Eh, ma questa è una provocazione.
Quante volte me lo sono sentito dire.
Di più, e meglio, quante volte me lo sono sentito rinfacciare.
Come se questo semplice fatto, in alcuni casi dichiarato in partenza, da me medesimo, svilisse la provocazione stessa. O come se il semplice fatto di essere una provocazione, anche una provocazione, negasse la verità che quella provocazione contiene, può contenere.
Come, soprattutto, se fare una provocazione, sia cosa talmente facile dal meritarsi di essere bollata, e di essere bollato tu che quella provocazione hai fatto, hai ideato, hai realizzato, come qualcosa di irrilevante, di disdicevole, addirittura, comunque di poco conto.
Ora, che le provocazioni non siano da prendere troppo alla leggera direi che è un dato di fatto inconfutabile, il fatto stesso che si corra a stigmatizzarle, e che comunque ci siano veri e propri protocolli di come reagire alle provocazioni, dai social alle manifestazioni di piazza, ce lo dice.
Che le provocazioni in arte, invece, siano tutt’altro che irrilevanti, assurgendo spesso a icone di determinati movimenti, specie dal primo Novecento in poi, il filo che conduce dal dadaismo alla pop art è infarcito di provocazioni, e arrivando a avere valore di mercato, oltre che artistico, è a sua volta dato per assodato, dal dito medio che Maurizio Cattelan ha eretto di fronte alla Borsa di Milano, a Piazza Affari, titolo dell’opera L.O.V.E., passando per la Merda d’artista di Piero Manzoni, fino ai cadaveri, umani e animali di Damien Hirsts o di Parigi l’aria imbottigliata e la Gioconda coi baffi di Duchamp, titolo I.H.O.O.Q.. L’elenco potrebbe ovviamente essere assai più lungo e dettagliato, e partire da assai prima delle avanguardie, già Caravaggio provocava i suoi committenti, usando come modelle per i suoi dipinti che ritraevano Madonne e sante delle prostitute, per dire, ma in quel caso la provocazione era inglobata nel metodo, mentre oggi, diciamo da almeno un secolo, la provocazione è diventata essa stessa messaggio. Come se per scalfire, aprire una crepa dalle quale arrivare a un varco, volendo anche a una implosione del pensiero unico dominante, omogeneo e omogeneizzato, non ci fosse altra maniera che provocare, rompere, andare sopra le righe. Sempre rimanendo nell’alveo dell’arte, però, facendo quindi del messaggio opera d’arte.
Vi racconto una storiella, anche abbastanza nota.
Nel 1963, in piena rivoluzione controculturale, l’allora settantaseienne Marcel Duchamp, già dadaista e surrealista, creatore del Ready Made e universalmente considerato uno degli artisti più importanti del XX secolo, arriva a Pasadena con una mostra curata da Walter Hopps e dal titolo Duchamp Retrospective, presso il Norton Simon Museum. Il giorno dell’inaugurazione, presente l’artista, proprio all’ingresso della mostra campeggiano alcune foto di Julian Wasser che ritraggono lo stesso Duchamp seduto a un tavolo, proprio nel mezzo delle sale del museo, intento a giocare una partita a scacchi con una giovane e formosa ragazza. La ragazza è completamente nuda, le tette strabordanti quasi le fanno incurvare la schiena. La ragazza è Eve Babitz, agitatrice culturale, scrittrice, biografa. Queste foto che, nonostante si fosse nella California degli anni Sessanta, il flower power e l’epopea hippie già in germoglio, non mancheranno di scandalizzare, anche se è sulla interessante storiella che c’è dietro che vorrei concentrarmi.
Eve Babitz, infatti, lo racconterà poi in alcuni suoi libri, su tutti “Slow days, fast company- Il mondo, la carne, L.A.”, era all’epoca l’amante di quel Walter Hopps che aveva portato Duchamp a Pasadena. Duchamp era una sorta di leggenda vivente, non fosse che nel mentre è morto lo sarebbe anche oggi, Eve chiese ovviamente a Walter di essere invitata al vernissage. Solo che Hopps le rifiutò l’invito, al suo fianco ci sarebbe stata infatti sua moglie, poco incline a volere tra i piedi la giovane e provocante scrittrice. Di quei l’idea di contattare direttamente Duchamp e finire dentro il museo sotto forma d’opera d’arte, cosa che non mancherà di far infuriare la signora Hopps. Le foto di Julian Wasser, ovviamente, sono a loro volta entrate nella storia dell’arte, quindi la provocazione di Eve Babitz è diventata un’opera che ha travalicato l’intento iniziale, elevandosi al ruolo assoluto di arte.
