Non si può mai sapere coi Rolling Stones ed è questo che li rende così affascinanti: unici, sempre e comunque. Che diavolo stanno combinando? Mick Jagger da un anno vive in Italia, in Sicilia, che batte palmo a palmo, da un museo a una trattoria, aperti solo per lui in barba ad ogni lockdown (se no che Stone sarebbe?). Keith Richards se ne sta rintanato in Connecticut e abbozza sempre nuove idee, frammenti di canzoni. Ronnie Wood si gode la famigliola, dipinge e cazzeggia. Charlie si dedica come sempre al jazz. Il lockdown li tiene separati e intanto questo benedetto maledetto ultimo album (vanno per gli 80, non potranno essercene altri) aspetta ormai da 16 anni. Fatto sta che di colpo, proditoriamente, sgorga fuor dalla rete una clamorosa cornucopia, un triplo bootleg – se è un bootleg – di materiale più o meno inedito, che copre quasi l’intera parabola del gruppo: dal 1966 fino ad un paio di jam session del 2002, queste viceversa ampiamente conosciute. Da dove escono?
Le ipotesi si sprecano, le illazioni fioriscono, i leak sono degni di un affare di Stato. “Fully Finished Studio Outtakes” ha il sapore della beffa, e lussuriosa beffa, già dal titolo. La qualità è impeccabile, si tratta con ogni evidenza di materiale rispolverato per l’occasione, remixato, pensato per i formati digitali. La fonte è ignota, questa roba pare sia uscita sotto l’egida di una etichetta fantasma, partendo addirittura dal Giappone, per inondare la Rete. Il livello è stellare dal principio alla fine. Ci sono cose ampiamente risapute, come “Criss Cross”, come “Scarlet” nelle versioni originali, destinate a confluire nella ristampa di “Goat’s Head Soup” dello scorso anno; c’è il prototipo di “It’s Only Rock And Roll” registrato nello studio della casa di Ron Wood, The Wick, con lo stesso Wood ai cori e alla 12 corde acustica insieme a David Bowie (che invece non si sente); Ron sarebbe poi entrato definitivamente nel gruppo pochi mesi dopo; c’è un sacco di materiale, almeno 10 brani, dalle sessioni di “Undercover” del 1983; c’è diversa roba rimasta fuori da “Dirty Work” di tre anni dopo; ci sono le idee più sperimentali scartate, criminalmente, da “Voodoo Lounge” del 1994; c’è una “Lowdown” cantata da Keith anziché da Mick, e una rabbiosa, superba “Deep Love” viceversa cantata da Mick invece che da Keith; c’è una “Too Tight”, da “Bridges to Babylon” del 1997, ancora eseguita da Keith; ci sono inediti che inediti non sono, ma che così ripuliti lo diventano; ci sono sprazzi dal repertorio privato di Mick, come “Dream About”, del 1992, che con gli Stones c’entra meno di niente…
E ci sono, ovviamente, i tranelli di chi si è divertito a seminare sonore bugie nell’anagrafe di queste gemme ritrovate. La citata “Scarlet”, tanto per cominciare, viene datata 1975, il che è inverosimile visto che rimase fuori già ai tempi di “Soup”, due anni prima. Per non parlare di una “Guilt That Way” riferita addirittura al 1984 quando basta il suono a ricondurla al periodo “Exile On Main Street”: l’intreccio di chitarre è quello con Mick Taylor, del quale infatti affiorano inconfondibili svisate, non certo l’altro, della stagione successiva, con Wood; per non parlare dell’inequivocabile piano di Nicky Hopkins.
Chi conosce gli Stones si può sfinire fino al godimento: per esempio a riconoscere in “Hands Off”, del 1986, l’embrione di “Flip The Switch”, che sarebbe uscita undici anni dopo – e che qui, ad onta, ritroviamo in una versione con Keith ad un ringhiante “movimento vocalico”. Oppure a constatare come avrebbe dovuto davvero vivere “Might As Well As Juiced”, sempre da “Babylon”, anziché in quella assurda veste voluta da Jagger. Molti sono i frammenti che annunciano canzoni destinate a nascere in altri tempi, sotto altre fonti; tutto qui dentro lascia sospettare una operazione maliziosa, uno sbaglio che sbaglio non è.
Già la scaletta, così perfettamente bilanciata in modo da pescare in tutte le epoche della band: sappiamo che esiste un archivio sconfinato, che sarebbe potuto uscire di tutto da ogni album, l’ex bassista Bill Wyman, che è lo storico e l’archivista dei Rolling Stones, racconta che del solo, tormentato “Dirty Work”, l’album di metà anni Ottanta che sancì la disgregazione degli Stones, “la terza guerra mondiale” fra Jagger e Richards, esistono non meno di 250 bobine complete. Da dove è uscita questa roba? Chi è stato? I rumors di un pirataggio mirato sembrano poco convincenti così come quelli di un tradimento da qualcuno nel sancta sanctorum: nessuno può permettersi di fare questo agli Stones, si rischia la vita, oggi come allora. Non resta che concludere per una operazione decisa dalla stessa formazione, vuoi per tenere buoni i fan che non ne possono più di aspettare una nuova raccolta di inediti, vuoi, chissà, per l’ennesimo scazzo, dispetto tra i due capotribù. E qualcuno ricorda che, non più di pochi giorni prima, Keith Richards aveva pubblicato sui social una sua immagine, intento a suonare in studio, una assurda cuffia verde fosforescente in testa, e, sotto, la scritta: “Nuova musica in arrivo!”. Era questa? Era nuova vecchia musica senza tempo?
Sul sito IORR (Its’ Only Rock And Roll), non ufficiale ma tra i più autorevoli, qualcuno cum grano salis osserva: chi mai avrebbe osato fare una cosa del genere a Mick, se non Keith? Gli Stones tacciono: e questo silenzio è tanto più stupefacente in un gruppo che è più di una multinazionale, le cui strutture, i cui avvocati nulla lasciano sfuggire e niente lasciano al caso: non si ha idea di quanto valga in termini monetari, finanziari anche una sola canzone dei Rolling Stones. E le beghe legali per chi sgarra sono apocalittiche.
Ed è questo, alla fine, a lasciarci storditi, sedotti e consolati. Perché gli Stones sono una istituzione globale, sono oltre uno Stato. Qualcosa che oscura il sole di ogni altra band, già oltre lo status di rockstar, dove arrivano loro il mondo si ferma, a Cuba nel 2016 il loro concerto gratuito fu un evento talmente sconvolgente da mandare in crisi l’Avana e loro dovettero fornire in proprio maestranze e attrezzature per montare lo show. Si inserirono perfino in un caso diplomatico, perché prima c’era andato Obama e loro accettarono di posporre il concerto (“ci ha fatto da band apripista”), ma poi, quando seppero che papa Bergoglio era anche lui in lista, si incazzarono: “Ha un bel coraggio, quello lì” sbottò Keith, “noi è un anno e mezzo che lavoriamo a questa cosa e adesso si presenta lui, bel bello? Si metta in fila, prego”.
Questi sono i Rolling Stones, benvenuti nel loro mondo. Un mondo che oggi si schiude come un uovo d’eternità per far colare 50 canzoni inaspettate, nessuna delle quali trascurabili. Uscite dalle nebbie dell’oblio, ancora avvolte in un vapore di segreti, di possibilità malfamate, roba da servizi segreti. Sarà solo rock and roll, ma dannazione se continua a piacerci.