Ieri è stata una giornata strana.
Una bella giornata per certi versi. Una giornata molto brutta, bruttissima, per altri.
Dovessi trovare un aggettivo, direi struggente.
Anche se.
Confesso un mio problema personale, che probabilmente poco si addice alla mia faccia, al me cui in qualche modo ho abituato chi legge. O forse no. Nei prossimi giorni, giuro, affronto questa cosa di quel che sono e quel che mostro e appaio.
Oggi no, non ne ho voglia, e non ho la necessaria lucidità per farlo.
Soprattutto ho altro da dire.
Confesso un mio problema personale, dicevo, so che quando scrivo quel che scrivo viene letto con attenzione dai miei cari, a quattrocentoventisei chilometri da dove sto scrivendo.
Voi potreste dire, e chi se ne frega, legittimo, ma questo è un diario, mi interessasse chiedere l’opinione di chiunque mi legga per decidere esattamente le parole da scrivere, o gli argomenti da trattare, ora starei parlando di Vittoria, la figlia di Chiara Ferragni e Fedez. Invece sto parlando di una giornata struggente. E di quanto sia per me difficile scrivere a cuore aperto.
Perché so che le mie parole, che spesso finiscono sulla pagina, digitale, esattamente con lo scopo di togliere un po’ di peso dal mio cuore, esattamente con la medesima finalità per cui chi scrive bossanova si lascia andare a quegli arpeggi così complessi, accordi quasi impossibili per chi non sia più che bravo a destreggiarsi sulla tastiera di una chitarra.
I miei leggono cosa scrivo, e non sempre capiscono questo mio scrivere. Si preoccupano. Si rattristano. Si preoccupano e si rattristano, questo il punto, del mio rattristarmi per essere a quattrocentoventisei da loro, anziani, sette mesi che non li vedo, mai era passato così tanto tempo in vita mia, e l’invecchiare, mio e loro, ovviamente soprattutto loro, i miei genitori, ma anche mio fratello e mia sorella, in modo minore, sono ovviamente più vecchi di me, mi pone di fronte, ci pone di fronte alla consapevolezza che le volte che ci vedremo, il tempo che passeremo insieme sarà sempre meno, per quanto la vita sia dotata di quell’ineluttabile variabile che qualcuno chiama destino, qualcuno, loro, io, la volontà di Dio, si preoccupano e si rattristano, per cui la sera, quando arriva il momento della nostra abituale telefonata giornaliera, mio padre, è quasi sempre con lui che parlo, mi dice che mia madre si è dispiaciuta per aver letto delle mie preoccupazioni e delle mie tristezze, ma me lo dice non col tono di chi vuole farmi pesare il suo essersi dispiaciuto, quasi a voler esternare con pudore che anche loro, a quattrocentoventisei chilometri di noi, se ne dispiacciono e rattristano, e nel volersi sentir dire, “ma no, non preoccupatevi, è tutto passato, lo scrivo anche per quello”, c’è un sottotesto che vorrebbe indurmi a occuparmi d’altro, a essere più svagato e spensierato, come se fosse possibile oggi essere svagati e spensierati.
Così tutti i giorni, con picchi verso l’alto e picchi verso il basso, la rabbia che a volte prende il posto della tristezza, l’apatia che più spesso si fa largo a spallate, occupando la scena come un tipo invadente che cerca di monopolizzare tutta l’attenzione di una tavolata fino a quel momento armoniosa.
Solo che ieri è stata una giornata strana straziante, e per quanto io sappia che nello scrivere quanto sto per scrivere li intristirò, a quattrocentoventisei chilometri di distanza, non posso che farlo, perché certi non detti pesano più di quanto il dire cose struggenti possa fare. Intossicano.
Ieri è stata una bella giornata, per certi versi. Una giornata molto brutta, bruttissima, per altri.
