Tutto è bene quel che finisce bene. Credo, vado a memoria, che le prime volte che ho sentito dire queste parole in quest’ordine sia stato attraverso la voce di un personaggio dei fumetti. Per la precisione di un personaggio dei fumetti che passava dentro la mia televisione, rigorosamente in bianco e nero, quando ero bambino. Si trattava di Ten, assistente dentone e bassetto, in pratica un nano, cinese, di Nick Carter, investigatore privato protagonista fisso del programma Gulp Fumetti in TV.
Era lui, Ten, insieme al corpulento e goffo Patsy partner del bravo Nick Carter, a chiudere tutti gli episodi della serie con la frase “Dice il saggio: tutto è bene quel che finisce bene”, giusto il tempo di lanciare la sigla. Sigla che, ma qui potrei serenamente ricordare male, perché probabilmente era la sigla iniziale e non finale, era interpretata da un altrettanto goffo e panciuto personaggio, stavolta totalmente di fantasia, dal nome Giumbolo.
Sia come sia era Ten, l’assistente cinese di Nick Carter a ripetermi, attraverso le parole del saggio, che è tutto bene quel che finisce bene.
Ten, questo lo avrei scoperto dopo, quando cioè il colore avrebbe reso più vividi i personaggi della serie, che ai tempi per altro nessuno chiamava serie, questa è un’invenzione più recente, credo risalga al periodo di Hill Street Giorno e Notte, ma potrei anche qui sbagliare, magari è relativa a E.R. Medici in prima linea, entrambe a loro modo rivoluzionarie, la prima è stata la prima serie, o i primi telefilm, fate voi, che prendeva in considerazione l’ipotesi che le storie potessero finire male, alla faccia del saggio di Ten, la seconda, beh, inutile star qui a parlare di trame che si intrecciano, ritmo vorticoso, trame che si inseguono di stagione in stagione, comunque Ten, questo lo avrei scoperto dopo, era non solo nano e dentone, mono-dentone a essere precisi, sempre di rosso vestito, questa è una caratteristica di tutti i personaggi dei fumetti, l’indossare sempre e comunque i medesimi vestiti, Nick Cater aveva una coppola, il tranch alla Tenente Colombo, la lente di ingrandimento sempre in mano, Patsy una bombetta e un impermeabile, ma la cosa è applicabile a tutti i fumetti, dai Simpsons a Paperino, immagino per una questione di riconoscibilità e familiarità, principio per altro sposato da certe serie tv italiane, penso al giubbettino verde militare di Ricky Memphis in Distretto di polizia, per dire, comunque, caspita, mi sto perdendo dentro i ricordi, Ten, oltre che monodentone e particolarmente basso, più basso del già basso Nick Carter, presumibilmente un nano, ripeto, come del resto la fronte pronunciata, lì sotto quei capelli lisci con la riga lasciava presagire, era di colore giallo. Un cinese, del resto, questo si diceva tra noi bambini prima che i cinesi cominciassero a comparire in città, in Ancona è successo negli anni Ottanta, quando ha aperto il primo ristorante cinese, zona stazione, Il ristorante delle rose, avevano gli occhi a mandorla e la pelle gialla, oltre a essere tutti uguali. E, popolo antico e furbissimo, non a caso, anche questo si diceva, immagino imbeccati dai più grandi che avevano letto da adolescenti Marco Polo, i cinesi erano abilissimi nei commerci.
Pensare oggi qualcuno che decida di fare un fumetto per bambini, un cartone animato, considerate che le serie dei fumetti in tv erano protocartoni animati, Goldrake sarebbe arrivato dopo, Heidi sarebbe arrivata dopo, Remi sarebbe arrivato dopo, credo che la mia generazione, sono nato nel 1969, sia stata la prima a guardare i cartoni da bambini, anche se buona parte di quelli che vengono ricordati ora, quelli con le canzoni di Cristina D’Avena, sono successivi, e io non solo non li ho visti, li ho schifati, un ragazzino non guardava certo Candy Candy o Occhi di gatto, ma neanche i Puffi. I fumetti in tv erano spesso strisce che si muovevano in maniera piuttosto composta, non certo fluida come i cartoni animati o gli anime, comunque pensare a qualcuno che oggi decida di fare un fumetto o un cartone animato per bambini nei quali ci sia un personaggio cinese dipinto di giallo, nano e coi dentoni, e che parla con la elle al posto della erre, perché questa era ovviamente un’altra caratteristica di Ten, l’assistente di Nick Carter, e chiude gli episodi ripetendo una stupida frasetta che fa riferimento ai saggi e al lieto fine, è praticamente impossibile. Ne salterebbe fuori un caso diplomatico, roba da guerra fredda o da guerra calda. Siamo nel periodo di Amanda Gorman che vuole essere tradotta da poetesse di colore, e di Anne Bolene afroamericane, non certo di cinesi nani e gialli.
