con un finale che ce lo mostrava in ospedale, buona parte delle ossa rotte, vai poi a sapere se era tutto vero o meno.
Cinquant’anni fa, appunto, giorno più giorno meno, il buon Hunter S. Thompson parte per un viaggio di lavoro, un breve viaggio di lavoro, la rivista per la quale scrive, infatti, la prestigiosa Sport Illustrated, aveva chiesto al nostro di seguire la Mint 400, una corsa in moto che si teneva alle porte di Las Vegas, nel deserto del Nevada, e Thompson aveva ovviamente accettato di buon grado. A accompagnarlo in quello che doveva quindi essere un reportage, niente più e niente meno, il suo avvocato di origini messicane, l’attivista per i diritti civili Oscar Zeta Acosta, nel libro presentato col nome Dr. Gonzo, lui, Thompson, sarebbe stato come al solito Raoul Duke, questo l’alter ego letterario e giornalistico che usava sempre. Piccolo dettaglio che finirà per rendere il tutto il capolavoro che è anche oggi, i due prima di partire decidono di caricare l’auto di droghe e alcool, facendo diventare quella che poteva essere una semplice tre giorni di cronaca in una sorta di girone dantesco psichedelico. In realtà, Thompson e Acosta si sono incontrati proprio a Las Vegas, dove quest’ultimo risiedeva, perché il giornalista stava raccogliendo materiale per una sua inchiesta sulla morte di un altro attivista, il giornalista Rubén Salazar, ma son dettagli che nel racconto che sortì dall’incontro tra i due diventerà fumoso, ambiguo, e a dirla tutta irrilevante. Thompson infatti manderà a Sport Illustrated non un resoconto della gara, ma una sorta di lunghissimo racconto picaresco sul peregrinare tossico e ebbro di Raoul Duke e Dr. Gonzo, senza neanche citare il nome del vincitore della gara, col risultato che il magazine rifiutò di pubblicare il pezzo, per altro lunghissimo e assolutamente fuori contesto.
Thompson lo proporrà allora a Jann Wenner, illuminato direttore di Rolling Stone, che non solo accetterà di buon grado di pubblicarlo, ma rilancerà invitando Thompson a andare come infiltrato alla conferenza dei procuratori distrettuali contro l’uso di narcotici che si sarebbe tenuta, sempre a Las Vegas, a fine aprile dello stesso anno. Questo secondo round, chiamiamolo così, costituirà lo spunto per la seconda parte di quello che diventerà, a ragione, uno dei classici della letteratura americana del Novecento, Paura e disgusto a Las Vegas, libro che verrà pubblicato ovviamente solo dopo che Rolling Stone avrà piazzato in edicola il reportage in due parti, verso la fine dell’anno.
Questo testo, fondamentale, è considerato la Bibbia del cosiddetto Gonzo Journalism, definizione che ha per padre Bill Cardoso, giornalista del Boston Globe che così battezzò questa particolare evoluzione del New Journalism che vedeva Hunter S. Thompson come padre padrone, il tutto dopo aver letto un suo reportage molto personale sul Kentucky Derby, nel quale il nostro poco parlava dell’evento, e molto del suo essere cresciuto da quelle parti, modo singolare e incisivo per descrivere un’atmosfera altrimenti destinata a fare da sfondo a una mera cronaca sportiva. Il gonzo cui Cardoso fa riferimento, en passant, è il nomignolo con cui gli irlandesi di stanza a Boston, città dei padri pellegrini, erano soliti chiamare l’ultimo a rimanere in piedi dopo una nottata di bagordi e bevute smodate.
Ho citato di sfuggita il New Journalism, prima di addentrarmi nei meandri del Gonzismo, credo sia necessario una piccola spiegazione a riguardo. È noto come il giornalismo anglosassone sia tutto poggiato sulle cinque W (Who, What, Where, When e Why, cioè Chi, Cosa, Dove, Quando e Perché), con la rigida e precisa indicazione di imparzialità, senza la benché minima presenza sulla scena, né tanto meno, con la presenza della propria opinione. Negli anni Sessanta, andando in direzione del tutto opposta, era nato il New Journalism, una forma molto letteraria di giornalismo che vedeva appunto assai presente il punto di vista dell’autore, al punto da essere spesso presente anche come personaggio dei racconti. I principali artefici di questo nuovo genere letterario sono senza ombra di dubbio Tom Wolfe, Truman Capote, Joan Didion e Guy Telese, firme di tutto rispetto del giornalismo americano, autori di reportage diventati storici, e di libri di grande successo.