I miei genitori, anziani, in Ancona, hanno fatto il richiamo del vaccino. Lo hanno fatto accompagnati da mia sorella Caterina, in un centro vaccinale nella zona industriale di Ancona, vicino a quella via Scataglini, dedicata a Franco Scataglini, poeta di fama nazionale che la mia città ha regalato al mondo, che mi ha fatto sbottare anni fa in faccia alla allora neo eletta sindaca e ai politici locali, quello è il riconoscimento che la mia città dona ai suoi figli più meritevoli, il nome in una via periferica, abbandonata da Dio, il non detto era, non fate che quando toccherà a me il trattamento sia il medesimo, il non detto un cazzo, l’ho proprio detto a voce alta, chiedendo anche che mi venissime regalata la Torre di Portonovo, pur sapendo che è una torre di proprietà privata, ma credo che avere me tra i propri concittadini sia meritevole di un sacrifico anche economico da parte della amministrazione cittadina.
Ecco, lo avete appena letto.
Sto tergiversando.
Ho iniziato a parlare di struggimento e tristezza, ho parlato di bossanova, e niente è più vicino a me della bossanova in questo momento, e poi faccio il cazzone, mi nascondo dietro la strafottenza, l’insolenza, prendo il me stesso fragile che ho messo in mostra spudoratamente e lo vesto di arroganza. E anche questo mio sottolinearlo, questo ormai noioso fare quello che spiega quel che sta facendo, come un regista che compia in scena durante un film e spieghi il perché di una determinata inquadratura, di una determinata luce, altro non è che portarmi e portarvi lontano dal centro del mio dolore. Da quel che è successo ieri.
Scusatemi, è difficile, è più forte di me.
Ieri i miei genitori, anziani, si sono vaccinati. Sottolineo anziani, è evidente, spiegarvelo mi mette quasi a disagio, come se trattassi voi, involontari compagni di viaggio, come dei cretini, e non meritate certo questo trattamento, fedeli compagni di viaggio, ma tornare sui miei passi è più difficile di quanto non credessi, come quando Fonzie doveva dire scusa, per intenderci. Ho detto anziani, vado fino in fondo, perché non vi inalberiate, non facciate come è successo, credo legittimamente, con Scanzi, che qualcuno possa pensare che i miei abbiano saltato la fila, sono nati nella seconda metà degli anni Trenta, e che cazzo, loro hanno tutto il diritto di vaccinarsi, a differenza di Scanzi, non hanno saltato file, non si sono avvantaggiati di un cognome, Monina, per altro in città ancora piuttosto pesante, un cugino di mio padre, Guido, sindaco della ricostruzione post-terremoto, storia vecchia, a lui hanno dedicato una viettina in centro, sì, ma piccola piccola, quasi impraticabile, città ingrata ai propri figli più meritevoli, ripeto.
I miei si sono vaccinati, e si sono vaccinati in un centro vaccinale nella zona industriale di Ancona, davanti a un centro commerciale, accompagnati da mia sorella Caterina. Mio fratello Marco, il maggiore, non ha la patente, normale ci fosse lei. Probabilmente, volessi reiterare questa faccenda del tergiversare, a questo punto potrei anche buttare lì una frasetta che scatenerebbe una polemica a base di accuse di patriarcato, sessismo, qualcosa tipo “e poi è una femmina, normale che si prenda cura lei dei miei”, ma ho già portato abbastanza il can per l’aia, direi che posso andare avanti.
Io non ero lì. Questo è un fatto. Sto a Milano, inutile sottolinei a quanti chilometri, se non lo avete memorizzato avete un problema serio di memoria breve, suggerisco un controllo. Non ero lì, e la cosa, ovviamente, mi strugge. Non perché fosse necessaria la mia presenza per andare a fare il vaccino, mia sorella Caterina era lì, non saremmo potuti essere lì entrambi, ma perché la lontananza, in questi casi, pesa, e pesa eccome.