Vogliamo fare un altro esempio, più vicino ai temi che solitamente tratto?
Sia che siate prossimi alla pensione, sia che siate giovanissimi, con una qualche inclinazione a farvi affascinare dal rock, sia chiaro, avrete tutti ben chiaro in mente il Jimi Hendrix eccentricamente vestito che, chino a terra, distorce da mancino la sua chitarra elettrica dal palco di Woodstock The Star-Spangled Banner, l’inno americano.
Sappiamo tutti, e se non lo sappiamo è un male, studiate, capre, che quello che era la canzone patriottica per antonomasia è diventata, sotto la cura distorta e ultra-acida di Hendrix, un brano sovversivo, atto a stigmatizzare la guerra in Vietnam, il rumore esplosivo delle bombe ricreato col suo colpire le corde. Arte?
Provocazione?
Direi che ineluttabilmente siamo di fronte a entrambe, o meglio a una provocazione che si eleva a arte.
Come è arte la copertina dei Sex Pistols che mostra la regina Elisabetta II di Inghilterra con la bocca chiusa da una spilla da balia, God Save the Queen, o il nome d’arte scelto da Brian Warner, in arte Marilyn Manson, quell’accostare sacro e profano, l’icona della bellezza a fianco del cognome del seria killer più famoso degli USA.
Ecco, citare oggi Marilyn Manson potrebbe a sua volta essere una provocazione, lo so, ma non è di lui, delle tante accuse di violenze e molestie che gli sono piovute addosso, della improvvida corsa a prenderne le distanze, dei processi fatti prima dei processi, sto provando a parlare di provocazione e su questo tema vorrei rimanere, mi perdonerete.
Che la provocazione sia contro il sistema commerciale e capitalistico, ma al tempo stesso un ragionamento sulla riproducibilità dell’arte nell’era contemporanea, a suon di barattoli di zuppa Campbell e ritratti multicolore di artisti, contro la stigmatizzazione del corpo che ha portato a sua volta a oggettificarlo, penso al The Mirror of origin di Deborah De Robertis, artista lussemburghese che si è “esposta” nella medesima posa de L’origine del mondo di Gustave Courbet, ai piedi del dipinto, presso il Musée d’Orsay, le gambe spalancate a far vedere l’origine del mondo, appunto, o al Mirror Box di Milo Moiré, l’artista svizzera lì a farsi toccare e masturbare in luoghi turistici in giro per i mondo, coperta appunto da specchi che riflettono i “molestatori”, o contro il mercimonio dell’arte portato all’esasperazione, la banana appesa con lo scotch di Cattelan o l’opera Girls with Baloon che si autodistrugge durante l’asta da Sotheby’s divenendo nuova opera d’arte di Banksy, che sia quel che sia, la provocazione non necessariamente è semplice provocazione, e anche quando lo fosse, non sta a me definire arte nessuno dei passaggi appena descritti, seppur qualche piccola differenza tra Andy Warhol e Milo Moiré potrei ravvisarla, sicuramente nulla di semplice presenta.
Altrimenti avremmo una lunga sequela di “artisti” o sedicenti tali che intasano i media con le proprie provocazioni, per altro finendo per annullare il senso di stupore e spaesamento, oltre che di disagio e disturbo, che la provocazione porta con sé in carico.
Ora, certamente avendo io iniziato questo mio centonovesimo capitolo del diari del secondo lock down parlando di come io spesso venga attaccato come agente provocatore dagli haters, e avendo poi io iniziato a parlare di provocazione nell’arte, ho citato grandi artisti del presente come del passato, da Duchamp a Caravaggio, passando per Warhol e Banksy, avrò mandato qualcuno ai pazzi. Perché, questa l’accusa che mi si muoverà, lo so, è che io per giustificare il mio essere un provocatore ho sostanzialmente provocato, ponendomi al cospetto di nomi importanti dell’arte contemporanea (mentre per alcuni, al massimo, io potrei ambire a essere un grande bluff, uno che taglia un foglio o che fa un calco del proprio fallo in gesso e lo spaccia per arte, un Milo Moiré un po’ meno charmant).
Il fatto è che credo, e lo credo fortemente, che le provocazioni vadano prese molto sul serio.
Io almeno le prendo molto sul serio, e quando decido di provocare non lo faccio mai per il mero gusto di stare per qualche ora al centro dell’attenzione, per altro l’attenzione virtuale e fittizia che si manifesta in rete, ma più per la necessità di far cadere il velo di Maya, di aprire la porta durante l’incendio ben sapendo che l’ossigeno che incontrerà le fiamme darà vita a un’esplosione deflagrante, a costo di rimanerci io stesso sotto.