Poi, che i cinesi, da un anno a questa parte, stiano un po’ sul culo a tanti in giro per il mondo è fattore che, fossi uno che crea fumetti o cartoni animati lo terrei in conto, Wuhan, i pipistrelli, i mercatini, la pandemia, ma credo che l’aspetto più significativo di quanto detto fin qui sia come nel tempo si sia proprio modificato l’approccio alla narrazione, ci soffermiamo spesso sul parlare all’infinito e con le lettere storpiate di Mami, la governante di Via col vento, ma non è che anni e anni dopo la faccenda fosse poi così diversa, magari simpaticamente, ma sempre quello era il punto.
Per altro, sono andato a dare una controllata, ma ho ovviamente mollato, perché il discorso sarebbe troppo complesso e soprattutto svierebbe da quel che voglio dirvi, i miei ricordi sono ovviamente confusi, Gulp Fumetti in Tv è andato di scena a più riprese, dal 1972 al 1981, e, sempre per dire, Giumbolo ne è stata sigla nel 1978, dopo i miei primi ricordi, evidentemente, e per altro il programma è andato in onda anche durante e dopo la messa in onda di Goldrake e gli altri anime cui ho fatto riferimento sopra, quindi i miei ricordi sono stati davvero filtrati, prendeteveli per buoni e se vi incuriosiscono, nel caso non foste nati, andatevi a cercare quel che vi ho buttato lì a partire da Ten, il partner cinese di Nick Carter, sicuramente troverete il tutto molto vintage, ma magari anche affascinante, a suo modo.
Ma non è di cinesi nani e dentoni che voglio parlarvi, non oggi almeno.
Torno a quella chiosa: “Dice il saggio: tutto bene quel che finisce bene.”
Perché questo ci stanno dicendo in queste ore, o almeno stanno provando a dirci. Tutto è bene quel che finisce bene. Solo che lo stanno facendo goffamente, alla Patsy, o alla Potsy, che era insieme a Ricky l’amico goffo di Ricky Cunningham, protagonista di Happy Days, prima serie di telefilm che ho visto.
No, non è vero, credo che la prima serie di telefilm che ho visto sia stato Bonanza, la storia western di una famiglia. Ricordo anche che, alla Fiera di San Ciriaco, il patrono della mia città, Ancona, mi comprarono un pupazzo di gomma di uno dei protagonisti, sinceramente di Bonanza ricordo molto poco, e ricordo lo psicodramma che ne partì nel momento in cui persi il cappello del pupazzetto, e dopo Bonanza avrò sicuramente visto Zorro, ricordo la simpatia del grasso e altrettanto goffo, forse dovrei dire stupido, Sergente Garcia, anche qui, fare un personaggio stupido grasso non è esattamente qualcosa che rientra nella modalità vigente oggi, vale lo stesso discorso dei nani dentoni cinesi, poi forse c’è stato Happy Days, Alla conquista del West e La casa nella prateria credo siano successive.
Happy Days era un telefilm strano, perché chiaramente la storia ruotava intorno alla famiglia Cunningham, il cui personaggio principale era il brano e disciplinato Ricky, molto intelligente, un protonerd, non a caso interpretato da quel Ron Howard che anni dopo, persi i caratteristici capelli rossi, capelli rossi che io non sapevo essere rossi, avevo la televisione in bianco e nero, quella a colori sarebbe tardivamente arrivata in casa nostra per i Mondiali del 1990, sarebbe diventato un regista di grandissimo successo, da A Beautifil Mind, col quale ha vinto l’Oscar a Apollo 13, passando per non so quanti altri blockbuster, ultimo dei quali il bellissimo Elegia americana, visto durante la pandemia, dicevo, il protagonista era chiaramente Ricky Cunningham, serio, disciplinato, molto studioso e intelligente, un bravo ragazzo, coi suoi due amici, Potsy e Ralf, il primo goffo e carino, il secondo sempre con la battuta pronta, più o meno riuscita, goffo e basta, ma al loro fianco c’era quel Fonzie, interpretato da Henry Wilkler, il figo col giubbotto di pelle, gli stivaletti, sempre una ragazza diversa a fianco, l’incapacità di chiedere scusa, lui maschio alpha impenitente e vincente, che gli rubava costantemente la scena.