Il fatto che si siano vaccinati è una cosa bella, credo. Perché seppur nulla di troppo approfondito si sappia dei vaccini, credo che vaccinarsi sia davvero la sola maniera per uscire da questo impasse, e perché credo che sia meglio essere vaccinati, anche se la cosa non fosse definitiva, come il vaccino contro il vaiolo, ma temporanea, come per le influenze, e sono felice che i miei, anziani, lo abbiano potuto fare. D’altro canto, il sapere che si dovevano vaccinare mi ha preoccupato, per motivi che potete ben immaginare, vivo Italia, leggo i giornali, sono stato sottoposto anche io a questa carica di terrorismo che qualche giorno fa ha fatto bloccare le vaccinazioni con AstraZeneca, i miei hanno fatto Pfizer, sono anziani, ripeto, e per di più, so che nello scriverlo farò pensare a mia madre, “queste sono cose private, non dovresti scriverle”, mio padre è piuttosto incline alle allergie, fatto comunque dichiarato da subito dal suo medico curante, e assolutamente sotto controllo da parte di chi i vaccini li somministra. Mettiamola così, se avessi avuto motivo per essere in ansia, io che dell’ansia sono credo la persona che conosco che meno soffre, per i vaccini dei miei genitori, l’essere allergico ha contribuito a preoccuparmi ulteriormente.
Quando si è preoccupati per qualcosa ma si è impossibilitati a tenere la cosa sotto controllo, non credo ci sia bisogno che vi spieghi quel che già sapete, siete gente sveglia, la preoccupazione aumenta. Almeno per chi, come me, tende a voler avere tutto sotto controllo.
Sono un improvvisatore, intendiamoci, ma non per quel che riguarda gli altri, e ovviamente non per quel che riguarda la salute.
Per questo credo, e passo alla parte in cui spiego perché la giornata di ieri è stata brutta, ieri notte ho fatto un incubo. Io non dormo molto, quasi niente, insonne cronico fin da quando ero un ragazzo, e non ricordo mai i sogni che faccio, a questo punto vorrei dire “per fortuna”.
Ieri infatti ho sognato che mi trovavo in Ancona, per gli anconetani in ascolto stavo passeggiando per via Giordano Bruno, non esattamente una zona dove in genere si va a passeggio, quando chiamo al cellulare mio padre. Sono risentito, questo nel sogno, perché mio padre non mi ha fatto sapere come è andato il vaccino. È sera, nel sogno, e loro il vaccino lo hanno fatto di mattina. Per cui, gli dico, nel sogno, sono preoccupato, ero preoccupato, molto. Mio padre, che credo sia una delle persone più pacate del mondo, dice che è andato tutto bene, nel sogno, nell’incubo, dice che anzi, ma lo dice per difendersi, io sono risentito, c’è rimasto male io non sia andato con lui, e che non mi sia neanche fatto vivo per sapere come è andato. I patti erano altri, gli dico, dovevano chiamarmi loro, perché, questi sono quegli strani meccanismi dei sogni, se avessi telefonato avrei incasinato tutto, avrei disturbato. Mio padre non dice incasinato, è d’altri tempi. E io, in cinquantuno anni, quasi cinquantadue, non credo di aver mai litigato, neanche una volta, con mio padre. Neanche quando, parlo degli anni Novanta, lui diacono, ben in vista, io un ragazzo coi capelli lunghi fino al culo e una curiosità smodata per le cose del mondo, la mia faccia sui giornali locali mentre sto in cima agli scranni della Giunta Comunale, un cappello da rasta in testa, le mai sui fianchi, in una posa vagamente da Duce, tutti i punk e i disadattati della città seduti sulle poltroncine ai miei piedi. Stavolta, nel sogno, nell’incubo, litighiamo. Io sono furioso, perché mi ha tenuto fuori da questa faccenda, e perché ora sta provando a girare le colpe su di me, come se fosse a causa di un mio disinteresse nei suoi confronti. Ci sputiamo veleno, ripeto, mai successo nella vita reale. Riagganciamo, sempre che si dica così anche per i cellulari, che non si riagganciano se non metaforicamente, senza salutarci. Anche qui, mai successo.
Poi, i sogni hanno tagli di sceneggiatura arditi, non seguono certo uno stortytelling tradizionale, arriva una telefonata di mio fratello Marco, che mi dice che i miei genitori sono morti. Entrambi.
