Mi sento svuotato. Succede. È sempre successo. Ultimamente succede più spesso. Mi metto davanti al Pc, che poi è il mio posto di lavoro, un posto ballerino, variabile, come funzionava per le case di Marvin Gaye, lui era a casa laddove appoggiasse il suo cappello, per me il posto di lavoro è dove appoggio il mio Pc, su un tavolo, sulle mie gambe, è vero, ma intendevo metaforicamente, se è appoggiato a un tavolo il mio ufficio è dove si trova quel tavolo, che sia il mio studio, cioè dove ero uso lavorare finché causa pandemia mia moglie Marina, in smart working dallo scorso 6 marzo, me lo ha spodestato, che sia una qualsiasi altra stanza della mia casa, come della casa di Ancona, quella nella quale passo in genere parte delle vacanze, non le ultime di Natale, per noi milanesi, ma anche un tavolinetto del Libeccio, al mare, uno scoglio frangiflutti a Portonovo, o un qualsiasi altro luogo in giro per il mondo nel quale io mi sia ritrovato a scrivere, in genere quando viaggio porto dietro il tablet, un tempo portavo quaderni e diari, mi siedo quindi davanti al Pc e invece di iniziare a scrivere, tutto quello che metterò su pagina ben in mente, magari non proprio parola per parola, ma sicuramente tutti gli snodi narrativi, tutti i passaggi, tutti i contenuti, da dove voglio partire e dove voglio arrivare, oltre ovviamente quel che ci sta nel mezzo, invece di iniziare a scrivere, operazione che mi porta via qualche tempo, un’ora, non di più, in genere, anche se con tutto il tempo che la pandemia mi ha concesso, niente progetti che prevedano io me ne vada in giro per la città, la regione, la nazione, il mondo, molte meno telefonate di prima, zero amici da incontrare al bar o in studio di registrazione, con tutto il tempo che la pandemia mi ha concesso, appunto, posso prendermi anche delle belle pause nel mezzo, tanto so subito far ripartire il ritmo, e se quel ritmo non riesco a riprenderlo ne prendo un altro, devio, sussulto, rallento, accelero, tutto quel che serve, operazione che mi porta via qualche tempo ma che non incontra quasi mai intoppi, certo, a volte arrivano chiamate inaspettate, arriva un qualche familiare a chiedermi qualcosa, rispetto al me stesso di prima, che scriveva solitario in casa da un anno a questa parte non siamo mani meno di tre, quattro, a volte tutti e sette in casa, tra smart working, dad e mia suocera che causa Covid non è più rientrata nella sua casa di Ancona, salvo la pausa estiva, troppo rischioso azzardare una gestione di una qualsiasi emergenza quando si è a quattrocento chilometri e passa di distanza, e lei in Ancona non ha parenti, fatta eccezione per i mie genitori, comunque entrambi ultraottantenni, mi metto davanti al Pc e invece di iniziare a scrivere ho il vuoto, lo spaesamento, un senso di svuotamento che fatico a decifrare, e che comunque non so gestire.
Intendiamoci, non sono tipo da lasciarsi fregare dalla sindrome da pagina bianca, credo che riempire quella pagina, quella qualsiasi pagina, sia il mio mestiere, che è anche la mia arte, e che il mio mestiere e la mia arte non preveda il blocco dello scrittore, solo chi non ha deciso che nella vita la propria arte sarebbe anche stata la propria fonte di sostentamento si può permettere una condizione del genere, vita da boheme, strappi di tosse da tisi, morte certa, non fa per me, quando sono quindi poco ispirato, capita, ci mancherebbe altro, lascio che sia il mestiere a far il suo sporco lavoro, scusate il gioco di parole infantile, sopperendo col talento e l’esercizio a certe momentanee assenze di idee.
Lo svuotamento di cui parlo, quello che mi capita sempre più spesso di incontrare è qualcosa che esula dal mio semplice essere o non essere in grado di mettermi a scrivere, ma che non manca di impedirmi anche di scrivere, effetto e non causa, quindi, perché a parte il saperlo e poterlo fare c’è anche il volerlo fare, passaggio non irrilevante.
Mi sento svuotato perché è troppo tempo che questa situazione sta andando avanti.
Mi sento svuotato perché non abbiamo idea, un’idea non solo precisa, ma neanche vaga, di quando tutto questo finirà.
Mi sento svuotato perché non so cosa succederà una volta che tutto questo sarà finito, da dove ricominciare, cosa ricominciare, con chi.