Il Gonzo, che viene in genere incluso d’ufficio nel novero del New Journalism, pur rappresentandone una sorta di esasperazione, di estremizzazione, porta al limite proprio l’idea di giornalismo, rinunciando non tanto all’imparzialità, ma addirittura alla veridicità dei fatti raccontati, lasciando cioè che la narrazione sia superiore ai fatti, che la verità arrivi passando dalla fantasia più che dalla accurata riproposizione degli accadimenti.
In questo Paura e disgusto a Las Vegas è ovviamente un must, al punto che sapere se in effetti Thompson e Acosta avessero con loro così tante droghe, se ne hanno in effetti abusato così pesantemente, se tutto quel che raccontano sia o non sia realmente accaduto diventa superfluo e privo di rilevanza, come recita il titolo del reportage che da quell’esperienza è stato tratto per Rolling Stone, quello è un Viaggio selvaggio nel cuore del Sogno Americano, e su questo credo nessuno possa aver nulla da eccepire.
Poi, che Hunter S. Thompson sia diventato, o sia sempre stato, larger than life, è altra faccenda, l’epilogo della sua vita è assolutamente all’altezza del suo svolgimento. Da tempo depresso, forse per l’uso reiterato e eccessivo di droghe, ma anche per un fastidiosissimo dolore all’anca che lo perseguitava da tempo, decise di uccidersi, sparandosi con un fucile. Il suo funerale, pagato per intero da Johnny Depp, che nella trasposizione cinematografica di Paura e delirio a Las Vegas, diretta da Terry Gilliam, interpretava proprio Thompson e che in quella occasione gli era diventato amico, è stato a suo modo qualcosa di circense e paradossale, sempre e comunque estremo e surreale, le sue ceneri sparate con un gigantesco cannone, questo dopo che la sua salma, il fucile in braccio, era stata ricomposta per un ultimo saluto agli amici ancora seduto alla sua scrivania, roba che a scriverla in un libro si corre il rischio di non essere creduti.
Perché vi ho accompagnato in questo sentiero così stralunato e psichedelico, oggi?
Semplice, perché niente meglio di Hunter S. Thompson mi fa venire in mente l’idea di viaggio da fermo, e perché, ne parlavo proprio in questi giorni, l’idea di essere se stessi, o di mostrarsi per quel che si vuole, non necessariamente per quel che si è, è da sempre parte integrante del mio modo di intendere la scrittura, anche quella destinata a finire su magazine e giornali, quindi ascrivibile agli occhi altrui nel calderone del giornalismo, rendere tributo a chi questa strada l’ha percorsa per primo non è mai gesto inutile, se volete perdervi davvero in luoghi affascinanti è nei suoi libri che dovete finire, fidatevi di me.
E visto che di gonzo journalism vi ho parlato, cosa di meglio che parlare di me per passare a introdurvi l’altro percorso, quello rimasto al momento inesplorato, lì, al bivio che ci si parava di fronte non so più quante parole fa.
Oggi è il 4 aprile 2021. Pasqua. Ma per certi versi anche un natale. Di più, il Natale di un artista che, neanche trentenne, nel 1979, tira fuori una mina anti-guerra che porta per titolo proprio Gesù Bambino, niente succede per caso, e ci arriva, l’album che contiene quella finta Ninna nanna e Viva l’Italia, eponimo di uno dei brani che meglio fotografa il nostro spirito patrio, più nel male che nel bene, settimo album di una carriera, lo vedremo a breve, che a guardarla lì, un titolo dopo l’altro, mette impressione, un Natale più che un natale.