I suoi Wow e Hey, fatti alzando i pollici, il suo accendere il jukebox lì da Alfred, il pub dove era ambientato sempre qualche minuto degli episodi, con un pugno ben assestato invece che infilando la monetina nella fessura apposita, era come una spinta alla ribellione, una versione rassicurante e bonaria del Marlon Brando di Il selvaggio o del James Dean destinato a bruciarsi in fretta. Tutti noi bambini sapevamo che avremmo dovuto essere come lui, Ricky, la sua famiglia bizzarra ma in fondo normale, il padre Howard, la madre Marion, la sorella Sottiletta, ma era a Fonzie, al secolo Arthur Fonzarelli, noi italiani, per dirla alla Madonna, “lo facciamo meglio” che guardavamo con ammirazione, lo scoprire, molti anni dopo, le grandi difficoltà vissute nella vita reale dall’attore che lo interpretava, Henry Winkler, considerato a lungo “tonto” da insegnanti e conoscenti, in realtà dislessico, al punto da divenire poi il primo e più importante testimonial dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento, appunto, dislessia, discalculia, disgrafia e affini, lo scoprire questo ha a posteriori dato al tutto un aspetto quasi surreale, il più figo di tutti, quello che faceva cadere tutte le ragazze ai suoi piedi dicendo Wow, che faceva partire le canzoni più belle dando un semplice pugno al Jukebox, che girava a bordo di moto bellissime e rombanti, aveva nei fatti vissuto una infanzia e una adolescenza infernale, solo perché nessuno aveva capito quale fosse il suo problema, risolvibilissimo, e soprattutto aveva ben pensato che di bollarlo come “stupido”.
Ora so che vi sembrerò strano, anche perché da circa diecimila battute sto tergiversando e divagando sul tema che ho semplicemente lasciato intuire ruoterà intorno al concetto di “tutto è bene quel che finisce bene”, tergiversando e divagando parlandovi di fumetti in Tv e di telefilm rassicuranti come Happy Days, so che vi sembrerò strano, ma questo fatto che due personaggi non esattamente fighissimi, il Patsy assistente di Nick Carter e il Potsy amico di Ricky Cunningham, avessero questi nomi così simili, mi sta letteralmente facendo incartare, non riesco a pensare a altro in questo momento. Non credo ciò deponga a mio favore, ma son fatto così, le parole mi affascinano e quando ne trovo di interessanti sono capace di distrarmi e di non rientrare più nel mondo reale per ore e ore, so che accadrà così per tutt’oggi.
Potsy e Patsy, caspita, sono certo che queste due parole si rincorreranno nella mia testa come a volte capita con le parole che non mi ricordo, i nomi che non mi ricordo, che sono lì, a reclamare di essere ricordati, ma al tempo stesso si nascondono nei meandri del cervello, introvabili, o come certi ritornelli di canzoni che nei fatti non è che ci piacciano molto, almeno non razionalmente e non consapevolmente, vuoi perché hanno il giusto gancio per attaccarsi alla scatola cranica, vuoi perché, è il recentissimo caso di Musica leggerissima di Colapesce e Dimartino, te la ritrovi ovunque, dalla rete ai media tradizionali, al punto che quella che voleva essere una leggera canzone sulla depressione finisce per diventare una canzone deprimente.
Comunque, diceva il saggio per bocca di Ten, tutto è bene quel che finisce bene.
Mi riferisco, è ovvio, insomma, lo era nella mia mente quando ho citato questa massima dodicimila battute fa, e prima di perdermi nei ricordi più o meno sfumati d’infanzia, e a inseguire nel labirinto della mia materia grigia Potsy e Patsy, alla faccenda dei vaccini AstraZeneca. Inutile star qui a perdere tempo a raccontare il conosciuto, i vaccini AstraZeneca arrivano da noi con estremo ritardo, ultimi a essere approvati dall’EMA, e questo è un problema, dal momento che l’ex commissario Arcuri è proprio gli AstraZeneca che ha ordinato in massa.
