Parto da un momento della recente storia, o della recente storia televisiva, che immagino abbiate tutti presente. O che se non avete presente potrete facilmente recuperare, a portata di click com’è.
Prendiamo le poesie lette (recitate?) da Amanda Gorman alla cerimonia di insediamento del neopresidente degli Stati Uniti Joe Biden.
Avete presente tutti la scena. Lei supercool, giovane e bella, di giallo vestita, i capelli raccolti in acconciatura afro con fascia rosso lucido, i suoi versi intrisi di politicamente corretto lanciati come colombe su un cielo finalmente tornato limpido dopo gli anni del trumpismo, perfettamente cristallizzati nei recentissimi scontri di Capital Hill, pochi giorni prima.
Di colpo, lei, Amanda Gorman, ventitré anni, femminista, attivista civile, antirazzista, è esplosa come una supernova, i suoi libri di poesia accaparrati in tutto il mondo, le traduzioni improntate alla bene e meglio, i poeti bianchi, abbiamo scoperto nei giorni successivi, recenti, non possono tradurre una poetessa afroamericana, neanche le poetesse bianche, e via polemiche e strascichi, per altro già partiti a suo tempo dalla Anna Bolena afro interpretata da Jodie Turner Smith passando per la Sirenetta disneyana, non più rossa di capelli e con gli occhi cerulei, ma dalla pelle scura e i lineamenti afroamericani della cantante urban Halle Bailey, per altro mi sfugge perché ancora non si sia indetta una simile guerra contro l’iconografia cattolica, Gesù biondo e con gli occhi azzurri, diciamocelo, non si può proprio vedere, per non dire di tutta la faccenda di chi può dire cosa a chi, gli uomini eterosessuali bianchi borghesi di mezza età che in qualche modo posso rappresentare indebitamente, potrei essere catalogato entro quei canoni ma dubito che gli altri uomini eterosessuali bianchi borghesi di mezza età si farebbero rappresentare con piacere da me, in pratica inadatto a parlare di alcunché, specie di faccende inerenti alle donne, non sia mai, ci sarebbe anche il mansplaing a aggravare al faccenda.
Per dire, facessi notare che quel passaggio lì, che potremmo serenamente incorniciare tra un inno cantato dalla popstar simbolo delle diversity, Lady Gaga, molto attiva anche in campagna elettorale, e quello della spanish Jennifer Lopez, i primi passi mossi da Biden quel conferire il ruolo di Assistente al Segretario alla Sanità Rachel Levine, destinata a diventare la prima dirigente federale transgender della storia americana, inquadra perfettamente la narrazione inclusiva e assolutamente fluida che Biden, non dimentichiamolo eletto anche grazie alla potenza narrativa della sua vice, Kamala Harris, un melting pot di razze (Dio, era una vita che volevo scrivere Melting Pot), se facessi notare che quel passaggio lì, il leggere poesie intrisi di messaggi specifici, di giallo vestita, la giovane età e la bellezza a fare da cornice, hanno procurato a Amanda Gorman un contratto con la IMG, tra le più importanti agenzie di modelle al mondo, verrei immediatamente crocifisso al muro, il mio parlare confuso per cinica speculazione su un passaggio comunque fondamentale della storia recente, l’inclusività e l’abbattimento conseguente di palizzate atte a difendere impresentabili roccaforti comunque da guardare con sollievo, non certo con ostilità, e chi se ne frega di questi dettagli che nulla possono comunque erodere un bel momento di storia, quantomeno di storia sociale e dell’immagine.
Poco importa che le sue poesie, così, a darci un occhio, sembrino poca cosa, anzi, non sembrino affatto poesie, non lo sono, nessuno mi tiri in ballo la cultura afroamericana, o vi mando Saul Williams vestito da Niggy Tardust sotto casa a cantarvele di santa ragione, versi retorici che nulla danno a livello di linguaggio e nulla hanno a livello di perturbazione, sui social a riguardo se ne è parlato, per dire Giuseppe Genna ci ha scritto su con acume, salvo poi essere appunto inchiodato al muro in quanto uomo bianco borghese di mezza età (fortuna che nessuno lo ha bollato come Incel, perché il mio già flebile buonumore ne avrebbe sicuramente risentito per giorni e giorni).