Perché esattamente settant’anni fa, infatti, nasceva un uomo che è entrato a far parte della storia della musica italiana, un artista che ho molto amato, e a cui sto incredibilmente molto sul cazzo (ma questi son fatti nostri).
Parlo di Francesco De Gregori, e converrete con me che l’espressione “stare sul cazzo” è quanto di più distante si possa anche solo immaginare associata al cantautore noto come Il Principe, colui che ha dato alla nostra musica leggera i versi de La donna cannone o La storia, probabilmente colui che più che altro ha avvicinato la nostra musica leggere alla poesia.
Non credo servano didascalie, a riguardo, ma già solo indicare i suoi primi dieci album, dieci, eh, non due o tre, ci dona una prospettiva sul peso specifico del suo nome e del suo talento: Theorius Campus, album split con Antonello Venditti, anche i nomi con cui ha collaborato contribuiscono a dare profondità a questo anomalo ritratto, e siamo nel 1972, poi Alice non lo sa, con quell’attacco “Alice guarda i gatti e i gatti guardano nel sole, mentre il mondo sta girando senza fretta” che meriterebbe una intera canzone, non bastasse la presenza in scaletta di quel ritratto delicato che porta il nome de La casa di Hilde, e siamo nel 1973, poi è la volta dell’album che porta per titolo il suo nome e cognome, l’anno successivo, anche qui, un attacco da antologia, “Le stelle sono tante, milioni di milioni/ La luce dei lampioni riflette sulla strada lucida/ Seduto o non seduto faccio sempre la mia parte/ Con l’anima in riserva e il cuore che non parte/ Però Giovanna io me la ricordo bene/ Ma è un ricordo che vale dieci lire/ E non c’è niente da capire”, quella contrapposizione tra l’aulicità dei versi in cui l’animo del protagonista viene paragonato a una macchina in affanno e il passaggio successivo, narrativo, quotidiano, spiccio, Madonna, quanta poesia, poesia che l’anno successivo trova forse la sua forma più perfetta, Rimmel il titolo dell’album, oltre di una delle canzoni più note della nostra musica leggera, un tratto che si fa chiarissimo, riconoscibile, affrancato dai padri nobili cui De Gregori si è rivolto sin dall’inizio, Dylan su tutti, una tracklist che non chiede commenti, Rimmel, Pezzi di vetro, Il signor Hood, Pablo, Buonanotte fiorellino, Le storie di ieri, Quattro cani, Piccola mela e Pianobar. E siamo solo al 1975, De Gregori ha ventiquattro anni, santo Dio, un altro anno e arriva Buffalo Bill, album che oggi verrebbe descritto come “della maturità”, a venticinque anni, il racconto dell’eroe del vecchio West è ancora oggi talmente vivido da sembrare tridimensionale, la struggente Santa Lucia, a chiudere un lavoro che dentro presenta altre chicche, su tutte L’uccisione di Babbo Natale e Atlantide, che di lì a breve darà alla luce un’altra collaborazione impressionante, quella con Lucido Dalla per il tour e l’album Banana Republic, ma prima c’è il tempo di dare alle stampe De Gregori, è il 1978, album dominato, non potrebbe essere altrimenti, da Generale, un inno antimilitarista come ce ne sono pochi, in Italia, al punto che una Renoir, una Natale, una Raggio di sole quasi scompaiono, e sarebbe un peccato, poi appunto Banana Republic, un tour negli stadi impressionante, per il tasso di artisticità, e per il successo popolare, una storia di amicizia e musica che troverà modo di replicarsi, in seguito, lo stesso anno arriva Viva l’Italia, già l’ho menzionata, e poi, a seguire, Titanic, nel 1982, superati i trenta, con quell’attacco di Belli capelli e Caterina che stenderebbe anche un pugile provetto, giusto il tempo di tirare il fiato e arriva una delle sue canzoni più intense e amate, La leva calcistica del ‘68, Nino che diventa per sempre uno di noi, e L’abbigliamento del fuochista, e poi ancora Titanic, I muscoli del Capitano, Titanic è un’altra Rimmel, va detto, più matura e altrettanto ispirata, altri tre anni e arriva Scacchi e Tarocchi, quel “La storia siamo noi padri e figli, siamo noi Bella ciao che partiamo/ La storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano” che sono i versi che ho scritto nella prima scheda elettorale che ho annullato, inaugurando una lunga storia di anarchia e obiezione al voto, e quella A Pa’, dedicata a Pier Paolo Pasolini, che rende ancora più struggente una scomparsa che ha lasciato un segno profondo, una assenza profonda nella nostra storia.
