Provo a tornare su un passaggio finito ieri nel mio diario del lock down. Un passaggio apparentemente minore, ieri in effetti lo era, ma che nei fatti potrebbe darmi spunto per parlare d’altro, lo sto già facendo.
Parlavo, ieri, di come gli artisti, mi mettevo nel gruppo, si trovino spesso di fronte all’incognita di che tipo di riscontro la propria arte avrà da parte del pubblico, e di come questo fattore a volte, se non sempre, diventi determinante nell’approcciare la propria arte. Parlavo quindi di mainstream, di nicchie, di chi riesce a fare della propria cosa una parte di una di quelle due realtà, forzando le mode e le consuetudini, e parlavo di come a volte il volersi far volere bene da parte del pubblico sia benzina assai più efficace e lunsinghiera di qualsiasi riconoscimento e risultato. Non era quello il cuore del mio capitolo di ieri, quindi ho toccato il tutto a volo d’angelo, ma direi che ci sono poche criticità in quanto ho scritto. Non sarò neanche il cuore del mio capitolo di oggi, ripercorrere quel ragionamento, così, fugacemente, mi serviva come punto di partenza, per cui passo oltre.
C’è un libro, di cui consiglio la lettura a chiunque abbia come interesse anche non primario la musica, “Il resto è rumore”, del critico musicale Alex Ross, un libro il cui sottotitolo è quantomai esplicito, “ascoltando il XX secolo”, come a dire che parlare di musica può darci modo di andare oltre la musica, così è, la storia e la Storia è assai presente in queste pagine, notevolissime.
A un certo punto, parlando di dodecafonia, non spaventatevi, Ross racconta di come Alban Berg, allievo di Schönberg, di fronte a un’accoglienza entusiasta da parte del pubblico della sua opera Wozzeck, alla première alla Staatoper Under den Linden di Berlino, cadde quasi nella disperazione più cupa. Ross cita un passaggio di Theodor Adorno, padre di tutti noi che di musica scriviamo e che di musica scriviamo ambendo a non lasciare che le nostre parole restino solo nel recinto angusto di chi solo di musica vuole leggere, Theodor Adorno presente in quell’occasione, che racconta come fu difficilissimo provare a consolarlo, il successo di pubblico quasi visto come la dimostrazione che qualcosa non avesse funzionato, una sorta di fallimento, con buona pace di Schönberg che invece accolse la notizia con estrema gelosia per il successo del proprio allievo.
Questo è un passaggio minimo dentro un libro di quasi novecento pagine, un passaggio in quel contesto irrilevante, ma che mi sembra utile per provare a tratteggiare un ulteriore profilo di artista, ieri neanche menzionato.
Parlo dell’artista che non vuole essere popolare, oggi in maniera tranchant forse direbbero radical chic, che cioè guarda alla sua arte, e di conseguenza a se stesso, e di conseguenza al se stesso per come viene percepito dagli altri, complice la propria opera, come a qualcosa che non può essere gustato da tutti i palati, che non vuole affatto essere gustato da tutti i palati, mira in alto e solo chi è in alto dovrebbe poterlo capire.
Nulla a che vedere con lo spirito bohemien di chi preferisce struggersi nel proprio insuccesso, intendiamoci, questa è una variabile assai più facilmente riscontrabile, il marchio di alternativo ben posto in evidenza, la costante contrapposizione tra un non ben precisato “noi” da contrapporre a un assai più facilmente riconoscibile “loro”, tutto visto e rivisto, anche se oggi siamo più avvezzi a vedere questo tipo di artisti saltare dall’altra parte della staccionata con una facilità degna del Nino Castelnuovo che pubblicizzava l’Olio Cuore, i cast degli ultimi Festival di Sanremo direi che ne sono prova provata.
Parlo proprio di chi è convinto, Alban Berg era ovviamente tra questi, la dodecafonia non è solamente un’espressione musicale frutto dell’incontro tra modernità/progresso e la presa di coscienza di quanto fatto in precedenza nell’ambito della musica colta, la teorizzazione portata all’estremo, in barba a ogni logica che vorrebbe il bello come facilmente decodificabile anche da chi non ha necessariamente gli strumenti per poterlo fare, parlo di chi è convinto che l’arte debba fare i conti solo con se stessa, non col gusto del pubblico, e che quindi veda nel riscontro di pubblico un fallimento in quanto segno di scarso camuffamento, infili una patata in bocca, ti copri con un asciugamano, infili la testa dentro una pentola, fai l’accento svedese ma il tuo capo ti riconosce e ti dice “Fantocci, è lei?”.