Andiamo oltre, non è di Amanda Gorman che mi volevo occupare, e ben vedere, so che proprio poche ore fa ne elogiavo la canzone portata a Sanremo, Arnica, ma sorta di Gio Evan afroamericana, una che sta alla poesia quanto Achille Lauro alla provocazione e i Maneskin al rock, tanto per riportare la faccenda su questioni a noi più vicine. Andiamo oltre.
Amanda Gorman, piaccia o meno, e credo sia evidente, artisticamente la trovo assai debole, direi inesistente, è un perfetto simbolo di questa epoca, ci dicono da più parti, e non vedo perché non fidarmi di questa vulgata. Donna, emancipata, artista, bella, poetessa ma modella, o poetessa e modella, scusate, non vorrei passare per un radial chic che antepone poesia a moda o poesia a sfilare per moda, segno di un cambiamento che, seppur poi veda un quasi ottantenne lì a insediarsi nel momento in cui il suo leggere poesie senza rime e metrica, ma con dei bei “a capo”, è comunque un segno incredibilmente potente dei tempi, una sorta di fotografia plastica del politicamente corretto, della lotta al patriarcato quanto al razzismo, il tutto fatto con stile e coolness, certe guerre si vincono anche così, baby.
Ieri si parlava di capezzoli e di peli pubici, grazie a Amanda Palmer. Partiamo da lì. Torniamo esattamente lì sopra, appollaiati su quei capezzoli.
Proviamo a spostare il discorso in Italia, e a attualizzarlo, spostando il discorso sull’oggi, o al limite sullo ieri.
A Sanremo, sempre lui, perdonatemi in questo mio costante tornarci su, ma è la sola cosa accaduta nel mondo dello spettacolo, quello con valenza musicale, accaduta nell’ultimo anno e, a occhi, la sola che capiterà quest’anno, salvo miracoli di Dio o di Draghi, a Sanremo abbiamo tutti visto questa ondata di colori accesi e fluo portati in scena da La Rappresentante di Lista, nei prossimi giorni giuro che mollo questi discorsi teorici e mi concentro nel raccontarvi il loro nuovo bellissimo album, My Mamma, uscito proprio a ridosso della kermesse rivierasca e che contiene la canzone presentata in gara, Amare.
Molti hanno notato dei dettagli che in qualche modo hanno spiazzato lo spettatore tipo di Sanremo. Per molti intendo quella porzione, credo rilevante, dei molti che hanno seguito il Festival che non li conoscevano già, perché, per fare due esempi concreti, il body color carne con capezzoli appuntiti in bella evidenza indossato da Veronica durante il penultimo tour o il video di Questo corpo, dove Veronica dialoga con se stessa fissandosi su uno specchietto circolare appoggiato proprio su quel monte di Venere che ieri raccontavamo essere diventato protagonista di Map of Tasmania di Amanda Palmer, un brano, Questo corpo, singolo di lancio del capolavoro Go Go Diva, album e singolo che sono una sorta di inno al corpo femminile, al suo farci i conti, confrontarcisi, viverlo pienamente senza pudori, la parola pudore non è stata maltrattata in questo mio capitolo di diario, vorrei aggiungere. Quello che i molti cui facevo riferimento hanno notato è un gioco continuo con la fluidità sessuale, l’antigenderismo, una inclusività pop e sgargiante che si è dimostrata una sorta di calcio in culo dato al concetto di binarietà, Dario Mangiaracina, parte del duo che al nome La rappresentante di lista corrisponde, non pensate che sia il nome d’arte della sola Veronica Lucchesi, diva assoluta e con una voce e presenza scenica in effetti piuttosto ingombranti, a salire sul palco truccato, vestito degli stessi colori e con le medesime scarpe, dorate e con le zeppe, mi sembra di aver visto quasi sempre, della sua compagna d’avventure, lo sguardo dolce e rassicurante a fare da contraltare alla presenza scenica potentissima di Veronica, stentorea nella voce come nelle pose.
Un concetto rappresentato senza troppe sovrastrutture, quelle c’erano invece, per dire, nel far salire sul palco le due altre donne della band, Marta Cannuscio e Erika Lucchesi, unite per una folta e lunga treccia di capelli, citazione di una performance storica di Marina Abramovic, il suo addio al compagno Ulay, citazione che suppongo sarà rimasta un po’ lì, tra le righe, non colta da tutto il pubblico di RAI 1, Coletta se ne faccia una ragione e si accontenti di aver comunque veicolato la sua rivoluzione gender fluid, mai come quest’anno Sanremo è stato un continuo giocarci sopra, malamente a mio avviso, da Achille Lauro in giù.
