Dopo dieci secondi è già tutto compiuto. Tutta la disperazione dopata d’allegria t’è già franata addosso: che senso ha un Festival così, uno spettacolo così, stecchito come un baccalà, liofilizzato come la musica che espelle, un sapore di ammuffito, di improbabile, di imbarazzato, Amadeus che non ci crede e si vede, Fiorello che si agita, finge agio e si nasconde nelle sue cazzatine sempre più da vecchio ragazzino? “Dovevamo pure far qualcosa di forte” si giustifica ammantato a metà fra Achille Lauro e Wanda Osiris. Tutto qua il Festival del Coviddì? Ma sì, tutto qua, tutto il resto è noia, noia, noia, non ho detto gioia, neanche per un attimo, solo mestizia e rassegnazione. Questi due, i conduttori dico, costano insieme come un reparto Covid e alle loro gag agghiaccianti ridono solo gli orchestrali, per presenza e per contratto. Il pubblico, dopo le ultime ondate virali, è stato cassato, dev’essere parso troppo anche per l’arroganza Rai. La scenografia, per non sbagliare, ricorda la claustrofobia di un’astronave perduta nel creato, opprimente, allucinante. E tutto un roteare di inquadrature che non mascherano il deserto.
A parte i fratelli De Rege, a parte qualche lugubre guardia dietro la maschera a presidiare uscite inutili, non c’è nessuno. In platea non c’è nessuno, solo i velluti morti delle poltroncine di un rosso funebre; l’uovo di Colombo è insistere, sfruttare il gran vuoto che c’è, ma dopo la seconda volta, “su i braccioli giù i braccioli”, è aggiungere patetico al patetico per consumare tempo.
Ecco, la sensazione è proprio quella di un non saper come passare il tempo, di tirar tardi per amor di sponsor ma con gran pena e strazio. Tutto è grottesco in questa capsula, questa macchina di un tempo che non c’è, latita pure lui: i vuoti, gli applausi registrati, e buono per queste sottospecie di succedanei di artisti che solo pianto e stridor di denti, solo pomodori non fiori meriterebbero, i fiori sterilizzati sul carrellino, gli ospiti inutili, l’infermiera covidista, Ibra che fa Ibra ma alla lunga diventa Celentano, la Berté che ormai è solo ringhio di protesi labbresche, non c’è niente, non ritmo, non verso, non senso, non convinzione, non emozione, molto dolore. Dicono che sia la prima serata peggiore, come ascolti, dal 2008: molti avranno cambiato canale dopo un po’, avranno spento, non reggendo al funerale, in tutti i sensi, della musica.
Una rutilante sagra senza folla. Una fiera del consunto, del macabro, dove i ragazzini, gli youtuber, gli indipendenti, dal talento certamente, sono più arrancanti delle vecchie mummie dell’Ariston, anno dopo anno, inesorabilmente. Un carnevale di zombie che si agitano ma non ci credono, sono zombie e lo sanno. Vale la pena di fare una roba così? Certo, i milioni della pubblicità. Certo, il carrozzone che va avanti da sé. Certo, i teleinchiodati che vuoi o non vuoi alla fine si abitueranno, si abituano a tutto. Ma valeva la pena?
Il livello artistico è raccogliticcio, sconcertante. Questo è un campionario di musica? La musica italiana, per parafrasare Frank Zappa, “manda un odore curioso” ma, volendo, di più dignitoso si trova. Ma che senso ha imbarcare, e a Sanremo ci arrivi solo se hai uno sponsor potente alle spalle, perché è solo business, che senso ha chiamare emeriti ectoplasmi “che hanno ventidue milioni di visite sui social”? Se è per questo pure certi imbonitori in fama di giornalisti, e infatti i risultati si vedono. Nella guitteria sanremese è uguale, stamattina le pagelle dei giornali si arrampicano sui vetri insaponati pur di salvare il salvabile. Ma da salvare, credeteci, c’è poco e niente. Prendiamo solo gli amiconi conduttori: va bene, debbono tamponare una edizione allucinante e non è facile, ma non c’è nessuna ironia, nessuna fantasia, c’è solo un piccolo mestiere per tirar tardi, l’una e mezza di mattina e non si capisce come. Amadeus scivola sul tempo, la sua maschera di cera è eterna perché insignificante, qui o a un gioco a premi o a una commemorazione funebre è sempre la stessa, lui non può sbagliare perché non fa niente: c’è, e tanto basta. L’altro, il Fiore, è appassito, al contrario di Ama gli si va spalmando in volto una spietata vecchiezza sicula, alla Ciccio Ingrassia ma senza l’ombra di quella atroce nobiltà.
Scorrono i cantanti – cantanti? Sul serio? -, la regia fa ruotare il teatro come quei baracconi da luna-park che inducono il vomito, ogni tanto un pistolotto per educare la massa alla prudenza: però loro stanno là, chi li guarda non ne ha bisogno perchè è incapsulato in casa. Sanremo è governativa, il ministro Speranza ha ringraziato via Twitter “e questo è già un buon motivo per non guardare il Festival” ha commentato carogna qualcuno. Chiedono all’infermiera Covid: “L’avresti mai pensato di diventare famosa dopo il tuo selfie?”. “Assolutamente no” risponde quella “l’ho fatto per la mia famiglia”. Ma in tempo reale il selfie veniva stato trasmesso a tutti i canali mediatici possibili e questa, che dice “la mia vita non è cambiata”, passa dal Festival del Cinema a quello della Canzonetta. Sanremo è così: familista e governativo. Ma quest’anno pretendeva di sconfiggere il Covid e invece ne viene infettato. Pare che, in piena isteria, la polizia abbia fermato Orietta Berti, che si aggirava nella notte, non avendola riconosciuta. Pensa, l’Uccellino della Valpadana a rischio arresto per trasgressioni sanitarie. Orietta come Iggy Pop. Siamo al sublime, forse sì, ne valeva la pena.