Lo so, mettere in uno stesso discorso Berg e il riscontro benevolo del pubblico della première della sua Wozzeck con un passaggio anche piuttosto noto di Fantozzi è un vezzo autocompiaciuto e narcisistico che avrei potuto evitare. Un mio modo di palesare quel tentativo, goffo in questo caso, di conciliare alto e basso che fa tanto, troppo postmodernismo. Ma mi rendo conto che aver tirato in ballo il saggio monumentale di Alex Ross e un passaggio minimo contenuto in esso per descrivere come certi artisti ambiscano a non arrivare al pubblico, rendendo difficile oltremodo la comprensione di quel che hanno composto sia stato forse un azzardo.
Ho cioè, in poche parole, fatto esattamente come Berg, almeno in partenza, ho reso il mio discorso, semplice in teoria, complicato, citando in un contesto solitamente dedito al chiacchierare di musica leggera la dodecafonia, Berg e un’opera, Wozzeck, che probabilmente il lettore non avrà neanche mai sentito parlare, non così nota né fondamentale, ambendo quindi a rendere il mio discorso di difficile comprensione, come se già il mio scrivere con frasi lunghe, tortuose, assolutamente non scorrevoli non lo renda tale di suo, salvo poi virare di colpo in direzione opposta, andando con quella citazione di Fantozzi, quella sì riconoscibile ai più, a cercare una sintonia immediata col lettore, un fare l’occhietto atto a dire, vedi, in fondo siamo tutti uguali, fanculo Berg, sono Dimartino e Colapesce che partecipano al Festival di Sanremo, io.
Non pensiate, erroneamente, che io abbia vanificato quanto su scritto, non ambisco a essere incompreso, lo facessi non giocherei tra alto e basso, ma soprattutto non scriverei in un contesto che deve giocoforza essere popolare, il mio è un diario pubblico, senza pubblico resterebbe un diario monco. Non è di me che sto parlando, ma di una tipologia di artisti che non vede nel riscontro di pubblico qualcosa cui ambire, anzi, che pensa che l’essere apprezzato dal pubblico attesti un qualche errore di calcolo, una defaillance nella composizione, il mostrare una crepa che si era provato a tenere fino a quel momento nascosta.
Torno a parlare di dodecafonia, chiedendovi, però, di mettervi comodi e non interrompermi, perché sarà un po’ come andare sulle montagne russe, seppur per un lasso di tempo assai più limitato.
La dodecafonia è un metodo di composizione, per dirla con il suo padre putativo Arnold Schönberg, piuttosto meccanico, certo con le variabili fornite dagli intervalli, dove l’armonia, solitamente codificata attraverso il rapporto tonica-dominante nel sistema tonale, viene totalmente alle serie, espresso totalmente dalla polifonia.
Non serve entrare nel dettaglio, sto facendo Berg, di nuovo, lo so, ma pensate a un contesto in cui la melodia domina sul ritmo, semplifico vergognosamente la musica classica tutta, e poi provate a immaginare un contesto nel quale la melodia non sarà così centrale, il ritmo e lo sviluppo armonico-melodico del tutto affidato alle sequenze precodificate di serie di note, roba ascrivibile alla matematica.
Questa modalità di comporre, ma anche di eseguire le composizioni, potrebbe essere ricondotto con una certa facilità alla musica elettronica, erroneamente apparentata, almeno in certo immaginario colto, al rock, si pensi al termine Krautrock, o a come personaggi quali i Krafwerk siano annoverabili, loro malgrado, alla tipologia più moderna delle rockstar. Perché se è vero che anche la musica rock è fintamente una musica naturale, la tecnologia nodo fondamentale, dalla strumentazione utilizzata al modo per inciderla, è evidente che la musica elettronica non solo possa essere totalmente suonata in assenza di umani, ma che, per sua natura, sia spesso suonabile solo dalle macchine stesse, le sequenze di accordi e suoni non producibili “a mano”. Il rock, ovviamente, in assenza di umani che lo eseguono non è ancora stato concepito, l’elettronica, sembrerebbe, sì. Così viene composta, certo da artisti umani, ma negare il fatto che in effetti la parte meccanica sia parte fondante del genere sarebbe un errore palese, ben dicono quanti affermano che la musica elettronica sia roba da robot, e anche in questo l’estetica dei Kraftwerk, non solo loro, ma sicuramente la loro è stata particolarmente iconica, è perfettamente coerente col genere praticato.
Anche qui, sto tagliando l’erba con la falce grossa, senza soffermarmi sui dettagli, senza la precisione che forse la materia necessiterebbe, vi invito a leggere Futuromania di Simon Reynolds, assai esaustivo a riguardo.
