Non parlerò della querelle Lukaku-Ibrahimovic.
Mi immalinconirebbe troppo farlo.
Trovo che le accuse di razzismo piovute su Ibra siano ridicole, come trovo che il fatto che stia antipatico a buona parte dei tifosi delle squadre con cui ha giocato stia spingendo molti a parlare mossi dall’antipatia, appunto, più che dall’obiettività.
Anche quelli che parlano di fatto antisportivo mi immalinconiscono, si sappia. Scontri del genere sono normali, nel calcio, chi lo nega non ha mai giocato una partita in vita sua.
Quindi no, non dirò che penso che a aver dimostrato la sua piccolezza come uomo e calciatore sia stato Lukaku, uno che per altro a Ibra non dovrebbe neanche allacciare le scarpe, preferisco tenermi i miei giudizi per me, seppur di Ibrahimovic andrò a parlare, i titoli non si trovano lì per caso.
Giorni fa ho letto una notiziola. Le notiziole sono quelle che, in genere, occupano le colonne di destra dei giornali, e sui siti si trovano in una sezione apposita, quelle che non sono vere e proprie notizie, sono un po’ meno di una notizia e sono più curiosità o sciocchezze, spesso incorniciate in titoli acchiappaclick e con video di supporto. La notiziola in questione, e qui sta il motivo per cui l’ho letta e ora la cito, riguarda Zlatan Ibrahimovic.
Io adoro Ibrahimovic, lo vorrei alla guida del governo, del mondo, dell’universo, quindi quando trovo qualcosa che lo riguarda, in genere, mi ci soffermo. Di più, provo a trarne non tanto giovamento, le notiziole sono mezzi di distrazione di massa, quanto piuttosto di ricavarne un qualche insegnamento, come quando ci capita di leggere una citazione de Il profeta di Gibran o altre facezie del genere. Ognuno hai i filosofi che si merita.
La notiziola in questione, apparentemente, riguardava lui solo tangenzialmente, perché il protagonista, ripeto, apparentemente, era un giovane calciatore del Milan che ha esordito in Serie A in queste settimane di inizio anno. Tanto la notizola riguarda Zlatan Ibrahimovic solo tangenzialmente che io il nome del ragazzo non lo ricordo, non è rilevante per me, neanche per la notiziola in sé, neanche mi sforzo di andarlo a ricercare.
La notiziola diceva che il ragazzo in questione stava per fare il suo primo ingresso in campo in Serie A con la maglia del Milan, suppongo sia giovanissimo, un ragazzino, ormai si esordisce che si è ancora in età adolescenziale, seppur spesso le facce dei calciatori sembrino facce di uomini di mezza età, tutto fuorché ragazzi.
In queste settimane a Milano si gela, anche in campo si gela, quindi. Il ragazzino ha indosso un paio di guanti neri, questo dettaglio emergeva dalla foto, ricordo, guanti neri indossati per proteggere le mani dal gelo. Ibrahimovic lo vede, lo ferma, lo chiama a sé e gli dice di togliersi i guanti. Questa è la notiziola. Il motivo, diceva l’articolo, è che tutto nelle parole di Ibrahimovic, che ovviamente metto tra virgolette ma mi invento, non potendole ricordare con precisione ma ricordandone perfettamente il senso: “se entri in campo coi guanti nessuno ti rispetterà e questo sarà l’imprinting che darai, sarai uno che gioca coi guanti, come ti mostri per la prima volta è fondamentale”.
Il ragazzo, ovviamente, si è sfilato i guanti e ha dato buona mostra di sé, poi sarà ricorso a un buono strato di crema per far passare il rossore e le screpolature.