Potrei fermarmi, non ce la faccio, però. Perché dopo questa prima decina, decina uscita mentre il nostro non ha neanche trentacinque anni, arrivano Terra di nessuno, 1987, con l’attacco sferzante de Il canto delle sirene e i suoi picchi, picchi massimi nella discografia di chiunque altro, che rispondono al titolo di Mimì sarà e I matti, poi, è il 1989, Mira mare 19-4-89, la politica che torna a occupare la scena, Bambini venite parvulos, Miramare, Dottor Dobermann e Cose è un lato A, all’epoca c’erano ancora i vinili, che tiene il passo di Rimmel e Titanic, e il lato B non è da meno, Pentathlon, 300 milioni di topi, Vento dal nulla, Carne di pappagallo e Lettera da un cosmodromo messicano, come regge il passo alla grande anche il successivo, Canzoni d’amore, è il 1992, il nostro ha superato i quaranta, Bellamore, Sangue su sangue, e poi ancora Viaggi e miraggi, Chi ruba nei supermercati?, un capolavoro ancora oggi, da far cantare ai bambini alle elementari prima dell’inizio delle lezioni, che capiscano sin da piccoli da che parte stare, la lunghissima e lancinante Tutto più chiaro che qui, Stella della strada, Vecchi amici, Povero me, il passo “Mi viene voglia di menare le mani/ Mi viene voglia di cambiarmi il cognome/ Cammino da sempre sui pezzi di vetro/ e non ho mai capito come”, al pari di “I simpatici mi stanno antipatici/ i comici mi rendono triste/ Mi fa paura il silenzio/ e non sopporto il rumore” da mettere nelle antologie dei licei, ancora La ballata dell’uomo ragno, Adelante! Adelante!, Rumore di niente, un altro capolavoro.
Mi fermo. Non perché De Gregori, ripeto, che oggi compie settant’anni si sia a sua volta fermato, ma perché credo che toccare queste vette, queste vette toccate per così tanto tempo, sarebbe impossibile a chiunque.
L’ho detta questa cosa, l’ho scritta, e credo fondamentalmente questo sia il motivo per cui gli sto sul cazzo, succede, mi spiace ma ce ne faremo entrambi una ragione.
Del resto sono quello cresciuto anche a pane e Hunter S. Thompson, non avevo altro modo di esternare il mio amore per la sua musica che, a un certo punto, provare a ucciderlo puntandogli contro un fucile fumante. Fa parte del mio entrare dentro la storia, certo, il mio essere gonzo, e fa parte anche del mio modo per raccontarvi come De Gregori, quel De Gregori lì, sia davvero parte portante della mia formazione, fatto che immagino lo metterà magari anche un po’ a disagio, visto come mi sono espresso sin qui, ma non è che si possa proprio decidere in tutto e per tutto come essere omaggiati e da chi.