Parto da lì, da un capitolo fondamentale di questa raccolta di saggi, “The Mover- Marc Acardipane, PCP Records, e Gloomcore Gabber”, insieme ai successivi “Gas, le visioni germaniche di Wolfgang Voigt” e soprattutto “Historia Electronica”, provando a portare il discorso laddove mi interessa portarlo, le quasi quattrocento pagine di questo libro vi offriranno tutti gli approfondimenti del caso.
Parlando di musica elettronica, dance elettronica nello specifico, infatti, Reynolds sottolinea come le figure degli artisti che in questo ambito rifuggano in ogni modo l’apparire, l’esempio di Acardipane, noto come The Mover e con tantissimi altri nomi d’arte, in questo, è emblematico. Di più, rifuggano il diventare iconici, quintessenza dell’immaginario delle rockstar, ricorrendo molto spesso a miriadi di nomi d’arte sotto i quali pubblicare le proprie opere, spesso facendo proprie versioni delle opere dei colleghi, quasi mai apparendo sotto i riflettori, la musica elettronica, Reynolds si concentra molto sull’ambientazione propria delle discoteche come dei luoghi in cui hanno imperversato i rave, spesso presentata e eseguita in ambienti poco illuminati, se non del tutto bui (nel capitolo successivo del libro, per altro, sposterà la questione sul fatto, a suo dire incredibile, di come i critici musicale che si occupano di dance evitino continuamente di scrivere di come la gente balla i brani dance, negandone in qualche modo l’essenza stessa, ripeto, leggetevelo che merita assolutamente). Certo, il proporsi al pubblico cambiando continuamente nome, ma comunque sempre con nomi presto riconducibili a un medesimo artista potrebbe risultare un giochino per adepti, un modo ulteriore per fidelizzare un pubblico comunque abituato a seguire una musica sufficientemente disumana per non comprendere in sé il virus di una specie di spettacolare alienazione, resta che l’idea di esserci ma non essere riconoscibile al primo sguardo diventa a sua volta una scelta estetica mica da ridere, specie in un’epoca come la nostra, col mito del successo a tutti i costi, spesso anche in assenza di meriti o talenti.
Lasciamo da parte, ripeto, questi sono spunti, non approfondimenti, tutta la faccenda di come certe scene, quella dance elettronica ne è un chiaro esempio, vedano una sorta antagonismo radicale al mainstream mosso più da canoni estetici che politici, il mainstream capace di rendere annacquato tutto quel che tocca, motivo che spesso spinge gli artisti a muoversi a zig zag nel mercato, cambiando appunto nome a seconda del progetto, tanto poi chi deve capire capisce, a me preme provare a capire, o almeno a ipotizzare come questo essere apparentemente invisibili, a volte anche sprovvisti di una identità riconoscibile velocemente e chiaramente, possa essere una modalità di approccio al sistema praticabile oggi, ora, adesso, con la frammentarietà e incertezza che la pandemia ha cristallizzato.
L’invisibilità, quindi, e anche il disinteresse a essere visti da chi si pensa non sia in grado di farlo, forse, su questo si potrebbe in effetti avere da ridire, meriti di poterlo fare. Proprio in questi giorni sta imperversando, c’è chi ne ha scritto definendolo “la nuova droga”, un social che in qualche modo prova a fermare tutto questo e farne la propria sola essenza, Clubhouse. Un social che è una sorta di rovesciamento di quanto ha dominato negli ultimi anni, le foto, i video, le dirette video, si pensi a Facebook, Instagram, Tik Tok, Twitch, affidando alla sola voce il compito di rappresentarci, di essere.
Di più, lasciando alla voce e alla voce ascoltata mentre si palesa, è, impossibile registrare, non prevista la possibilità di recuperare quel che è accaduto una volta che è accaduto. Il tutto in un contesto elitario, fatto di gruppi chiusi cui si accede solo dopo essere stati invitati a accedere al social e nei quali, comunque, a differenza che negli altri social, si può partecipare solo come spettatori, riuscendo a elevarsi al ruolo di parlanti da quello di ascoltatori solo su ulteriore invito, uno non vale più uno.