Certo, non nego che c’è anche un certo divertimento a incontrare la scarsa originalità di chi prova a reagire alle provocazioni abboccando clamorosamente all’amo, senza neanche sforzarsi di mettere in piedi un qualche teatrino di pari portata, volendo anche migliore. A volte so di poter agire andando in folle, e questo lo vivo con disagio, perché mi spinge a non impegnarmi, il risultato scontato messo in salvo già dopo i primi minuti, neanche la voglia di fare il torello a centro campo, anche il gatto si stanca di giocare col topo, ma il più delle volte c’è studio, impegno, intuizione, ispirazione, ci metto tutto me stesso, perché penso che quel che si lascia sia fondamentalmente tutto ciò che siamo, una firma senza foglio non sarebbe firma.
Faccio un esempio, su tutti (da questo punto, se siete particolarmente sensibili, o se siete i miei genitori, che alle soglie dei cinquantadue anni ancora ci restano male per il mio linguaggio, o i miei figli, che quel linguaggio non si devono neanche sognare di pronunciarlo, smettete di leggere, è per il vostro bene).
Se per sottolineare l’irrilevanza cui è giunta la carriera di un artista che ha riempito palasport, vinto dischi di platino, portato le sue hit in vetta alla classifica e è indubbiamente uno dei nomi più noti del nostro panorama musicale, Biagio Antonacci, decido di scrivere un lunghissimo pezzo nel quale mi soffermo con dovizia di particolari su questa mia scoperta, mia nel senso che prima non lo sapevo, non sono certo lo scienziato che per primo ha portato il mondo alla conoscenza del fatto, che i cavalli, sprovvisti di sfintere, se si trovano troppo a lungo in acqua imbarcano la medesima dal culo, finendo per morire annegati nell’inconsapevolezza della morte imminente, se imbarchi acqua dalla bocca non puoi non accorgertene, se, cioè, costruisco tutta una narrazione articolata, partendo da me che cerco in rete notizia dell’imminente uscita del nuovo album del nostro, di me che non ne trovo traccia ma per contro mi imbatto, casualmente, nella notizia di cui sopra, descrivo il mio stupore sincero, racconto la cosa, certo giocando con l’ironia, ma anche lasciando spazio alle evidenze scientifiche, portando il tutto alla lunga per un numero incredibile di parole e battute, la sintesi non è mai stato il mio dono, salvo poi chiudere con me stesso, il me stesso consapevole di questa atroce realtà, i cavalli affogano dal culo, che finalmente trovo menzione dell’imminente uscita del nuovo lavoro del cantautore di Rozzano, ecco, se faccio tutto questo, finendo per costruire un articolo che gira bene, che appassiona, e che per il tema trattato, sicuramente curioso, ma anche per il nome cui il tema è legato, cui io ho legato il tema, Biagio Antonacci e i cavalli che affogano imbarcando acqua dallo sfintere, o meglio a causa dell’assenza di sfintere, per altro reiterando e sottolineando più volte lo sgradevole “buco del culo” dei cavalli, un linguaggio volgare, sgradevole, compiaciutamente sgradevole e volgare, se faccio tutto questo è evidente che sto dando alla mia provocazione, questa è, un valore assai alto, per tempo impiegato nel costruirla, per mestiere messo nel costruirla, oltre che per talento nel trovare una notiziola da National Geographic e averla poi resa una sorta di leggenda metropolitana dello show business italiano, ho le registrazioni di video interviste a un numero impressionante di artisti, anche molto vicini allo stesso Antonacci, che ridono di questo mio articolo, ho centinaia di messaggi di addetti ai lavori che ne ridono con me, chiamando quel lavoro Il cavallo, al pari di quanto l’album Fabrizio De Andrè, quello con l’indiano in copertina è per tutti L’indiano, se, sostanzialmente, faccio di un articolo che riporta una semplice notizia, sta per uscire un nuovo album di Biagio Antonacci ma nessuno sembra prestarci troppa attenzione, e nel farlo ci costruisco un pezzo letto centinaia di migliaia di volte, uno dei miei articoli più letti, non a caso spesso ne parlo come del mio “cavallo di battaglia”, facendo una battuta stupida, se faccio tutto questo non è pensabile che poi mi si dica, eh, ma questa è una provocazione. Come se fosse cosa irrilevante o di facile fattura. Certo che è una provocazione, come lo era il gol di mano di Maradona ai mondiali del 1986 contro l’Inghilterra, peccato che col suo dire che lo aveva segnato “la mano de Dios” lo abbia elevato a opera d’arte, e come tale va trattato.