Mi sento svuotato perché ho sempre concepito la vita come un susseguirsi di progetti, familiari, professionali, corali, progetti che si iscrivevano dentro un progetto assai più grande che di tutti quei progetti si componeva, mia moglie Marina al mio fianco, o io al suo fianco, fate voi, una carriera da portare avanti accostandola a tante sfumature, deviazioni, declinazioni, e oggi come oggi tutto questo sembra non avere un orizzonte che vada oltre il calare del sole quando arriva la sera.
Intendiamoci, non penso che questo lungo incredibile e terrificante anno sia la fine, o il preambolo di una fine, come ci ha insegnato lo strepitoso Jeremy Irons protagonista de Il Danno, la vita va sempre avanti, anche quando pensiamo sia impossibile, figuriamoci quando l’impossibile non riguarda solo noi ma praticamente tutto il genere umano, ma vedo a fatica il futuro, e tutto questo mi lascia atterrito, spiazzato, basito.
Ora, potrei fingere che quel che avete letto fin qui, questo mio procedere ubriaco, malinconicamente disperato, sia frutto dell’emotività di un momento, che, cioè, io abbia lasciato che a guidare le mie mani sulla tastiera siano stati più l’impulso e una forma di ossessiva volontà di esserci sempre e comunque, come io fossi il Jack Torrance custode dell’Overlock Hotel interpretato da Jack Nicholson in Shining, il mattino ha l’oro in bocca, il mattino ha l’oro in bocca, il mattino ha l’oro in bocca, nei fatti, lo dicevo neanche troppo tra le righe, quando mi metto davanti al Pc, e io ora sono davanti al Pc, nello studio, mia moglie al momento è in altra stanza della casa, l’orario non è quello di lavoro, sempre che lo smart working preveda in effetti un orario di inizio e fine lavoro e non sia piuttosto una interminabile settimana lavorativa spalmata su sette giorni, ventiquattro ore al giorno, condizione che noi artisti del resto ben conosciamo, il guardare fuori dalla finestra e farlo capire alla propria moglie di conradiana memoria, quando mi metto davanti al Pc ho sempre ben in mente da dove voglio partire e dove voglio arrivare, e anche quel che metterò nel mezzo, seppur certe volte sia il mestiere a guidare le danze, altre l’ispirazione al servizio del mestiere, il talento a fare da tutor.
Volevo partire da me che sono svuotato, perché così è, tutto vero, sacrosanto, sincero pur nella finzione della narrazione, volevo rendere il tutto con questo mio parlarmi addosso, parole che si incastrano su parole come in una scala di Escher, o negli omini di Keith Haring, i contorni spessi e stilizzati che si incastrano, tra sudore, lacrime e umori vari, così, tanto per volerla vedere un po’ più pop e un po’ meno cupa, volevo poi passare oltre, dimostrato come avevo di poter comunque mettermi a scrivere qualcosa, le oltre mille parole che avete appena letto ne sono prova provata, cambiando il tono del discorso, alleggerendo il ritmo, concedendo un po’ di respiro, fisico e emotivo a voi che state leggendo, una di quelle soste di cui ho sempre disseminato i miei scritti, pause in piazzole per fare la pipì e sgranchirsi le gambe, oltre che prendersi quei caffè necessari a non addormentarsi durante il resto del viaggio, ancora lì da finire, il tutto atto a ripartire per l’ultima decisiva tappa, quella che dovrebbe unire tutti i puntini di cui ho disseminato questo capitolo, l’ultimo sguardo, il gran finale, che consenta un ulteriore sorpresa, il panorama mozzafiato che ci tiri fuori di bocca il WOW esclamativo.
Credo che un diario abbia un po’ questo senso qui, e il mio usare esattamente questa frase, “un po’ questo senso qui”, qualcosa di talmente gergale, colloquiale, discorsivo, da rasentare la sciatteria, biascicato come la voce di Madame che rappa di sciccherie, neanche fossi il Ministro dell’Istruzione che svariona il giorno del suo insediamento, è un modo anche troppo telefonato di segnare uno stacco, il mio sottolinearne la matrice metanarrativa un vezzo riconoscibile, come a dire, tranquilli, sono svuotato e tutto, ma so ancora come si scrive e non sarà certo un improvviso svuotamento a far venire meno la mia verve postmodernista, amici.
Un diario ferma l’attimo, la giornata, la parte di giornata e quel che di significativo, universalmente o specificamente, in quella parte è successo. Certo, questo non è un vero diario, perché un diario di sua natura è scritto per non essere letto da altri che da chi lo tiene, da chi ci scrive sopra, sempre che poi uno torni a leggere quanto scritto sul proprio diario, al limite per essere letto di nascosto da certe mamme, prima che ci fossero gli sceriffi di era Covid, quelli pronti a fare foto e segnalazioni di quanti eludono le regole, le violano bellamente, esistevano già le mamme, pronte a indagare, scoprire, provvedere a tutto quel che ruotava intorno al mondo dei propri figli, mentre io scrivo sapendo di essere letto, compiaciuto, certo, dal saper di essere letto, ma altrimenti del tutto disinteressato a scrivere, perché non scrivo certo come sfogo o per fermare su pagina pensieri che penso un giorno mi potranno tornare utili, quanto perché scrivere è la forma d’arte che ho scelto, o che ha scelto me, non ho mai ben capito, e anche, coincidenza, il mio mestiere.
