Da circa un anno a questa parte, con la parentesi felice di questa estate, una estate comunque assai diversa dalle altre, molto meno sociale o comunque sociale in maniera assai diversa, gli unici rapporti “in presenza” che intrattengo con persone che non siano parte del mio nucleo familiare, quelli coi quali convivo, è quello coi genitori dei compagni di classe dei miei figli gemelli, nove anni, quarta elementare. Parlo di rapporti di persona, non casuali come quelli dei cassieri del supermercato o del fattorino che mi consegna un pacco, rapporti di persona e quindi anche non di quelli tramite telefono o altri apparecchi, che fortunatamente sono sempre continuati.
In assenza della possibilità di incontrarsi per faccende lavorative, le faccende lavorative sono del resto ridotte all’osso, e in assenza della possibilità di fare cene o pranzi con gli amici, la sera abbiamo addirittura il coprifuoco, non rimangono che quei pochi minuti prima dell’ingresso o dell’uscita da scuola, le mascherine a coprire parzialmente il viso, gli occhi a sopperire ai sorrisi.
Giorni fa, mentre aspettavo che uscissero i gemelli, l’orario causa pandemia è stato anticipato alle 16:15, così che con gli scaglioni non ci si ammassi tutti davanti ai cancelli alla stessa ora, con un po’ di questi genitori, tutte mamme tranne me, si parlava di una piccola querelle interna alla classe di mio figlio Francesco. Non entro nel merito, non è importante, a dirla tutta non ho neanche ben capito di che querelle si tratti, lui, che è uno che racconta davvero tutto, anche troppo, esuberante come è, non ce ne ha fatto cenno. Le mamme sembravano tutte piuttosto addentro alla faccenda, qualcuna divertita, qualcuna preoccupata. A un certo punto, però, una mamma racconta di come suo figlio, anche a causa di questa querelle, sia stato “attaccato”, prendete questa espressione con tutte le molle del caso, stiamo parlando di bisticci tra bambini, da due compagne. Le due compagne, di cui non ha fatto il nome, si è capito, erano le figlie di due delle mamme presenti, non troppo complicato fare uno più uno. Anche qui, non è rilevante. A quell’età che maschi e femmine si malsopportino è abbastanza comune, come è comune, magari, che si creino grandi legami anche tra sessi diversi, certamente. In genere, però, i maschi stanno coi maschi, magari a parlare di calcio, le femmine con le femmine. C’è una certa tendenza a fare vita a parte, separate.
Non sto affrontando questa faccenda per parlare di generi, niente a che vedere con le femmine che giocano con le bambole perché qualcuno le forza a sviluppare uno stato materno e subalterno ai maschi, niente a che vedere coi colori rosa e azzurro, se è questo che cercate andate altrove.
Di fatto questa mamma dice che lei ha provato a rincuorare suo figlio, dicendogli: “Non ti preoccupare, quando ti criticano così fortemente è perché in realtà ti desiderano.”. Una specie di rivisitazione del classico adagio “se ti criticano vuol dire che ti notano”. Ci siamo cresciuti con questa frase, ce la dicevano le nostre madri, parlo per chi, come me, è cresciuto in un’epoca e una società nella quale le madri stavano prevalentemente a casa e i padri, come in certe pubblicità di ConfCommercio oggi, uscivano di casa la mattina per andare a lavorare e rientravano la sera stanchi, non si legga queste parole come inno al patriarcato, tutt’altro, ma come mera cronaca dei fatti.
Se ti criticano ti notano, ti desiderano. Non quindi una critica per rosicamento, questo concetto mi sembra più attuale che passato, quanto una critica per incapacità di dichiararsi, come solo modo per esternare il proprio interesse, il proprio desiderio.
Al momento, avendo una innata passione per la battuta, e anche una certa capacità di tenere in piedi una discussione anche tra gente che alla fin fine si frequenta quotidianamente senza mai entrare troppo in confidenza, ho provato a smorzare i toni un filo seriosi, si stava pur sempre parlando di bisticci tra bambini, dicendo qualcosa come: “Occhio a insegnare ai propri figli che chi ti critica lo fa perché in realtà ti desidera, potrebbe succedere che ci credano e poi nella vita si ritrovino a vivere situazioni sgradevoli, l’imprinting è tutto”.
Una battuta che ha riscosso un certo successo.
