Pandemia, isolamento, restrizioni, distanziamento. Un mantra, la nostra vita in contenzione da tredici mesi ormai. Ci stiamo dentro, a volte non ce ne accorgiamo, altrimenti ci rassegnamo; qualcuno perfino ci si trova bene o così dice, finge. Ma che altro è se non solitudine, imposta dall’alto come una misura profilattica per aver salva la vita, vista l’identità istitituita, martellata tra positività e infezione? Non staremo a discutere di ciò. Gli effetti drammatici sono sotto gli occhi di tutti e ormai venti di insofferenza, di ribellione prendono a soffiare in Europa, a scuotere i pilastri di quel che sempre più persone definiscono regime.
Sono qui con tre gatti, un figlio e un cane, affidatomi ad interim da mia sorella per la durata della sua avventura televisiva. Mio figlio ha le sue occupazioni, si sa come sono i ragazzi, più crescono più diventano refrattari a un abbraccio, una carezza. Mia madre, che vive per conto suo, quando arrivo mi tiene a distanza e prende a sciorinare la litania dei suoi terrori indotti via cavo che le centrifugano il cervello. Niente da sperare neppure da quella parte.
E sì che il covid l’ho avuto io, sono guarita e, se gli studi non mentono, ma poi chissà, immune per qualche mese almeno. Ma abbracciarla no, non c’è verso, questo virus fantomatico potrebbe materializzarsi improvvisamente e trasformare quel bacio in quello di Giuda. Sempre secondo le soubrette televisive dotate di titoli accademici in ambito scientifico (ci sono pure le alzatrici di palette, ma questa è un’altra storia).
Allora mi stringo ai miei gatti, accarezzo Ariel, il cane, e dormo a mò di sandwich tra i felini da una parte e la cagnolina sull’altro fianco. Mi sento scortata, consolata, quelle presenze rassicuranti mi riportano un po’ di equilibrio, mi stanno dicendo che il mio corpo non fa paura, non deve essere evitato, coperto da garze di vario tipo, disinfettato. Sterilizzato. Immunizzato. È un corpo che non è rischio di contagio. Un corpo che dà e riceve affetto, calore.
Ho pensato a tutti quegli anziani segregati in casa dai loro stessi figli, ai ragazzi che vivono in famiglie monoparentali, ai figli unici, a tutti quei volti che mi aspettano ogni mattina su Meet, che vorrei tanto sfiorare. Ho sentito che in tutta questa solitudine i nostri amici a quattro zampe, ci aiutano a sopportare meglio questo cimento. Sempre lo sento.
Tutto è confermato dai dati. L’Enpa (Ente nazionale protezione animali), riporta che nel 2020 si è assistito a un vero e proprio boom di adozioni. Più di 8100 cani e 9500 gatti hanno trovato una famiglia, con un incremento di oltre il 15% rispetto al 2019, per un totale di 17.600 animali domestici. Tra questi anche molti animali anziani, la cui adozione è sempre più difficile.
Certo un cane, un gatto in casa comportano una spesa, a maggior ragione in tempi di pandemia e di crisi economica, quando i soldi non bastano più e non bastano mai. E infatti, accanto al fenomeno delle adozioni si pone quello delle cessioni, che ha registrato tra settembre e ottobre un aumento del 20%, per poi riassestarsi nei mesi successivi. Per questo l’Enpa, ma anche altre associazioni, come Leidaa (Lega italiana difesa animali e ambiente), hanno raccolto, grazie alle donazioni, un budget per permettere alle famiglie di continuare ad aver cura di questi non secondari componenti della famiglia.
Animali, anime. Occhi che scaldano, fusa, quel linguaggio arcano oltre le parole che si fa capire, che ti entra in cuore. Diceva Enzo Jannacci, chirurgo cantautore: “Ho visto più gente guarire per la presenza di un animale che per le medicine”. Sono soli, sapete. E noi siamo soli più che mai. Ne incontri uno, lo adotti (o è lui a sceglierti? Ad adottarti?) e la solitudine è meno nera, fa meno paura. “Cosa è un cane se non una macchina per amare?”, si chiede Houellebecq ne “Le possibilità di un’isola”. Ma un cane, un gatto, non sono una macchina. Loro capiscono il tuo panico e la tua tenerezza: allora vengono a stendersi vicino a te e accompagnano i tuoi sogni e i tuoi incubi. Macchine siamo noi a volte. Di ingratitudine, di crudeltà. Che succederà quando questo incubo reale sarà alle spalle? Quante di queste sentinelle tenere e adoranti resteranno là dove sono state portate? Quante finiranno disperse, soggetti-oggetti che non servono più, nell’eterno abbandono di un Ferragosto? Non è un sospetto, è una certezza non solo statistica: gli ingrati siamo noi, gli smemorati siamo noi. Pensiamoci tutti: questi esseri che sentono, e amano sapendo di amare, amano disperatamente e senza condizioni, questi occhi scodinzolanti con dentro un mondo – e siamo noi quel mondo, ci aiutano a non soccombere. Tengono in piedi le nostre vite, tanto è vero che li andiamo a cercare. Li adottiamo. Non ci sarà lecito, “dopo”, condannarli a una morte lenta o troppo veloce, quando la nostra vita avrà ripreso la solita strada, fatta di solitudini mascherate, forse di rimorsi soffocati. Di un alibi in più.