Arrivano con un range ristretto, che per altro taglia fuori proprio i più fragili, tra i diciotto e i cinquantacinque. Il che induce a pensare che toccherà prima a noi che agli anziani, i ragazzi neanche vengono presi in considerazione. Poi il range si allarga ai sessanta, poi ai sessantacinque, così, per dirla con il Renè di Boris, a cazzo di cane.
Arrivano nel mentre le vaccinazioni gestite dal Generale Figliulo, chiamato dal presidente Draghi a sostituire Arcuri, i professori si vedono chiamare, passando un po’ ovunque davanti agli anziani, tanto le scuole sono chiuse praticamente ovunque, tempo per andare ne hanno.
Arrivano i primi casi sospetti, trombi e embolie, ma in numeri statisticamente più che irrilevanti. Solo che i giornali ne parlano, dando benzina ai motori dei no-vax e anche dei dubbiosi. Se ne parla, ovviamente, ma si procede.
Poi arrivano gli stop a quel tipo di vaccini da alcuni stati considerati minori, per numero di abitanti e rilevanza a livello di comunità Europea, Danimarca, Slovenia, Austria.
Poi, di colpo, Germania, Francia, e di conseguenza Italia e Spagna, sospendono le vaccinazioni AstraZeneca, per controlli. Che è come dire, aiuto, abbiamo un problema. Se ne parla sempre di più, qualcuno prova a spiegare che è un gesto fatto per tutelare i cittadini, ma vatti a fidare, dicono i più, nessuno ci dice mai la verità.
Noi, che per un anno ci eravamo abituati a sentire le parole afasiche del presidente Conte non riceviamo nessun tipo di rassicurazione da parte di chi ci guida. Sappiamo che ci sarà un controllo e sappiamo, questo ci dicono, che se tutto va come deve andare si riprenderà a usare quel vaccino. Molti si ritirano, spinto da una fobia alimentata dai media, ma anche da questa gestione non limpidissima.
Di colpo, per uno come me, cinquantuno anni, un lavoro considerato meno della merda, si paventa la possibilità di essere vaccinato prima dei sessant’anni, perché come ha detto il generale Figliuolo, se c’è chi non vuole vaccinarsi non si buttino le dosi, si vaccini il primo che passa. Io che mi vedevo in fila per i vaccino tra due, tre anni, dopo una Brigliadori che, aspettando da no-vax il suo turno sorseggiando il suo piscio, improvvisamente vedo una luce in fondo al tunnel, poco importa se potrebbe essere una luce per me fatale. Invece, niente, arrivano le rassicurazione dell’EMA, le morti sospette sono in realtà casuali, e tutto ritorno alla normalità, almeno in teoria, almeno nel boschetto della fantasia di chi ci guida.
Come dice il saggio, tutto è bene quel che finisce bene.
Certo, resta quel retrogusto di stretta di culo permanente, l’impressione piuttosto fondata che ci facciano passare per normale un comportamento che normale non è (non mi riferisco al vaccinarsi, lo farei anche subito, come dicevo, ma al fatto che si blocchino dei vaccini per un numero di casi irrilevanti sparando la notizia ovunque, salvo poi ripartire in scioltezza, come se nulla fosse), e resta anche quella sensazione di essere costantemente tenuti all’oscuro di quanto succede realmente, fatto che mi mette a disagio anche solo a scriverlo, perché la cosa che meno vorrei al mondo al momento, a parte tutta una serie di fatti assai più rilevanti che mi guaderò bene dallo scrivere, è essere scambiato per un complottista, uno che pensa che il vaccino sia un modo per controllarci, catalogarci, inocularci microcheap che poi entreranno in contatto col 5G, resta tutto questo, ma per il resto, ripeto, tutto bene quel che finisce bene.
Ora, siccome io però mi sono dilungato a parlare di ricordi vintage e fumettosi, e poi mi sono perso parlando di attualità, Potsy e Patsy, ovviamente, che continuano a rincorrerci felici nella mia mente, credo sia arrivato il momento di passare oltre, andando quindi a parlare di quello che è il reale argomento del giorno, niente a che vedere coi fumetti o coi vaccini, tanto meno con Potsy e Patsy.