Molti hanno giustamente guardato a questo nuovo social, nuovo da noi, negli USA gira da oltre un anno, come a una sorta di risarcimento meritato per aver passato tutto questo tempo isolati, lontani da tutto e da tutti, finalmente ci si può incontrare, seppur virtualmente, e passare del tempo a chiacchierare con nostri simili di argomenti spesso inerente il nostro lavoro, ma alcuni, quelli che in genere non si fermano a semplici constatazioni formali, hanno provato anche a indicare una sorta di rigetto per il dominio dell’estetica, questa corsa irrefrenabile al voler apparire che in qualche modo ci ha influenzato un po’ tutti negli ultimi anni. Che in effetti Clubhouse sia conseguenza di questa overdose di foto di piedi e piatti da gourmet, o che sia semplicemente frutto di una costante ricerca di anfratti rimasti vergini, o tornati vergini causa il prolungato e reiterato mancato utilizzo, non saprei dirlo, nei fatti in molti, almeno tra quanti sono chiamati a occuparsi di comunicazione, in questi tempi ostili stanno riscoprendo la voce, il suono, il tutto slegato dall’immagine, dall’estetica, dall’iconografia.
Siccome, però, tutti, ma proprio tutti tutti stanno provando a capire come far fruttare le ore passate su Clubhouse, non c’è giorno che qualcuno non apra una room, così si chiamano gli spazi nei quali si parla e si ascolta, a tema “come fare soldi con Clubhouse”, portando magari gli esempi americani, le stanze con accesso “a pagamento”, quelle con “la mancia”, le sponsorizzate, i product placement, in alcuni gruppi, cioè in quelle room che vengono aperte tutti i giorni dalle medesime persone e che vedono partecipi quasi sempre un numero costante di medesime persone sia tra i parlanti che tra gli ascoltatori, parlo della mia bolla, prevalentemente incentrata su musica e spettacolo, si è cominciato a ragionare su come usare Clubhouse per lanciare un qualche talento. Come dire, già che siamo qua, proviamo a rendere tutto questo utile almeno per chi è in cerca di una platea.
Così ci sono professionisti dello show business che si sono messi a disposizione, mettendo sul tavolo, metaforico, le proprie competenze, chi seguirà la produzione, chi la comunicazione, chi la parte editoriale, e nel mentre è partita una sorta di scouting, con conseguente invasione di materiali. Qualcuno ha anche allestito una sorta di room per provini, a cadenza settimanale, ci si ritrova, ci si ritrovano, io me ne tengo a debita distanza, e si ascoltano emergenti che abbiano cosa da far ascoltare. Se Clubhouse, come un po’ tutti i social, è un non-luogo di augeiana memoria, e come tutti i non-luoghi tende a ricreare le medesime istanze dei luoghi reali, normale che succeda tutto questo.
Anche rassicurante, per certi versi, che succeda.
Quel che io però mi sentirei di dire, non l’ho fatto perché a parlare di musica emergente in questi termini, in genere, mi immalinconisco, è provare a fare un passo oltre, cioè a ragionare su come questo ritorno al suono in assenza di immagine possa far scaturire un qualche progetto artistico, anche emergente, perché no, coerente, che del luogo di partenza diventi quindi in qualche modo simbolo.
Fugando ogni dubbio che chi si presenta a un qualsiasi casting abbia l’idea di voler fare arte per fare arte, senza cioè un riscontro di pubblico, possibilmente di massa, perché altrimenti saremmo in presenza di una sorta di suicidio annunciato, lasciando quindi parte Alban Berg e la sua disperazione raccontata da Adorno per il successo entusiasta riscontrato dalla sua Wozzeck alla premièere, credo che le luci spente sull’estetica da parte di Clubhouse, voce e solo voce, ci indichi nel modello indicato da Reynolds riguardo gli eroi della dance elettronica la strada da intraprendere, non fosse altro perché da che mondo è mondo non esserci è sempre uno dei modi migliori per farsi notare. Senza tirare in ballo il Papa giovane di Sorrentino, il Jude Law assai più visibile finché era in ombra, quell’elenco che passa da Salinger a Mina, toccando i Daft Punk a dimostrare come l’invisibilità sia un valore, proprio perché in epoca di iperpervasività dell’immagine, di sovranità dittatoriale dell’immagine. Certo, a voler essere radicali toccherebbe rinunciare anche al nome, e questo Clubhouse non solo non lo prevede, ma dubito sarebbe sensato aspettarselo, ma già provare a disegnare un progetto che esuli dall’apparenza, costringendo tutti gli attori tirati in ballo a acuire gli altri sensi, esattamente come da immaginario consolidato ben sappiamo sono costretti a fare coloro che sono sprovvisti di vista, sarebbe quantomeno interessante.
Mai quanto arrivare a parlare di Clubhouse dopo essere partiti dalla dedacofonia, Berg e Adorno, e esser passati per la dance elettronica e Marc Acardipane, comunque, spero che almeno su questi siate tutti d’accordo.