Cui ho poi aggiunto altre facezie, come il dire, “Vedrete poi quando saranno adolescenti,” chiosando che avrei potuto dar loro consulenze a riguardo, per la modica cifra di trecento euro l’ora. Il tempo di fare una pausa, studiata, per poi aggiungere, “Anzi, no, facciamo così, trecento per chi ha figli maschi, quattrocento per chi ha figlie femmine”.
Si tirano le tende, applausi.
Battute leggere per ingannare i pochi minuti che dividono il suono della campanella dalle reale uscita da scuola, poi arrivano i bambini, ci si saluta e la cosa rimane ovviamente lì. Almeno credevo.
Probabilmente, avessimo solo Francesco, io e Marina, avrei fatto qualcosa di simile a un terzo grado al nostro piccolo, per farci raccontare per filo e per segno i dettagli di questa scaramuccia, ma nei fatti di figli ne abbiamo quattro, e di scaramucce ne gestiamo già abbastanza in casa, ho chiesto come era andata la giornata a scuola, abbiamo iniziato a parlare d’altro e la faccenda è finita lì.
Ieri però è successa una cosa che mi ha fatto riflettere.
Di mattina, all’ingresso di scuola, Marina è venuta con me a accompagnare i gemelli. Lo fa spesso, ma per questioni di lavoro non lo faceva da inizio anno, una call fissata in orario antelucano, alla faccia dello smart working. La sua presenza dopo qualche settimana ha ovviamente attirato le altre mamme, Marina è molto più solare di me, credo non faticherete a credermi. Le hanno fatto le feste, direi, si trattasse di bambini, nei fatti si sono in molte messe a parlare con lei. Io, per pudore e perché sono un megalomane narcisista, ma sono anche uno che a volte vorrebbe essere su un’isola deserta, mi sono tenuto un po’ in disparte. Da una parte non volevo rubarle la scena, ma più che altro non avevo gran voglia di interagire con altre persone. Ho indossato la faccia da orso, complice la mascherina, e me ne sono rimasto in disparte.
Sono una brutta persona, non serve che me lo ricordiate.
Una delle mamme, però, mi si è avvicinata. Era presente anche alla chiacchierata sulle scaramucce di classe. È una persona estremamente solare, una che sorride sempre, lo si capisce anche con la mascherina, e che quindi ha la rara capacità di metterti di buonumore, perché la solarità, mia moglie Marina è esattamente della stessa tipologia di persone, è una dote preziosa. Mi si avvicina e mi dice che ha molto riflettuto su quello che ho detto l’altro giorno. Anzi, ha iniziato dicendo, “Michele, devo dire che sei una persona molto saggia,” salvo poi proseguire dicendo che ha molto riflettuto su quello che ho detto l’altro giorno.
Ovviamente io non ricordavo cosa avevo detto l’altro giorno, seppur i rapporti interpersonali dal vivo siano ridotti davvero all’osso non sempre ho memoria delle battute che faccio, perché quello credevo di aver fatto, di aver detto una innocua battuta. Lei, invece, la mamma di una compagna di classe di mio figlio Francesco mi ha avvicinato dicendomi che ha molto riflettuto su quel mio dire che bisogna stare attenti a credere che chi ci critica lo fa perché ci desidera, che è poi quello che ci hanno ripetuto allo sfinimento da piccoli, lei è parecchio più giovane di me, ma in qualche modo fa parte della mia generazione, “Bisogna stare attenti,” mi ha detto, “perché magari finisce che ci crediamo, e poi finiamo per sopportare chi ci critica pensando che quello sia amore, o peggio, il solo amore possibile, invece che cercare chi quell’amore ce lo dimostra nei fatti e anche con le parole.”
La cosa mi ha colpito, parecchio.
Non perché io non ritenga di essere saggio, sono pur sempre il megalomane narcisista di cui sopra, so essere molto divertente ma anche molto profondo, a volte allo stesso tempo, ma perché in quello specifico passaggio cercavo più di far sorridere che di far riflettere, credo. Non avevo capito di aver detto qualcosa di in effetti importante.
A prescindere dal dettaglio, non irrilevante, che magari in alcuni casi potrebbe anche essere che chi ti critichi voglia in realtà dimostrarti attenzioni, il suo sia una modalità di approccio dettata dalla timidezza, un primo passo, mettiamola così, cui deve però seguire altro, stiamo parlando di critiche scherzose, battutine, roba da innamoratini scemi, un passaggio all’interno di una manovra assai più complessa, il corteggiamento, dimmi tu se mai avrei creduto che un giorno mi sarei trovato a parlare di corteggiamento proprio io, che di corteggiamenti non sono affatto esperto, ve lo dicevo ieri, in vita mia ho amato solo una donna, Marina, con cui sto da trentatré anni, direi che il discorso di Carlotta, questo il nome della mamma di cui sopra, non fa una piega, e quindi, ovviamente, che non fa una piega quello che ho detto io. Non dovremmo mai pensare che chi ci critica, intendendo con critica non qualcosa atto a migliorarci ma a privarci delle nostre certezze, lo faccia perché tiene a noi, dovremmo piuttosto provare a cercare chi ci palesa chiaramente il suo bene, magari all’occasione anche criticandoci, ma non criticandoci e basta.
