Fiori rossi, come il sangue che scorre all’interno delle mura domestiche, un cremisi su cui il lockdown cala una cortina di silenzio, una mano di grigio per ovattare le storie di ordinaria violenza che corrugano la superficie apparentemente uniforme della routine pandemica. Sono aumentate le vittime declinate al femminile, il numero delle chiamate sia telefoniche sia via chat nel periodo compreso tra marzo e giugno 2020 è più che raddoppiato rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+119,6%), passando da 6.956 a 15.280. Storie di domestica crudeltà, ora che all’interno delle case serrate si trovano a convivere vittime e carnefici, perseguitati e persecutori. I femminicidi, per usare una parola davvero cacofonica e scorretta, sono aumentati e quanto mai oziosa, ridondante sui social, risulta la questione del politicamente corretto nella nomenclatura delle professioni, quando ad esercitarle è una donna; perché è vero che la lingua è il deposito del retroterra culturale di cui è espressione, ma i cambiamenti devono diventare in primis socio economici e una parola non salva il mondo, lo salva invece una sentenza severa contro l’assassino della ex moglie, compagna, fidanzata, sentenze che sappiano punire con certezza della pena, come sosteneva un certo Beccaria quasi tre secoli fa; o un diritto di famiglia che non faccia ancora e sempre perno sulla figura materna e condanni a indennità e risarcimenti la latitanza dei padri, e, allora, di quanti assassini in effigie dovremmo parlare? Madri ridotte in miseria, madri che crollano, figli sottratti e affidati alle comunità che prolificano e ingrassano grazie ai soldi pubblici. Non c’è sentenza in Italia, tesa a punire un delitto contro il femminile, che non ci lasci con un senso di gelo, un raccapriccio difficile da eludere. Di quale cultura sono il parto?
Ce lo illustra, con il suo primo lungometraggio, il regista salernitano Luca Guardabascio, il cui “Credo in un solo Padre”, prodotto da Around Culture, esce non a caso l’8 marzo sulla piattaforma Chili. L’opera verte sulle radici della violenza contro le donne, illumina il nostro retroterra culturale nell’arco di cinquanta anni, in una realtà rurale, minimale, dove i rapporti sono immediati e sanguigni, ma la cultura della vergogna stende, anche sull’evidenza, il silenzio omertoso, specie quando a subire la violenza sono loro, le donne, quelle più deboli, più indifese. E che invocano, nelle loro preghiere, proprio il Padre, nume tutelare e custode di quella struttura patriarcale, quasi a voler persuadere se stesse, mentre le loro parole trasudano sangue, che infine, quel sistema che le vittimizza è giusto, è sacro, è santo. Il film, partito dallo spunto del romanzo “Senza far rumore” di Ferruccio Tuozzo non ritrae un’Italia lontana, arcaica, perché, in parte, vuoi la resistenza del cattolicesimo, la giovinezza delle nostre istituzioni, la profondità di certi vissuti culturali, anche nel nostro Paese si è attuata una modernità senza modernizzazione. Quel mondo arcaico vive ancora in profondità nelle nostre coscienze, e nelle realtà periferiche a quelle metropolitane, nei ceti meno acculturati ed agiati, ma anche nelle culture importate, nonché nel marketing, nell’immaginario pubblicitario che fatica a svecchiarsi. Il film di Guardabascio è basato su fatti realmente accaduti nel corso di tre generazioni, quando i figli, tra cui Gerardo (Giordano Petri), il marito di Maria (una Anna Marcello davvero straordinaria), decidono di partire per l’Austria allo scopo di migliorare la condizione economica della propria famiglia, lasciando al padre totem, un potere dispotico sulle nuore e nipoti, oltre che sugli altri maschi più deboli, femminilizzati. Tutto accade mentre un intero paese sta a guardare.
Girato alle falde dell’Appennino lucano al confine tra Campania e Basilicata, nei luoghi del salernitano dove gli eventi si sono svolti, l’opera di Guardabascio conta tra gli interpreti Flavio Bucci (scomparso il 18 febbraio del 2020), Massimo Bonetti (il padre padrone) Anna Marcello, la nuora abusata, ma anche attori che quelle violenze le hanno subite davvero. Interpretazioni così vere e calate nel dramma che c’è stato bisogno sul set del supporto della psicoterapeuta Elena Fattorusso. La scelta di aver assunto per la realizzazione del film persone vittime di abusi e violenze, si è via via trasformata anche in un progetto formativo «Non soltanto hanno girato e recitato insieme a noi, abbiamo fatto formazione, e oggi c’è chi lavora per sartorie, chi come fonico…» ha dichiarato Guardabascio, con la sua forte vocazione sociale e civile, un progetto «che ha coinvolto e coinvolge il territorio, scuole, associazioni, cittadini, imprenditori e istituzioni». Francesco Baccini (tra i protagonisti e autore della colonna sonora) si è speso in tour per sostenerlo. L’attore Claudio Madia, fondatore della Piccola Scuola di Circo ha battuto le scuole e elementari medie per sensibilizzare le famiglie. Il valore sociale del film è quello di una missione: denunciare, presentare davanti allo schermo quello che le cronache spesso ci raccontano. “Credo in un solo Padre” ha già ottenuto riconoscimenti e nomination, dal Queen International Film Festival di Los Angeles all’Alternative International Film Festival di Toronto.