Ora, a questo punto si potrebbero aprire diversi discorsi, a dimostrazione che a volte le notiziole nascondono altro dietro di sé, o a dimostrazione che a furia di stare chiuso in casa ho preso a dare per scontato che i discorsi dentro i quali in genere mi perdo per conto mio siano di un qualche interesse anche per altri. Potrei parlare del fatto che questa idea machista del calciatore caldeggiata da Ibrahimovic sia sbagliata, e nel farlo, per altro, starei anche a tinteggiare la mia immagine di machismo, perché Ibrahimovic non ha detto cose come “il calcio non è sport per femminucce” o roba del genere, ha semplicemente sconsigliato a un giovane di dimostrarsi freddoloso, e quindi debole.
Potrei dire che avere un maestro che ci infonde spirito combattivo è un bene, perché nello sport come nella vita avere determinazione può essere fondamentale, magari potrei anche chiosare dicendo che avere in squadra contemporaneamente Ibrahimovic e Manzukic, questa invece è una notizia vera, una notizia vera degli ultimi giorni, sia davvero una sorta di arruolamento negli Avengers, tradendo una mia idea di calcio un filo violenta, idea che difenderei a mani nude in qualsiasi pub, sia messo agli atti.
Potrei infine, ma dico infine solo per questa stupida regoletta retorica che vuole che siano tre, non di meno e non di più, gli esempi che si fanno per poi andare a proseguire altrove, magari rovesciandone il senso, e io ne ho già scritti due, di esempi, potrei quindi infine ricordare come Ibrahimovic, quello che sta andando avanti a botte di due goal a partita e che sta guidando, anche quando fisicamente non era in campo, il Milan verso una corsa scudetto che sulla carta sembrava impensabile e addirittura impossibile, potrei ricordare, dicevo, che Ibrahimovic ha trentanove anni compiuti, un boomer, un vecchio, ma che un po’ come gli AC/DC che sono finiti in vetta alla classifica, se ne frega dell’anagrafe, della nuova idea di calcio, di tutto quanto, lui va dritto per la sua strada, e si fottano tutti quanti.
Quello che invece mi preme di dire, motivo per cui sono partito raccontandovi il mio aver letto una notiziola che parlava di Ibrahimovic che consiglia a un ragazzino esordiente in Serie A di sfilarsi i guanti per non passare da debole agli occhi di chi lo avrebbe visto per la prima volta, è che Ibrahimovic, se le cose sono realmente andate come la notiziola ci ha raccontato, non senza una divertita leggerezza, manca di una seconda parte, quella nella quale Ibrahimovic ha poi dovuto spiegare al ragazzino di cui sopra che quei guanti non li potrà mai più indossare, perché se è vero come è vero che l’imprinting è fondamentale, la faccenda della prima impressione che è quella che conta è sacrosanta, e credo chiunque di voi, me compreso, ha esempi vissuti sulla propria pelle a riguardo, è anche vero che a rovinare tutto anche dopo anni e anni di partite giocate nel freddo a mani nude ci si mette un attimo, siamo sì in un’epoca di troppi input, memoria frammentaria e via discorrendo, ma se ti sputtani ti sputtani, addio per sempre.
Dico questo perché, in questi giorni, lo confesso, vorrei indossare dei guanti per proteggermi dal freddo.
Fermi tutti.
Non indosso guanti.
Non li indossavo quando giocavo a calcio, figuriamoci, non ho mai portato neanche i parastinchi, e ho sempre portato i calzettoni categoricamente arrotolati sulle caviglie, se c’era da prendere calci, ma soprattutto se c’era da darne, non mi sono mai tirato indietro, io, non è di guanti reali che sto parlando. I guanti che vorrei indossare per proteggermi dal freddo sono metaforici, vorrei una protezione, vorrei sentirmi coccolato. Vorrei, in poche parole, non essere costantemente sottoposto a incertezze di ogni tipo, pressioni di ogni tipo, il freddo del campo che, a mani nude, te le taglia come fogli di carta affilatissimi mentre li maneggi, le dita che diventano cianotiche per ipotermia.