Un concetto reiterato in maniera piuttosto glamour dalla copertina che vede una versione pop-art dell’opera L’origine del mondo di Gustave Gubert dove però la vagina, è quella l’origine del mondo cui fa riferimento il titolo, è aperta dentro essa si intravedono e fuoriescono le stelle dell’universo, come a dire che bisogna pensare in grande, perché mai fermarsi al mondo?
Sempre il dipinto, opera dell’artista anch’essa palermitana Manuela Di Pisa, presenta il folto pelo pubico già presente nel dipinto di Gubert, solo che, per giocare coi colori rossi e viola dell’opera, appaiono dorati, e con su iscritte le iniziali della band, LRDL. Del resto le foto promozionali vedono i due, Dario e Veronica, entrambi femminei, lui più di lei, la giacca condivisa a coprire i corpi, stavolta i visi a campeggiare visibili a differenza che nell’iconografia promozionale precedente. Copertina e foto che evidentemente nell’immaginario del duo palermitano, almeno di stanza, Veronica è toscana, hanno un certo peso, visto che già in Go Go Diva avevano mostrato corpi evocando le immagini che furono della Lady Godiva che al titolo ha fornito quantomeno ispirazione, i loro corpi, di Dario e Veronica, i volti coperti, rovesciando le istante ladygodiviane, dove erano i capelli a coprire i corpi, qui sono i vestiti a coprire i volti lasciando scoperti i corpi, nello specifico dalle magliette che si stanno sfilando, i tronchi scoperti, petti che si guardano ciechi.
Una immagine potente, che ben si sposa con la nuova versione de L’origine del mondo, glitterata, stellata e con quel pelo dorato a coprirne le cifre.
Ecco, proprio sui peli mi soffermerei ora, e so di fare qualcosa di inaudito, forse improprio, per altro qualcosa di in parte affrontato già nei mesi scorsi proprio parlando di Amanda Palmer e del film Ritratto di una giovane in fiamme. Durante la loro prima esibizione, usciti in scena con abiti tra il fucsia e il viola, Veronica de La rappresentante di lista ha giocato coi suoi peli, detta così suona davvero disturbante, immagino, colorando quelli sotto braccio, lasciati al loro posto previsto in natura ma non, credo, dalle mode occidentali, presentandoli però colorati della stessa nuance dell’abito.
Lo si è potuto vedere quando, con gesto studiato e reiterato, Veronica ha alzato il braccio destro, quella era l’ascella lasciata nuda, l’altra era coperta dal disegno del vestito, lunghi guanti a coprire entrambe le braccia fin sopra il gomito.
L’idea che un qualche messaggio possa passare da un ciuffetto di peli tra il fucsia a il viola che fanno bella mostra di loro dall’ascella di una cantante in gara al Festival della Canzone Italiana di Sanremo, me ne rendo conto, prevede una sorta di triplo salto mortale difficilmente decifrabile a occhio nudo, come provare a capire il nome della figlia di Fedez e la Ferragni provando a decifrarne le iniziale dalla giacca psichedelica indossata dal rapper di Corsico, ma nei fatti, molto più della plastica e retoricissima presenza di Amanda Gorman all’insediamento di Biden, quella sì plastificata, prevedibile, certo, dotata anche di un suo ritmo interno, la presenza, non la poetessa e le sue poesie, ma assolutamente posticcia, come un rosario esibito tra le mani di Salvini o uno dei dildo esibiti con finta noncuranza dalla Lamborghini nelle dirette dell’anno scorso, studiati fino allo sfinimento.
Perché quel rossetto rosa esibito da Dario, le sue scarpe dorate con le zeppe, il suo apparire femmineo nelle foto promozionali, la giacca condivisa con Veronica, affilata nel suo essere diva, quei suoi peli ascellari fucsia, quel pretendere garbato che i fiori non fossero solo per le donne, ma anche per gli uomini, prima che a farlo fosse la Michielin, quella copertina non riconoscibile subito, ci si deve soffermare per vedere una vagina aperta e le stelle, riconoscere, se lo si conosce, l’opera cui è ispirata, sono tutti piccoli tasselli di un discorso che ci parla, questo realmente e non a beneficio di chi pensa la comunicazione come un susseguirsi di tessere di domino da tenere lì sul tavolo, iconiche ma ferme, immobili.