Mi sveglio di colpo. Davvero, non nel sogno. Sto male. Ho gli occhi pieni di lacrime. Lo stomaco sottosopra. Capisco che era un sogno. È mattina presto. La fase R.E.M., suppongo. Non fosse questa la trama del sogno direi che ho allungato loro la vita, questo si dice di chi sogna la morte di qualcuno. Ma non trovo sollievo nel ricondurre questo incubo a questa frase. Non prendo sonno. Attendo con ansia il momento in cui arriverà la telefonata di mio padre, verso le 11, immagino, l’appuntamento è per le 10, per dirmi che è andato tutto bene. Lo racconto a Marina, la quale mi conosce da troppo tempo per dirmi qualcosa che possa passare per uno “stai tranquillo, non ci pensare”. Non lo fa mai neanche quando vengo preso dalla saudade, in genere sempre in questo periodo, le giornate si allungano, anche per l’ora legale, arriva il bel tempo, e io soffro per non poter vedere il mare, così divento irascibile, molesto, metto di continuo O que me importa di Marisa Monte, che per me è la canzone più malinconica del mondo, mi struggo, figuriamoci se lo fa per un sogno come questo.
Poi, mentre aspetto che arrivi questa telefonata, la porta dello studio, dove sto ascoltando un disco che in qualche modo dovrebbe consolarmi, ma nei fatti mi invade di malinconia, sublimando il mio stato d’animo, Marina apre la porta dello studio e mi dice, la faccia serissima, che il Covid ha ucciso un nostro parente di Vasto. Poco più grande di noi, una quindicina d’anni al massimo. Così, senza preavviso. Si è ammalato lunedì, ricoverato mercoledì, morto stanotte. Ripeto, senza preavviso. Frase di una demenza unica, lo so, me ne rendo conto, ma le morti improvvise, anche le morti improvvise durante una pandemia, hanno questo effetto, instupidiscono, tolgono destrezza.
Franco, questo il suo nome, cugino più giovane di mia suocera, è morto, ma nessuno di noi sapeva stesse male. Non mi soffermerò troppo su questo dolore, vero, perché andrei a pretendere che anche mia suocera, sua cugina, lontana oltre seicento chilometri da Vasto, voglia come me mettere in piazza i suoi sentimenti, i suoi stati d’animo. Non è il suo diario, questo, è il mio, quindi mi fermo qui. Con un dolore reale, fisico, che scansa una preoccupazione altrettanto reale, fisica, e un dolore che lo è, ma forse non dovrebbe esserlo.
So che i miei, leggendo queste parole, si addoloreranno, dirò loro di saltare per un giorno la lettura del mio diario, conscio che ciò non accadrà. Non posso fare altrimenti, però, ne va della salvaguardia del mio cuore.
Cuore cui ho provato a portare sollievo ascoltando a tutto volume un album di una bellezza balsamica, avvolgente, calda come a volte sono calde le lacrime, e come sempre sono caldi gli abbracci, specie quelli delle persone cui si vuole veramente bene.
A cantare è Tosca, amica cara cui voglio veramente bene, e gliene voglio certo per la persona che è, ma anche per l’artista che è, la nostra amicizia nasce dalla stima, prima ancora che dalla simpatia personale. Ha appena dato alle stampe un lavoro pregevole, D’altro Canto, frutto di un progetto radiofonico portato avanti con Giorgio Cappozzo (che tra questo e il programma Via dei Matti Numero Zero sta davvero facendo strike), e che vede al suo fianco il solito Joe Barbieri, come produttore e come voce insieme a lei in Buongiorno Signorina, e i suoi sodali Giovanna Famulari, al violoncello, e Massimo De Lorenzi, alla chitarra. Col precedente album, che a differenza di questo, così ce lo ha presentato la stessa, era un album , frutto di anni di lavoro, Morabeza, Tosca aveva fatto un lungo percorso di ricerca in giro per il mondo, nel sud del mondo, mettendo la sua voce, un patrimonio dell’umanità che andrebbe tutelato come si fa con le opere d’arte, a disposizione di altre culture, azzardando, con successo, connessioni difficili da percepire a occhio nudo. Su tutto la Morabeza, una parola capoverdiana che nasconde una sorta di nostalgia per le proprie origini, diversa dalla saudade, oggi come oggi ancora più stringente per me, lontano da tutto e tutti.