Dovendo anche oggi guardare senza finta modestia a Dediche e manie, questo il titolo dell’album di Biagio cui ho dedicato la mia cura, e al mio articolo sui cavalli che affogano imbarcando dal culo credo che nessuno possa palesare dubbi su dove stia l’insignificanza e dove l’arte, non volermene Biagio, ma non c’è proprio storia, l’ho scritto con le mani di Dio.
Chiaramente, avessi solo avuto l’intuizione che parlare di cavalli che affogano causa assenza di sfintere sarebbe equivalso a far leggere l’articolo sarei stato uno di quelli che sparano titoli shoccanti al solo scopo di avere dei click, i miei tempi di lettura, altissimi, dicono altro, e sicuramente sarei stato messo col tempo da parte dal sistema musica, dentro il quale invece ancora mi muovo a mio agio, anzi, ancora più a mio agio, forte di essere considerato uno imprevedibile e in quanto imprevedibile da prendere con le molle, a cui rompere poco le scatole, ma in questo caso il raccontare la povera sorte di un cavallo che si trovi a guadare per troppi minuti un fiume mi serviva per stigmatizzare il dare per scontato che l’essere un cavallo di razza, questo è o almeno era Biagio Antonacci, ci tenga necessariamente lontano dai pericoli che il dare il successo per scontato comporta, anche un corpo poderoso e una natura potente nulla possono rispetto a quello che, a ben vedere, altro non è che uno sfintere, metafora che non manca mai di commuovermi ogni volta che ci penso.
Se Biagio Antonacci abbia gradito o meno questo mio metterlo in guardia rispetto ai pericoli non saprei dire, a occhio non credo. Sicuramente non ha gradito tantissimo il suo ufficio stampa, che ho avuto modo di incontrare proprio l’indomani dell’uscita di quel pezzo, per altro in occasione di una mia intervista a Gianni Morandi, ex suocero dello stesso Biagio, Gianni che mi ha accolto con un clamoroso “Ma tu sei quello dei cavalli che affogano?”, già non mi aveva in stima prima, non credo di aver fatto molto per entrare nelle sue grazie.
Nei fatti la sola volta che io e Biagio ci siamo incontrati dopo quell’occasione, durante il Festival di Sanremo 2018, negli studi mobili di Rtl 102,5, dentro l’Oviesse di fianco all’Ariston, ci siamo fatti un simpatico selfie insieme, il che potrebbe non voler dire molto, nei medesimi studi ho anche un selfie con Ferdinando Salzano e Lorenzo Suraci, un selfie che quando è stato scattato, l’anno precedente, è stata la foto più condivisa tra gli addetti ai lavori di tutto il Festival, vuole la vulgata, quel che so per certo è che quella che poteva essere una semplice notizia è diventata a suo modo un gesto artistico e performativo, la provocazione che si fa arte, appunto.
Per questo, anche per questo, vi prego, se proprio non potete fare a meno di criticarmi, anche aspramente, per aver scritto in un certo modo di un artista che vi sta particolarmente a cuore, incapaci voi di cogliere il senso di certe iperboli che affollano i miei scritti, mai usato mezze misure nella vita, figuriamoci quando scrivo, evitate di venirmi a attaccare rinfacciandomi di aver messo in atto una provocazione, sarebbe come insultarmi dicendomi che ho un grande talento, o sminuirmi per essere capace di fare quel che era mia intenzione fare. Provate semmai a soffermarvi sul fatto che a volte le risibili opere che considerate imprescindibili diventano tali proprio in virtù di certe critiche anche feroci che donano loro il soffio della vita, anche la carta straccia, se serve, può servire a accendere un fuoco, quando fa freddo.
Quando mai vi venisse quindi l’impellenza di provare a dimostrarmi che la mia esistenza ha senso solo perché sono un provocatore, o che io esisto solo perché sfrutto il lavoro degli altri, sorta di parassita che si nutre del sangue dei vostri beniamini, immaginatemi nudo che gioco a scacchi con loro, con meno tette di Eve Babitz, ma se continua questa pandemia e devo continuare a vivere in casa non potendo fare movimento non è detto che prima o poi arrivi anche io a una quarta carenata come lei.
Ecco, immaginatemi così, vedrete che desisterete dal farlo.
Questa non è una pipa, direbbe Magritte.
Questa non è una pippa, aggiungo io.
Non mi inviti all’inaugurazione della mostra di Duchamp?
Ci vengo lo stesso, come opera d’arte, firmato Eve Babitz.