So che detta così sembra quasi una versione estesa dei versi che Herbert Pagani ha scritto per Teorema di Marco Ferradini, roba talmente ovvia che nessuno fino a quel momento si era sognato di fermare su carta e spartito, fatto che ha reso quella canzone, ancora oggi, un ever green, una delle nostre canzoni pop più amate, quel “prendi una donna, trattala male” contrapposto al “prendi una donna, dille che l’ami”, versi che per altro oggi verrebbero a prescindere accusati di patriarcato, strano che non lo abbiano già fatto, il verbo “prendere” assolutamente inaccettabile, violento e sessista, direbbero, ma ma nei fatti credo che insegnare alle persone a cercare di volersi bene e di conseguenza a cercare chi dimostra lo stesso tipo di sentimento sia cosa buona e giusta, lungi da me spostare il discorso su temi seri, e che in quanto tale necessitano spazi consoni, quali il femminicidio o la violenza sulle donne, e anche quelli su come il femminicidio e la violenza sulle donne siano spessi trattati malamente dai media, i troppi “è stata uccisa per amore” o giri di parole affini che a volte infieriscono sui cadaveri per la loro assolutoria superficialità, ma nei fatti credo che questa tipologia di educazione sentimentale, fatemela chiamare così, andrebbe praticata con più costanza, sono un uomo saggio, è vero, anche a mia insaputa, a volte.
A questo punto, immagino, qualcuno avrà iniziato a pensare che io abbia raccontato questo aneddoto, magari chiedendosi pure se sia reale o frutto di una mia fantasia narrativa, per introdurre a un certo punto altro, qualcosa di più riconducibile a me e a quello di cui solitamente scrivo, la musica, cioè che io abbia raccontato questo aneddoto, vai a sapere se vero e inventato, per affrontare l’annoso tema della critica musicale e della critica musicale intesa come critica costruttiva vs critica negativa. Ne ho parlato più volte, e a prescindere che io ne parli è tema piuttosto discusso, sicuramente uno dei refrain più abusati tra quanti vogliono provare a smontare il lavoro di chi intende la critica come analisi, non certo come consulenza o, peggio, come marchetta.
Siete fuori strada.
Non intendo legare un tema importante, ho appena evocato femminicidi e violenza sulle donne, a mere chiacchiere da bar, perché chi invoca la critica costruttiva quello sta facendo, chiacchiere da bar. Certo, la musica è il sottofondo costante, anche necessario, di questo mio diario, punto di contatto tra noi oggi e i noi che eravamo prima della pandemia, ma passare a parlare dal bisogno di sentirsi voluti bene al sacrosanto diritto di chi critica di non puntare a costruire alcunché mi immalinconirebbe oltremodo, oltre che attestare ineluttabilmente il mio essere un megalomane narcisista tutt’altro che saggio. Ripeto, siete fuori strada.
Oggi vorrei semmai provare a indicarvi un nuovo lavoro, un album uscito pochi giorni fa, un album di una cantautrice di appena venti anni, e già mettere nella stessa frase album e venti anni sembra una specie di miracolo, perché è un lavoro non solo di una incredibile bellezza e raffinatezza, ma anche un lavoro che affronta nei testi temi assai vicini a quelli fin qui trattati, quali il volersi bene e il pretendere che chi si relaziona a noi ce ne voglia.
Parlo di Arlo Parks, artista di West London e del suo Collapsed in Sunbeambs, dodici incredibili tracce che arrivano all’inizio di questo stralunato 2021, dopo che il 2020 l’ha vista incoronata all’unanimità dai media inglesi come The Next Big Thing, due EP pubblicati, una manciata di copertine e nomination, oltre che l’endorsement di colei che più di ogni altra è oggi l’artista giovane e di successo per antonomasia, Billie Eilish.