O almeno, niente che abbia solo a che vedere coi fumetti e coi vaccini, perché oggi mi ritrovo a riprendere il filo lasciato in sospeso nel finale del capitolo di ieri, riguardo allo spingere l’ascoltatore curioso a andare oltre i ristretti confini del sistema musicale per quello che riguarda il pop, pop che, ricordiamolo, è donna, e mi ritrovo a farlo con una artista che, anche questo i più pignoli tra voi ben lo sapranno, non solo fa parte del giro da me tanto amato delle cantautrici di Anatomia Femminile e del suo Festivalino, ma che, volendola dire tutta, di quel giro di cantautrici fa a sua volta parte di una sorta di “cerchio magico”, cioè un gruppo ristretto nel gruppo più ampio che ricorre con una certa frequenza non solo nel cast dei vari Festivalini, credo in tutti, come la sola Eleviole?, ma anche nei miei scritti.
Una artista, attenzione che sto per fare una sorta di doppio carpiato, di quelli che in genere associamo più ai funamboli che ai fuoriclasse, noi fuoriclasse outsider siam fatti così, ci piace stupire a rischio di andare sopra le righe, che ai miei occhi ricorda non poco un personaggi dei cartoni animati, anzi, degli anime, Alita.
Immagino sia una faccenda legata al taglio di capelli, neri, a una certa somiglianza fisica, o magari più al frutto del troppo tempo passato chiuso in casa, ma nei fatti Silvia Oddi, è di lei che sto parlando, col suo essere una che scrive canzoni che si richiamano al passato, gli anni Ottanta, il punk, la new wave, filtrate attraverso una penna molto personale, caratterizzante, un riuscire a essere pop sempre e comunque, e pensateci bene, è davvero complicato rimanere pop nel momento in cui ci si confronta con generi che col tempo sono stati canonizzati in maniera così stringente, a forte rischio di scivolare nella retromania cantata da Simon Reynolds, una voce, quella sì riconoscibilissima, che colora tutte le canzoni di una ironica leggerezza intrisa di sensualità, Alita ricordate sempre questo nome, lei che all’ultimo Attico Monina si è presentata vestita da Hurley Quinn, sensualità fatta esplodere dal suo suonare la chitarra elettrica, non credo servano didascalie a riguardo, amici del quattro quarti. Proprio in mezzo a questo secondo lock down, un lock down che per chi, come me, vive in Lombardia nei fatti non è quasi mai finito, ma che stavolta è un po’ più lock down di prima, qualcosa che si avvicina in maniera inquietante a quanto vissuto da tutta Italia nella primavera scorsa, la Sardegna sola isola felice che sta lentamente uscendo da quel contesto di felicità, causa coglioni che sono scappati lì nelle loro seconde case, veicolando il virus, Silvia “Alita” Oddi se ne esce con un singolo nuovo, Ciao Amici, che è come una boccata di Ventolin nel bel mezzo di una crisi d’asma, una boccata d’aria buona, in grado di ridarci ottimismo laddove intorno a noi tutto spingerebbe verso la disperata presa di coscienza che viviamo dentro l’Apocalisse.
Alita, del resto, come sopravvivere all’Apocalisse ben lo sa, Potsy e Patsy me lo confermano, qui dentro la mia testa, e il video di Amici miei, coloratissimo, estivissimo, girato nel borgo abruzzese di Aielli, in provincia di L’Aquila, terra del suo produttore e batterista, Gianluca Salvi, insieme a Nick Valente, suoi sodali sin dall’inizio, borgo che è una sorta di mostra permanente di street art, tutte le facciate delle case dipinte da artisti di fama internazionale, su una è addirittura stato trascritto tutto Fontamara di Ignazio Silone, e location di un festival proprio alle street art dedicato, Borgo Universo, così, lo dico per chi questa estate si trovasse a transitare da quelle parti, un video che perfettamente si sposa a una canzone che prova a uscire dall’impasse nel quale tutti siamo precipitati ormai oltre un anno fa, lo stare isolati che diventa, dentro il testo del brano, un potersi e volersi confrontare con le proprie fragilità e paure, trovando un punto di incontro con noi stessi, quindi, e di conseguenza con gli altri, gli amici evocati dal titolo.
Un brano dall’apparenza leggera, quindi, pop, ma che nella perfetta linea del cantautorato, e nella specifica libertà e sperimentazione che solo il cantautorato femminile, un genere musical per il cui riconoscimento mi batterò, sembra poter consentire oggi, fotografa alla perfezione un comune sentire. Ecco, di questo parlavo ieri, di questo parlo oggi. Esiste una via assai meno scontata e banale al pop, anzi, decisamente interessante, personale, suonato e incisivo.
A questo link ne trovate un chiaro esempio. Silvia, al prossimo Festivalino di Anatomia Femminile, a questo punto, sai già come venire vestita, Alita ti aspetta.