Dirò di più, vorrei indossare i guanti, ma vorrei anche avere al mio fianco, a dirmi di non indossarli ma al tempo stesso a proteggermi, spronarmi, mostrarmi la strada, uno come Ibrahimovic, Manzukic e qualsiasi altro giocatore capace di mettere paura alle difese come a qualsiasi tipo di malintenzionati.
La vita, però, non è una storiella da mettere dentro una notiziola sul colonnino di destra di un giornale, non la mia, almeno, e non la nostra, in generale, di questi anomali tempi. Non è che condividere tutti compulsivamente Bernie Sanders coi guanti abbia reso la pandemia meno pandemia e il mondo un posto meno spaventoso, eh.
Da un anno a questa parte ci sta capitando di vedere e sentire di tutto, ci siamo abituati a così tanti cambiamenti, non ci abbracciamo più con i nostri amici e i nostri cari, neanche li vediamo più i nostri amici e i nostri cari, andiamo in giro con le mascherine, viviamo tappati in casa, lavoriamo da casa, e non parlo per me, che ci lavoro da anni per scelta, parlo per voi, lì in smartworking, la tuta da ginnastica e le ciabatte sotto, la camicetta buona sopra. Ci siamo abituati a sentire parlare di morti come fosse irrilevante, emotivamente e pragmaticamente. Ci siamo abituati a ragionare di virus e pandemie come fosse il nostro pane quotidiano, noi che fino a un anno fa più che baciare una fronte per capire se c’era la febbre non sapevamo fare. Ci facciamo dire da gente nei confronti della quale non nutriamo nessuna fiducia, e se ne nutriamo è solo per la fragilità psicologica nella quale siamo precipitati, cosa ci è permesso e cosa non ci è permesso fare. Andiamo in giro con autocertificazioni, Amuchina, mascherina, diamo ai colori un significato diverso da quello che gli abbiamo sempre dato, per non parlare delle parole, positivo è diventato pericoloso, e via discorrendo. Siamo costantemente terrorizzati, bombardati di notizie, quelle sì notizie, che ci spiazzano, ci tolgono la terra sotto i piedi, ci promettono miglioramenti che non arrivano o che se arrivano non vanno guardati con troppa benevolenza, perché a tornare indietro è un attimo, e il peggio è sempre dietro l’angolo. Molti di noi hanno perso i propri cari, molti hanno perso il lavoro, molti stanno cercando di capire che ne sarà della propria vita.
In questo, nel bel mezzo della tormenta, quella che ha fatto dire a qualcuno che la pandemia è democratica, che tocca tutti alla stessa maniera, che siamo tutti sulla stessa barca, ben sapendo, chi l’ha detto come tutti, che nulla di ciò risponde al vero, siamo nello stesso mare in tempesta, ma c’è chi a bordo di un pedalò e chi di un transatlantico, misera consolazione pensare al Titanic, ci si sono messi pure loro, quelli che in teoria dovrebbero essere i nostri Ibrahimovic, Dio e Ibrahimovic stesso mi perdonino per aver scritto quello che ho appena scritto, cioè i governanti, lì a farsi battaglia, una crisi di governo che grida vendetta, incertezza che si somma a incertezza.
Quindi mi ripeto, in questi giorni, lo confesso, vorrei indossare dei guanti per proteggermi dal freddo. Vedere intorno a me così tanta gente che evidentemente indosserebbe in guanti dovendo giocare in una fredda giornata di gennaio, per altro, non fa che peggiorare il mio stato d’animo, mi fa sprofondare quasi nella disperazione.