Sto sul cazzo a De Gregori, dicevo, nonostante io sia un suo fan sin dai tempi del suo esordio, un fratello più grande, Marco, un mio fratello più grande, più grande di otto anni, capace di farmelo apprezzare sin da piccolo, il mio infantile cervello di bambino a incartarsi nel cercare di capire che diavolo significassero i versi criptici di Pezzi di vetro, a oggi la sua canzone da me preferita, a sorridere dietro quelli strampalati di Quattro cani, a provare disagio per la smielatezza di Buonanotte fiorellino, poco romantico sin dalla più giovane età, a provare un atavico senso di indignazione proto-sindacale per Pablo, pensando a quel treno che un giorno anche io avrei preso e avrei fatto bene, per poi andare avanti col tempo, con gli album, il piacere anticensoreo di cantare “non fa fermate neanche per pisciare”, intuire cosa fosse la poesia attraverso la forma canzone, una voce delicata, cristallina, a metterle lì, su melodie mai banali, melodie, questo lo avrei appreso solo dopo, che però dal vivo venivano devastate, distorte, come a volerle rendere meno belle, quasi a vergognarsi della perfezione messa su traccia, in questo, anche in questo, così simile al suo vate Bob Dylan, poi la folgorazione al fianco di Lucio Dalla e Ron, in quel Banana Republic che è stato per me una specie di folgorazione sulla via di Damasco, lui del resto aveva già dato vita con De Andrè al deandreiano Volume, nel 1978, a ventitré anni, capito quando poi dite che i cantanti indie sono scialbetti ma sono ancora giovani, si faranno, ventitré anni, la poesia che si arrampica sull’albero della cuccagna del pop, ci gioca, prende a randellate la Pentolaccia, lo scendere in mezzo ai comuni mortali, quelli sempre da guardare con diffidenza, guarda che non sono io, la svolta narrativa, politicizzata, tu da che parte stai, dalla parte di chi ruba nei supermercati o di chi li ha costruiti rubando, ecco, io con quel De Gregori lì ci sono cresciuto, mi ci sono formato, ho provato a capire il mondo, pur nella difficoltà di capire il mondo attraverso testi sulla carta poco comprensibili, gli sto sul cazzo, a De Gregori, perché, prendendolo alla lettera, ma forse è sempre sbagliato prendere alla lettera chi decide di essere criptico, dadaista più che ermetico, ho pensato che dire di lui, del lui che ha continuato a fare dischi negli anni, anche quando a mio modo di vedere le cose di cose da dire ne aveva pochine, o aveva da dire le cose sbagliate, incapaci, quelle cose, quelle canzoni, di fare i conti col passato, di tenerne il passo, sempre che sia sensato anche solo ipotizzare che con l’andare del tempo si debba o si possa tenere il passo col proprio passato, avete presente tutti il giochino verbale, quello la cui risposta è ovviamente “l’uomo” e che chiede, parola più parola meno, “di mattino ha quattro gambe, di giorno due e di sera tre”, intendendo il gattonare dei bebè, il camminare eretti da adulti e l’appoggiarsi a un bastone degli anziani, e io gli ho detto, col mio stile che criptico non è, certo massimalista, psichedelico anche in assenza di sostanze psicotrope, ma non criptico, e io col mio solito stile gli ho detto che mi sembrava una di quelle persone di una certa età affette da dismorfismo corporeo, andando quindi a sottolineare come il suo continuo flirtare con realtà decisamente più giovanili e pop, penso alla celebrazione De Gregori & Friends con duetti per i quarant’anni di Rimmel, a certe sue partecipazioni a show televisivi discutibili, i talent, assolutamente distanti dal suo immaginario o dalla nostra proiezione del suo immaginario fosse simile a chi, di fronte al proprio invecchiamento e a quel che il proprio invecchiamento comporta a livello fisico, l’evidenziarsi di certi difetti, le rughe su tutte, si accanisce sul proprio corpo, ricorrendo alla chirurgia estetica e finendo, se possibile di peggiorare notevolmente il proprio aspetto, un voler sembrare giovani che si traduce più in un deformarsi, diventando quasi dei mostri inumani.
Certo, una metafora un po’ forte, estrema, ma che credo nascondesse in sé il baccello del mio amore smodato verso il De Gregori ispirato, quello giovane, diciamo dagli esordi fino almeno a Canzoni d’amore, anno del Signore 1992, qualcosa come una ventina d’anni di carriera, qualche centinaio di canzoni, quel mio dire che coprire la bellezza col botox era un errore, credevo fosse lapalissiano, partiva dal presupposto che di bellezza ce ne fosse, eccome, ancora intatta, non invecchiata, anzi, assolutamente da preservare, capace di sconfiggere l’incedere del tempo, bellezza eterna, citando una patologia intendevo dire che il volerla ritoccare era appunto frutto di un malessere, qualcosa di curabile e da curare.