Partiamo appunto dai testi, la stessa Arlo sembra volerci indicare questa soluzione di interpretazione, questo codice da consultare per entrare in contatto con lei, nell’intro sotto forma di speech che regala il titolo all’album, nei fatti una citazione della sua illustre concittadina Zadie Smith, scrittrice di grande sensibilità e talento, un modo anche anomalo per farci entrare nel suo mondo, con la richiesta informale di non opporre resistenza, quell’invito a lasciarci andare al pianto posto in conclusione.
I testi di Arlo Parks, al secolo Anais Oluwatoyin Estelle Marinho Parks, sono pura poesia concentrata, una lingua precisa, dosata con cura, mai eccessivamente ricercata ma anche mai piatta, toni che non finiscono nel tragico anche quando raccontano storie pesanti, ricordiamo i venti anni, la depressione compagna di strada, la speranza, quella cantata in Hope, insieme a Coraline la canzone più bella dell’intero lavoro, l’una propositiva l’altra tremendamente oscura, costantemente inseguita o comunque vagheggiata.
Storie di vita ordinaria, quelle cantante da Arlo Parks, ma una vita ordinaria che si tinge di straordinarietà proprio per quella capacità di essere sempre e costantemente vera, anche quando magari non di autobiografismo si tratta, vallo a sapere, sempre che sia importante saperlo.
Una sorta di inno cantato sottovoce al volersi bene, all’accettarsi per quel che si è, con le fatiche del caso, certo, ma anche con la consapevolezza che nel guardarsi le cicatrici è parte del nostro conoscersi. Accettarsi, quindi, in tutto e per tutto, su questo Eugene è emblematica, una lunga lettera d’amore a una amica cui la protagonista svela i suoi sentimenti mai palesati finora, e al voler essere accettati, amati.
Il tutto condito con un sound e degli arrangiamenti, frutto delle sapienti cure di Gianluca Buccellati, che con Arlo Parks firma anche tutti i brani, che riescono a spostare un po’ più sul fronte new-soul, jazz e R’n’B, certo con intenti pop, i riferimenti colti non sono mai ostentati o fuori posto, quelli che fin qui si erano imposti come colori più decisamente folk, le incisioni decisamente più casalinghe lo avevano forse imposto, al momento usciti di scena.
Qualcosa di vero, quindi, e di contemporaneo, dentro il quale la voce calda e per certi versi non eccezionale della cantautrice inglese si fonde alla perfezione con le note invece ricercate, a creare un mix tra colto e familiare, universale e particolare, davvero centrato. Quasi mai, la storia della musica ben ce lo insegna, le grandi aspettative dei media trovano riscontri nella realtà, il caso di Celeste, Not Your Muse, in qualche modo ne è riprova. Non che sia un brutto album, anche quello dodici tracce, anche quello con i medesimi riferimenti musicali e culturali, intendiamoci, ma sicuramente l’hype che ne ha accompagnato l’attesa non ha trovato riscontri altrettanto notevoli, anche lei con riferimenti al soul e al jazz, anche lei con un modo di affrontare la composizione delle canzoni decisamente vintage, con in più rispetto a Arlo una voce decisamente più caratterizzante, duttile, notevole, però incapace di andare oltre la lezione di stile, dell’esercizio di stile, come se tutto fosse appoggiato proprio sulle capacità vocali e su certe suggestive similitudini timbriche con voci importanti del passato, da Billie Holiday a Nina Simone, ma senza il coinvolgimento del cuore, nell’incapacità quindi di creare empatia con l’ascoltatore. Tutto un po’ finto, in questo caso, e in quanto finto, o forse dovrei dire non vero, poco metabolizzabile, un buon sapore da tenere in bocca il tempo di mandarlo giù e dimenticarsene, forse per sempre.
Non ha bisogno di trucchi Arlo Parks, né le sue canzoni, per certi versi tanto poco artificiose da rasentare quasi la semplicità estrema, a tratti la banalità. Ma invece dirette, perché a volte davvero il punto più veloce per andare da A a B è la linea retta, e quella linea retta può permettersi, deve permettersi, di presentarsi senza troppe sovrastrutture. Come certe verità, mi verrebbe da chiosa, che a volte possono passare anche da una battuta stupida, fatta per spirito di intrattenimento mentre si aspetta che i bambini escano da scuola, la campanella suonata da poco. Parole cariche di significati talmente profondi da sfuggire anche all’orecchio di chi le ha pronunciate, ma non per questo meno vere di quelle ricercate e a effetto di certi slogan. Non fidatevi di chi vi dice che vi critica perché vi vuole bene. Imparate piuttosto a amarvi, una speranza c’è, anche se magari vi toccherà andarla a cercare pazientemente.