Allora tocca fare come in certi film d’azione. Quando cioè la tormenta ci circonda, siamo noi gli eroi di questo film d’azione qui, le forze cominciano a mancare, la fine ci sembra imminente, le possibilità di salvarci vicine allo zero, cioè almeno cinque o sei gradi sopra la temperatura che ci circonda, e, ricordiamolo, noi non abbiamo i guanti, ecco che di colpo, mentre ce ne stiamo semi morenti a terra, ci compare in sogno, o magari è una allucinazione, vallo a capire, proprio lui, il nostro guru di riferimento, l’Ibrahimovic che veglia su di noi poveri esordienti ignari di come vanno le cose del mondo, a bordo campo, e ci dice di non mollare, di rialzarci, al limite, le metafore sono metafore proprio perché non necessitano la medesima aderenza al reale dei fatti che finiscono nelle storie come cronaca, o come trama, si china su di noi, ci raccoglie e ci si carica sulle spalle, portandoci in salvo, pronti a rianimarci, rimetterci in forze e andare a riprenderci ciò che è nostro, sconfiggendo i nemici. Sposto l’azione in alto mare, sotto una tempesta, fulmini, onde gigantesche, pioggia torrenziale. Ecco, siamo al momento in cui le immagini ci mostrano una spiaggia bellissima, spesso dalle fattezze caraibiche, deserta, la camera poi indugia su dei pezzi di legno, tecnicamente dovrei dire dei relitti, e poi su di noi, lì stesi in mezzo alla sabbia, coperti di alghe e coi vestiti ancora inzuppati. Un paio di colpi di tosse e siamo come nuovi, sani e salvi.
Ecco, avete assistito a una scena di un film piuttosto bizzarro, di quelli in cui l’attore protagonista interpreta più ruoli, a volte sia il buono che il villain, il cattivo, tipo Austin Power, e nello specifico in questo film d’azione bizzarro cui avete assistito, io sono sia l’eroe, quello che deve affrontare una situazione di crisi prima di poter volare verso il lieto fine, non c’è trama avvincente senza crisi e risoluzione della crisi, ma anche il deus ex machina, il motivatore spirituale, lo Zlatan Ibrahimovic che mi dice di non indossare i guanti e come mettermi in salvo nella tormenta (Zlatan, perdonami, è fiction, Charlton Heston o Morgan Freeman hanno interpretato Dio, potrò anche io giocare con te, no?).
Lo so, sono stanco, e con la stanchezza perdo la lucidità. Ma mi volete bene, quante ne abbiamo passate insieme, del resto…
Torno alla notiziola da cui sono partito. Ibrahimovic che indica la via al giovane inesperto delle cose di questo mondo, lì coi guanti a combattere il gelo. Il giovane, vuoi per una questione di salvaguardia personale, quello che aveva di fronte è Ibrahimovic, un metro e novanta di cattiveria e perizia nelle arti marziali, vuoi per rispetto reverenziale, Ibrahimovic è uno dei più grandi calciatori in attività, al momento mi sento di dire anche quello che gioca meglio, oltre che essere uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi, il giovane non si è tenuto i guanti per combattere il freddo dicendo qualcosa che avrebbe potuto suonare come “Ok, boomer!”, non ha tirato in ballo teorie gender fluid da contrapporre a quelle machiste di Zlatan, non ha neanche tirato in ballo una qualche moda generazionale incomprensibile a chi a quella generazione non appartiene, si è sfilato i guanti e è entrato in campo, la sua immagine salva a futura memoria.
Certo, fosse stato un Ibrahimovic in potenza, magari anche in atto, lo avrebbe potuto sfidare, ne fosse valsa la pena, magari anche avere la meglio, ma si tratta di un esordiente di cui al momento si è persa memoria, per uccidere il padre tocca avere almeno un po’ le spalle larghe o saper maneggiare un coltello.
Gli avesse risposto malamente, ci scommetto, avremmo tutti letto la notiziola di Ibrahimovic che prende a calci nel culo un giovane esordiente, e ne avremmo anche visto il video, nel mentre diventato virale, fatto che avrebbe ulteriormente ingigantito il repertorio macho di Ibrahimovic, certo, ma avrebbe anche contribuito non poco a farmi dire che i padri vanno uccisi, ma che al momento mi sembra manchino i figli capaci di farlo.