Certo poi che io avessi detto, parola più parola meno, che quel che era avvenuto nei quasi trent’anni successivi era poca cosa, anche se salvavo alcune tracce, La valigia dell’attore, per dire, Cardiologia, ma mica si può mentire a chi si è amato tanto, io la vedo così, pensavo la vedesse così anche lui, e mi sbagliavo. Gli sono finito dritto dritto sul cazzo, e questa cosa mi ha da una parte sorpreso, non pensavo di essere frainteso, da un’altra addolorato, non volevo certo essere frainteso, in piccola parte anche divertito, cosa c’era di più gonzo che stare sul cazzo a uno dei propri idoli di gioventù, finire in qualche modo dentro le sue giornate era per me quasi assurdo, impensabile.
Sapere che lì, da qualche parte, inarrivabile, anche per sua volontà, guarda che non sono io, anche compiaciutamente inarrivabile, guarda che non sono io, appunto, non mi rompere le palle con le tue proiezioni, i miei scritti avessero rovinato le sue giornate, lo avessero fatto sbuffare, innervosire, mi ha procurato una strana forma neanche troppo sottile di piacere, pari a quando altri mi hanno palesato i loro complimenti, mi hanno citato parte dei miei articoli, hanno dimostrato di conoscere il mio pensiero, di tenermi in conto.
Sapere che Fossati mi legge, sa chi sono, e apprezza cosa scrivo, o sapere che lo sanno Zucchero, Vasco, beh, ovvio che Vasco lo sa, lavoriamo insieme, il fatto che lo sappiano in tanti e in tanti lo apprezzino e me lo manifestino apertamente e pubblicamente, lo confesso, non mi ha procurato lo stesso brivido di sapere che sto sul cazzo a De Gregori, che chiedergli una intervista mi è precluso dal mio aver detto di lui quel che ho detto, senza la medesima possibilità che magari a suo tempo mi è capitata con altri grandi nomi, penso a Ligabue, per dire.
Il fatto è che io credo, si sarà intuito, che per fare critica musicale oggi tocchi sparigliare le carte, entrare dentro i propri scritti, inseguire una idea letteraria e maltrattarla, facendo di sé un personaggio, rendendolo così credibile da finire per litigare coi cantanti, mandarcisi a cagare, in altri casi diventarti amici come in genere succede da piccoli, quando si ha ancora tutta la vita davanti e chissà quante esperienze da fare.
Oggi lui, Francesco De Gregori, compie settant’anni. Un compleanno importante che arriva proprio nel mezzo di quello che è per tutti il secondo lock down, la seconda Pasqua passata chiusi in casa, immagino lui a Roma, e non nelle mie Marche, terra anche a lui cara, una casa a Senigallia nella quale passa parte dell’estate, la attività live ferma al palo, di dischi neanche a parlarne, e forse, visto quanto detto su, è meglio così.
Quando ho deciso di scrivere di lui, di fargli a modo mio gli auguri, mi sono anche detto, visto mai che leggendo queste mie parole capisca, si convinca della mia buona fede, decida di abbattere quel muro di diffidenza, più che legittima, certo, nei miei confronti, credo che avremmo belle cose da dirci, e credo che un racconto nel quale io, che sono io nel senso di quell’io che lo ha paragonato a un tizio che si spara a bomba il botulino perché crede che così sembrerà giovane finendo per sembrare a un gatto, sarebbe qualcosa di gigantesco, ne sono fermamente convinto.
Poi ho iniziato a scrivere, mi sono perso parlando di gonzo journalism, perché sapevo che dovevo prenderla da lontano, preparare la tavola per il banchetto, salvo poi l’essermi ritrovato qui, davanti alle sue finestre col mio mazzolino di fiori appassito, a cantargli Happy Birthday Mr President come fossi una Marilyn Monroe un filo meno fascinosa ma sicuramente altrettanto innamorata. Immagino sarà per un’altra vita, caro Francesco, anche stavolta finirò per starti sul cazzo.
A Fra’, per parafrasarti, che almeno i miei sinceri auguri ti giungano a gran voce, e grazie per tutte le tue belle canzoni, quelle lì.