Stavolta l’album è nato durante la pandemia, intimo l’ha definito la stessa Tosca, azzeccando con precisione millimetrica la parola giusta, da un progetto altro, un programma radiofonico, ma nei fatti è un album album, di una bellezza pazzesca, nel quale, con accompagnamenti semplici, Tosca mette una dietro l’altra canzoni che appartengono a repertori differenti, lontanissimi tra loro, dall’introduttiva e pucciniana Vissi d’arte, arie liriche in chiave unplugged, alla sanremese Domani Domani di Laura Luca, in mezzo, oltre al già citato brano cantato con Joe Barbieri e da Joe Barbieri scritto, qualcuno dovrebbe dire che Joe Barbieri è uno dei nostri artisti più talentuosi, santo Dio, l’I Like Chopin di Gazebo, che sotto il trattamento di Tosca e dei suoi compari diventa una canzone a sua volta struggente, che come si sarà capito è l’aggettivo del giorno, con un brano di Murolo rimasto sconosciuto e adattato al greco, la jazzata La mia casa, Carcere ‘e mare di Claudio Mattone, prima canzone incisa da Tosca, quando ancora era solo Tiziana Donati, per la colonna sonora del film di Nanni Loy Scugnizzi, la canzone popolare romana, riadattata da Piovani, Serenata a ponte, La canzone delle cose morte, con testo di Petrolini e parte dello spettacolo Gastone, Mi madre è morta tisica, omaggio alla Tosca cinematografica di Luigi Magni e la famosissima Quanto t’ho amato di benignana memoria.
Un disco che è stato presentato quasi come un piccolo cadeau, un pensiero gentile che Tosca ha fatto al mondo, alle nostre orecchi e i nostri cuori, tutto vero, ma che si staglia come un gigante, nella apparente semplicità del suo vestito acustico, minimale solo a parole, la semplicità che è frutto di un lavoro di interpretazione che in Italia poche artisti e pochi artisti si possono permettere, onestamente non riesco neanche a pensare a chi altro, una capacità di fondere insieme perfezione e empatia, gesto tecnico e emozione, che è il segno di una unicità, quando si dice “essere una fuoriclasse”.
Tosca è una delle nostre più grandi artiste, e non parlo solo di oggi. Una studiosa, innanzitutto, sempre lì a scavare nella tradizione, nostra, e nelle tradizioni altrui, un occhio rivolto alle nuove generazioni, il lavoro che ha fatto e sta facendo da sette anni con l’Officina Pasolini è qualcosa che dovrebbe fare scuola, ma una interprete dal talento spropositato, mettere le anime di chi ascolta una appresso all’altra, a vibrare all’unisono è esercizio complesso, pensateci, arrivare a persone con percorsi e culture diverse, emozionarle, il tutto dissimulando naturalezza, la naturalezza e facilità mai sbattute in faccia, la grazia sempre e ovunque, la fascinazione è dovuta anche al non aver necessità di gridare, basta aprire la bocca per esserci.
Prima ho parlato di malinconia, di saudade, di morabeza, di struggimento, di dolore, di bossanova, tutte sensazioni che il nome e la voce di Tosca, in teoria, dovrebbero provocare in me, visto che l’ultima volta che sono salito su un palco e per di più su un palco della mia città natale, quella da cui sono distante ormai da sette mesi era appunto sette mesi fa con lei, e con i suoi musicisti, nei panni dell’intervistatore per una serata evento all’interno del Festival Adriatico Mediterraneo, e questi lunghi mesi lontani da quello e da quella che un tempo era la mia normalità oggi è sempre più parte del passato, sembrerebbe, beh, tutto questo per qualche minuto, qualche minuto reiterato, il bello dei dischi è che si possono riascoltare, e possono davvero portarci via da qui, per qualche minuto è entrato in stand-by, guarito, perché Tosca ha preso in mano il mio piccolo cuore affannato e l’ha coccolato, come del resto fa da anni, ogni volta che si mette a cantare, accompagnata dalla maestria di Giovanna Famulari e Massimo De Lorenzi.
Oggi forse sarà un giorno migliore, nel dubbio ho lasciato il suo cd nel lettore, so come provare a uscirne fuori.