Non voglio inerpicarmi nel sentiero delle contrapposizioni, sono di parte, non sarei oggettivo, preferisco invece concentrarmi sulle ovvietà, sul quadro che sta lì, davanti agli occhi di tutti, il ragazzino coi guanti a fianco di Ibrahimovic.
Guardo. Guardo e racconto.
Un tempo, provo a dirla come se io non facessi parte di questo flusso cronologico e temporale, a nessun giovane sarebbe venuto in mente di presentarsi come qualcuno che puntava esclusivamente al successo, men che meno al successo inteso come agiatezza sbandierata a destra e a manca, soldi, macchine, donne (non alzate quel ditino, vi prego, non sto parlando di me, sto raccontando una situazione tipo). Quello che il giovane in questione avrebbe rincorso, anche a fatica, sarebbe stata una lingua propria, uno stile proprio, dentro la quale infilare i propri contenuti, volendo anche i propri messaggi, andando a contrapporsi ai canoni vigenti, non per una mera faccenda di antagonismo fine a se stesso, anche ma non solo, quanto piuttosto perché le lingue e gli stili precedenti erano quelli dei padri, già canonizzate, buone per veicolare altri contenuti e altri messaggi, probabilmente stantii.
Ciò non implica necessariamente tagli netti, intendiamoci, ci sono stati tanti generi musicali che sono state rielaborazioni, metabolizzate e risputate, di vecchi stili e lingue, ma in genere uno cambiamento è sempre avvenuto, la storia della musica contemporanea e leggera ne è piena.
Chiaramente sto procedendo con la falce, come ho fatto usando l’episodio di Ibrahimovic e dei guanti neri, il ragazzo neanche lo cito, ma il discorso che voglio fare non necessita dettagli millimetrici, essere approssimativi in questo caso non è poi questo gran problema.
Puntare a dar seguito a una urgenza più che a un riconoscimento e quindi a una cristallizzazione è sempre stato alla base dei movimenti musicali, tutti i movimenti musicali che non sono evaporati come meduse al sole (credo, con buona approssimazione, anche quelli culturali).
Pensate a un qualsiasi artisti di quelli che anche oggi, molti sono morti, viene riconosciuto come fondamentale, monumentale, imprescindibile, lì a rincorrere il primo posto in classifica, il conto in banca che lievita, la bella vita cantata ancor prima di essere raggiunta. Ecco, fermiamoci ai soldi, pensate a un Lou Reed, a un Marc Bolan, a un Mick Jagger, a un Roger Waters, a un Bob Marley, a un Pete Townsend, a un Jimi Hendrix, a un Jim Morrison, a uh John Lennon, a un Brian Wilson, a Joe Strummer, non fatemi proseguire, mi viene da piangere anche solo a rileggerli questi nomi, lì a parlare di cash, di privè, di donne. Ecco, no, di donne ne hanno parlato tutti, più o meno, ma non in quel modo che oggi ci è diventato familiare.
Certo, uno potrebbe dire che le origini di questo parlare, quello di oggi, è figlio di un’altra cultura, quella del ghetto, quella di chi, privo di ogni cosa, ha guardato legittimamente al successo, incarnato da quel trittico, soldi, macchine e donne, come un modo di certificare un affrancamento, una emancipazione, una rivendicazione sociale, tutto vero, seppur sarebbe come lasciare che, una volta sedimentato, del caffè turco ci si fosse concentrati a masticare la polvere di caffè scesa sul fondo della tazza, invece che a bere il liquido nero e caldo che da quella polvere è nato, ecco, questa è una cavolo di metafora riuscita.
I soldi, nel rock, nel punk, nel blues, non sono mai stato il motore, la benzina e neanche la meta d’arrivo, semmai è stato un problema, un ronzio di fondo, di quelli fastidiosi, quello che premeva era comunicare una insofferenza, una voglia di libertà, e il solo modo per giustificare il guardare ai soldi era la libertà che i soldi avrebbero potuto portare, ma si sa che capitalismo e libertà spesso prendono strade diverse, i soldi erano quelli dei genitori, degli imborghesiti, ai giovani interessava il divertimento, il sovvertire le regole, il sesso.