Amanda Gorman e le sue poesie statiche, prive di lingua, di perturbazione, di poesia, in sostanza. La Rappresentante di Lista e il suo modo liquido di far implodere dei punti fermi di quello che abitualmente viene considerato lo stereotipo dei generi sessuali, figlio ovviamente di una visione maschile. Andiamo anche stavolta oltre.
Giorni fa mi è capitato di ragionare su come proprio La Rappresentante di Lista, band che parte dal sottobosco indipendente, art-pop o art-rock, background teatrale di entrambi gli attori ben presente in curriculum, passando da Sanremo, e passandoci con una canzone come Amare, scritta e prodotta con Dardust e decisamente orientata a far conoscere al pubblico mainstream di Sanremo la propria artisticità, sorta di Cavallo di Troia, in Cavallo di Troia molto bello, una delle canzoni migliori in gara, se non la migliore, capace di portare nelle orecchie degli ascoltatori le altre canzoni del loro repertorio, quelle più difficili e complesse, loro sempre pop ma a volte più intellettualizzati, e con quelle canzoni veicolare i messaggi, gli stessi su fotografati attraverso piccoli indizi lasciati sul palco, giorni fa mi è capitato di ragionare su come proprio La Rappresentante di Lista passando da Sanremo siano riusciti o meno a passare dalla condizione di alternativi a quella di mainstream, la loro canzone Amare usata da loro stessi come Cavallo di Troia stavolta per gabbare il sistema, la macchina mediatica, la televisione. Perché, questo poi ho ritrovato nelle parole di Zygmunt Bauman, riassunte per noi umani stanchi di scartabellare libri su Facebook da Umberto Palazzo, già citato nei giorni scorsi sempre per suoi post facebookiani, seguitelo, ne vale la pena, provare a diventare celebri, e quindi in qualche modo parte della vita di coloro che ci troviamo di fronte, a questo serve la celebrità, a simulare una parvenza di compagnia, un modo per sconfiggere la nostra solitudine causata dalla fine della società intesa come comunità, sostituita dalla società intesa come rete.
La Celebrità, in sostanza, ci ha detto Bauman, non è mai prodotta da chi celebre diventa o ambisce a diventare, riuscendoci o meno, mai ottenuta con le proprie forze, ma è sempre frutto della creazione da parte dell’industria mediatica, che attraverso la Celebrità intende veicolare i propri prodotti, a questo del resto servono i media e i programmi che i media trasmettono, Sanremo compreso.
A produrre la Celebrità è l’industria, grazie alla mediazione di una schiera di intermediatori culturali, mai succede il contrario.
Insomma, una visione cupa e pessimistica, ma sicuramente piuttosto aderente al reale, l’impossibilità di far implodere il sistema da dentro, o di modificarlo dall’esterno e poi impossessarsene. L’industria crea il prodotto al fine di venderci un prodotto, e lo fa manipolandoci nel momento in cui ce lo vende e per poi continuare a manipolarci nel momento in cui ci ha venduto il prodotto, in un loop.
Ecco, io credo, posso sbagliarmi, probabilmente sono anche io uno degli intermediatori culturali complice o succube della macchina, del sistema, e quindi in questo momento sto dissimulando un momento di rivoluzione, sicuramente esaltante, mentre quel che passa il convento è semplicemente una finta liberazione da preconcetti, effimera, ecco, io credo che il passaggio de La Rappresentante di Lista a Sanremo con la loro Amare, quel loro essere lì, solo in apparenza rassicuranti, in realtà disturbanti, conturbanti, perturbanti, esattamente all’opposto delle retoricissima Amanda Gorman, figurina bidimensionale messa esattamente in corrispondenza del numero giusto, la copertina del loro album a mostrarci vagine spalancate che ci aprono a universi stellati e stellari, peli ascellari fluo e coppie che si scambiano i parametri, maschile lei, femminile lui, sia davvero il Cavallo di Troia che non ti aspetti. Senti citofonare, vedi un volto amico, gli apri, lo fai accomodare e solo all’ultimo ti accorgi che ormai il “danno” è fatto, ti trovi Ulisse, il rossetto rosa, i peli ascellari fucsia, le zeppe dorate, seduto sul divano e pronto a dare alle fiamme casa tua.