Ciò nondimeno anche questo diario parte da quel che succede, a me, la mia famiglia, intorno a me e la mia famiglia, ma anche al mondo della musica, al mondo in genere, l’Italia più nello specifico, l’attualità a entrare e uscire compulsivamente dalla pagina come un organo sessuale maschile nell’atto della copula, Dio mio che brutta immagine sono andato a scrivere, i miei sentimenti, quelli che decido di condividere sulla pagina e di conseguenza col lettore, o quelli che penso che, seppur non del tutto veri, siano congeniali alla mia narrazione.
Ci sono cascato di nuovo, ho sottinteso che non tutto quello che mi capita di scrivere corrisponde al vero, o almeno sia del tutto vero, e l’ho fatto lasciando intendere, anzi, dichiarandolo proprio, che ciò capita per mere questioni narrative, come se io fossi un cinico baro che non si fa problemi a giocare sui sentimenti propri e della propria famiglia, e anche di chi mi legge, cioè voi, tu, la ragion di stato che detta le regole a discapito di un’etica evidentemente vacillante, ma, ve la butto lì, te la butto lì, magari questo è solo un mio tentativo, a questo punto azzarderei un tentativo piuttosto riuscito, di mostrarmi meno debole e fragile di quanto io non sia, vedi che tosto che è ‘sto Michele, finge di essere spaesato e confuso a nostro beneficio, a mio beneficio, capito che paraculo?
Del resto si scrive a partire da una ispirazione, certo, suggestioni e intuizioni a fare da contorno, ma si scrive anche per essere letti, certo, se no questo sarebbe appunto un diario vero, di quelli che scrivi a penna e poi lasci lì, chiusi dentro cassetti che nessuno aprirà mai.
Nello scrivere, si può o meno decidere di inseguire il mercato, chiamiamolo così, stare cioè nel flusso della moda, nel solco del mainstream, provando a incontrare il gusto omogeneizzato del grande pubblico, o volendo anche tra le solide pareti di una nicchia, piccola fortezza capace di resistere agli urti esterni, è una questione studiata dalla fisica, le leve lunghe, le leve corte, la forza che serve per spostarle, vezzi e vizi a volte possono diventare stile, marchi di fabbrica, linguaggio comune che ci permette di parlare con una determinata porzione di persone sapendo di essere capiti, più raramente si può provare a costruire uno stile proprio, costruire un canone inesistente, lasciando che sia il pubblico a costruirci intorno una nicchia, o magari anche non una semplice nicchia.
Su tutto la variabile imbizzarrita del proprio ego, perché è innegabile che il compiacimento che si prova a essere seguiti, amati, adorati, nel mio caso anche lo stare sul cazzo a un così ampio numero di gente, comunque lì a leggermi, divisivo come sono, pesa eccome, sarei un bugiardo dicessi il contrario. Cercare quello, non tanto il successo, mainstream o di nicchia, quanto l’essere riconosciuto dal pubblico, non è un fattore irrilevante, dare al pubblico quel che ci si aspetta il pubblico da noi è una forma di narcisismo assai più frequente che sperare che il pubblico ci capisca anche nel momento in cui noi pensiamo di aver avuto una intuizione particolarmente originale e unica.
Dato tutto questo per assunto, quindi, stiamo per risalire dopo la sosta, il sapore amaro del caffè ancora in bocca, l’aria pungente nel tragitto tra autogrill e la nostra macchina che ci regala un’ulteriore dose di sveglia, non posso non notare come praticamente nessuno, oggi, almeno in Italia, e almeno in Italia nella musica, stia includendo l’attualità nella propria narrazione, nella propria poetica.
Non trovo il Covid, non trovo la pandemia, non trovo la paura per l’incerto, non trovo l’isolamento, non trovo il senso di apocalisse, niente di tutto questo ha trovato asilo nelle canzoni che stanno uscendo e sono uscite nel corso di questi ultimi mesi.
Lo avevo già sottolineato la scorsa estate, quando in effetti un barlume di luce si stagliava all’orizzonte, mentre ci si aspettava che di colpo la nostra musica fosse attraversata da una profonda riflessione sui fatti, o quantomeno da un ottimismo che però facesse i conti con la contingenza, ci siamo trovati invasi dalle solite canzonette vacue, tutte nomi di cocktail e di città più o meno esotiche.