Ecco, il sesso, torniamo alle donne del trittico su citato, non venitemi a parlare di sessismo, vi prego, sto analizzando non certo avallando, è sempre stato il vero motore di quella voglia di libertà, e quello magari potrebbe aver avuto a che fare con una voglia di successo, credo che 99 musicisti su 100, parlo di uomini, sosterebbero di aver iniziato per far colpo su qualcuna, anche qui, falcio ma falcio con una certa precisione, ma l’esibizione di un trofeo, quello avviene nel trittico ormai quasi usurato, nulla ha a che fare col sesso, non più di quanto sventolare mazzette di soldi del Monopoli ha a che fare col successo.
Essere nel flusso, nell’omologazione, nel mezzo (cioè nel mainstream), lo dico senza paura di smentita, non è mai stata condizione compatibile col provare a trovare una propria identità, e avere una propria identità, 99 volte su 100, è stato il modo in cui i grandi artisti si sono riusciti a mettere in evidenza, e quindi a trovare il successo, finendo per essere quelli che dettavano la linea al flusso che a quel punto li ha accolti.
Partire dalla ricerca del successo saltando i passaggi intermedi è un po’ come pensare di poter diventare capocannoniere in campionato solo perché ci si è fatti la pettinatura alla moda o ci si è tatuato il nome della nostra fidanzata su un braccio, così da poterlo esibire al primo gol segnato, gol segnato che nel caso non arriverà certo perché lo abbiamo inseguito con fatica e ostinazione, ma per puro caso o calcolo.
Fossi a bordo campo con un qualsiasi giovane artista, lui coi guanti neri per paura del freddo, io con la faccia di uno che ti ha appena dimostrato che l’età anagrafica è solo un concetto risibile, come una Jane Fonda qualsiasi, gli direi che forse è il caso di smetterla di puntare a finire in quella determinata Playlist di Spotify, andando a inseguire quel miserabile risultato facendo canzoni che sembrano concepite consultando una tabella più che dando seguito a una ispirazione filtrata dal talento, i risultati, sempre che siano cosa cui guardare senza alterigia e nonchalance, se devono arrivare arriveranno. Certo, nella speranza che lui, il giovane, magari mi mandi a quel paese, ostentando una arroganza figlia della voglia di uccidermi, più che consolidata da dati di fatto, ma anche con la consapevolezza che le possibilità che ciò avvenga è piuttosto improbabile, per non dire nulla.
Lo inviterei, poi, quel giovane a bordo campo, ma inviterei tutti, ma proprio tutti tutti quelli che oggi vogliono fare musica a andarsi a ascoltare Chiedo scusa di Leandro Barsotti, seppur io schifi con tutto me stesso Spotify ho gioito nel sapere che la piattaforma svedese ha finalmente deciso di mettere nel proprio catalogo i suoi album, seppur inspiegabilmente manca ancora il suo folgorante e potentissimo esordio, Il caso Barsotti, mi vanto di essere stato in qualche modo artefice di questo fatto, canzone, Chiedo scusa, canzone contenuta nell’album Ho la vita che mi brucia gli occhi, quanta poesia in un solo titolo, canzone che allora come oggi è un pugno sul naso, prima, e sullo stomaco poi, una testata in faccia data al perbenismo, altro che flusso.
Certo, io non sono Ibrahimovic, e la musica e quel che la musica dovrebbe implicare non è un paio di guanti in una fredda giornata di gennaio, ma fidatevi di un boomer: smettetela di inseguire la rassicurante condizione di chi è parte di un tutto e provate a fare la vostra strada, quella che il vostro talento vi può permettere di percorrere e che l’ispirazione e solo l’ispirazione è in grado di indicarvi. Se non per me, fatelo per evitare che arrivi Ibrahimovic a dirvelo fissandovi negli occhi, dubito reggereste allo shock.