Negli ultimi mesi è stata condotta una giusta battaglia per il riconoscimento dei libri come beni di prima necessità. In un momento di grave difficoltà sociale, oltre che sanitaria, dare la possibilità alle persone di nutrire la mente con la letteratura è sicuramente una giusta priorità. Per questo motivo le librerie sono state lasciate aperte e anche in zona rossa. Restano tali al pari di negozi di alimentari e altri beni di prima necessità. A pensarci bene, però, viene subito alla mente una domanda? Perché i libri sono considerati un bene di prima necessità e i dischi no? Perché le librerie sono aperte e i negozi di dischi chiusi?
La musica ha qualcosa da invidiare alla letteratura in quanto a funzione sociale e culturale in un Paese? Assolutamente no, se consideriamo che i fruitori sono molti di più e il media in sé è più facilmente fruibile dalle persone. La capacità “fisica” del suono e le sue capacità benefiche sono addirittura cristallizzate in studi scientifici che pongono la musica come strumento terapeutico di assoluta efficacia. Ma allora perché le librerie sono aperte e i negozi di dischi no? Una domanda che molti addetti ai lavori si sono fatti ma probabilmente non con altrettanta forza dei “colleghi” librai che sono riusciti nell’ottenere un riconoscimento sacrosanto.
Capiamoci bene, sono tante le cose necessarie a cui le persone sono costrette a rinunciare da un anno a questa parte e l’intento polemico di questa riflessione potrà anche provocare fastidio. Ma se lasciare aperte le librerie è stato un gesto simbolico per riconoscere il grande valore sociale che ricoprono i libri perché lo stesso valore non è stato riconosciuto alla musica lasciando i negozi di dischi chiusi. Negli ultimi tempi nell’ambiente serpeggia l’idea secondo cui i lavoratori della musica, così come altri ambiti culturali, siano da considerare di “serie b”.
Secondo molti addetti ai lavori la colpa sarebbe degli stessi animatori di questo mondo e imputano loro il fatto di non ribellarsi di fronte a questa differenza di trattamento. In sostanza la musica viene trattata in questo modo perché i big player di questo mondo non hanno interesse a ribellarsi e hanno sopito anche le proteste degli anelli più deboli della catena. Sulle pagine di Optimagazine sono state ospitate le riflessioni di vari esperti. L’ultimo sfogo è stato quello di Red Ronnie secondo cui il problema è che l’ambiente voglia la morte dei negozi di dischi per privilegiare la vendita online e le piattaforma di musica in streaming.
Lo stesso Max Del Papa ha criticato sulle nostre colonne i concerti in streaming così come Michele Monina che aveva criticato il mondo della musica per la sua “mollezza”.
Esiste una volontà dei grandi della musica di abbandonare il mondo “fisico” della vendita e stanno sfruttando la pandemia per accelerare questo processo? Questa è una domanda, come tutte le domande in questi casi, lecita. Ciò che non si comprende è perché non trovi abbastanza spazio, o quantomeno una risposta adeguata, il grido di dolore di quelle migliaia di addetti ai lavori che di musica vivono e che sono fermi da più di un anno. La speranza è che provino a farsi sentire ancora di più, urlando il fatto che i loro diritti sono stati calpestati e continuano a esserlo, fomentando un “razzismo culturale” che non fa onore all’ambiente della cultura italiana tutta.
Le librerie devono vendere il libro di Bruno Vespa e affini; non c’entra nulla nè con la cultura nè con il sovraffollamento. I negozi di dischi non contano nulla, per questo sono chiusi.