Certo, dicevano tutti, abbiamo bisogno di evasione, di lasciarci tutto questo alle spalle, e magari era anche legittimo farlo, solo che non credo che ci possa essere solo evasione, e mai nessuno che si prenda la briga di fotografare le alte mura delle prigione che ci tiene reclusi. Certo, azzardavamo, si può sconfiggere il male anche senza nominarlo, il bello lì a sublimarlo, ma la luce senza ombre non concede prospettive, questo ce lo insegnano già nelle ore di disegno annoiate e inutili delle scuole medie.
Sono passati mesi, tanti, e pur dando per assodato che alcuni dei lavori che escono, alla spicciolata, siano in realtà stati scritti, incisi e prodotti prima che tutto questo cominciasse e fosse anche solo lontanamente presumibile, fermi ai blocchi di partenza inizialmente in attesa di tempi migliori, e poi tirati fuori perché i tempi migliori non è detto che arrivino tanto presto, è davvero difficile pensare che nessuno, o quasi, sia riuscito a fermare su spartito, Dio mio, spartito… chissà se esiste ancora qualcuno che scrive le canzoni usando gli spartiti, quello che stiamo vivendo.
Anche perché, andrà tutto bene, ce la faremo, ne usciremo migliori, tutto molto bello, ma siamo così sicuri che la gente non abbia necessità di trovare le parole, anche solo le parole in musica, per raccontare quello che a ben vedere, almeno a livello collettivo, è l’anno più terribile e anomalo che abbiamo vissuto?
Siamo sicuri che preferiscano sentir parlare di amore, di vita di tutti i giorni, ma una vita di tutti i giorni che non sia la nostra attuale vita di tutti i giorni?
Non dico che, come Grey’s Anatomy, si debba rivedere tutta la linea narrativa inserendo di forza l’arrivo del Covid, seppur, lo dico senza paura di smentita, trovo che le puntate della diciassettesima stagione della serie principe di Shonda Rhimes sia qualcosa di meraviglioso, e per altro in grado, ancora una volta, di affrontare la realtà e l’attualità evidenziando aspetti che altrimenti sarebbero sfuggite ai più, come per esempio si può constatare rispetto a come negli USA abbiano vissuto la pandemia, col cazzo che non hanno fatto lock down, non hanno indossato da subito mascherine e non sono rimasti come noi impigliati in questo incubo, e soprattutto come il Covid abbia colpito in modo particolare, lì, la comunità afroamericana, con numeri percentuali decisamente più alti di quelli rilevati dalla comunità bianca, aspetto che per ragioni numeriche da noi è ovviamente sfuggito, ecco, non dico che si debba fare come Grey’s Anatomy, ma neanche far proprio finta di niente, in questa sorta di revisionismo storico in presa diretta che ci fa vivere in un mondo della canzone che mai come oggi si fa canzonetta, tutta argomenti effimeri e poco ancorata alla realtà di tutti i giorni.
Quando ho letto, non sono andato ai preascolti riservati alla stampa in RAI, l’ho già detto, che i testi del Festival non parleranno di Sanremo, e l’ho letto come una rivendicazione, quasi un voler dire, almeno nelle canzoni il Covid non è entrato, sono rimasto sconcertato, perché le canzoni, quasi mai quelle del Festival, è vero, ma l’arte in generale dovrebbe servire anche a fornirci gli strumenti per affrontare certi passaggi non proprio brillanti del nostro vissuto, siamo lasciati dalla fidanzata, ecco che quella canzone ci fa trovare le parole, ci fa sublimare il dolore, ci aiuta a superarlo, nessun avesse messo il dolore dell’abbandono dentro i propri testi a quest’ora non avremmo avuto una buona porzione della nostra discografia, è ho fatto davvero il primo esempio sciocco che mi è passato per la testa, perché mai dovremmo giubilare per questo silenzio assordante rispetto quel che stiamo vivendo? È troppo presto per parlarne? Diamine, abbiamo un genere musicale, forse l’ultimo vero genere musicale arrivato dopo un turn over tra generi che ha ogni cinque anni circa cambiato il corso del fumo, il rap, che proprio sulla capacità di essere in grado di raccontare l’oggi e l’oggi di noi comuni mortali ha costruito la propria credibilità, il biografismo elevato a unica via percorribile, come è possibile che neanche il rap si stia applicando, salvo debite e rarissime eccezioni, penso al vecchio Frankie Hi NRG MC a fermare su traccia quel che succede?
Nel mio piccolo, io non scrivo canzoni, continuerò a farlo, e nel farlo continuerò a evocare che anche i cantanti inizino. Visto mai che qualcuno mi starà a ascoltare?