Ho iniziato a scrivere tardi, superati i venti anni. Ho iniziato a scrivere seriamente tardissimo, superati i venticinque anni. Il che attesta che giusto ora, a cinquantuno anni, posso dire di aver passato la più parte della mia vita a scrivere, ma parliamo di una maggioranza relativa, diciamo di quelle che contano sulle astensioni e i voti da controllare al VAR. A dirla tutta ho anche cominciato a leggere tardi, sicuramente più tardi di quanto non abbia fatto mio fratello Marco, per dire, più grande di me di otto anni e decisamente quello più appassionato di libri, insieme a mia madre, quando noi si viveva tutti assieme. Io ero quello appassionato di musica, con mia sorella Caterina, entrambi abbiamo studiato a tal riguardo, con la differenza che mia sorella si è diplomata al Conservatorio, in oboe, io no, io ho iniziato a scrivere.
Ho iniziato a leggere tardi nonostante casa mia fosse abbastanza piena di libri, specie camera mia, dove mio fratello, appunto, li accumulava compulsivamente, cosa che ha continuato a fare e continua a fare ora che ha quasi sessant’anni e nella vita fa, mi verrebbe quasi da dire “giustamente”, l’editore. Ho iniziato leggendo un libro di fantascienza per bambini, non ricordo né titolo né trama, passando per qualche classico come Tartarin di Tarascona e Giamburrasca, passando poi ai gialli per ragazzi, ricordo bene Hanno rapito la Juventus, per dire, e Salgari, tutto Salgari, oggi ne sono un buon collezionista, prime edizioni, edizioni rare e di lusso, e non smetto mai di vantarmi del fatto di essere stato uno dei due italiani a aver mai messo piede sull’isoletta malese che ha ispirato Salgari per inventare la Mompracem di Sandokan, Kuraman. Ma ho comunque cominciato a appassionarmi davvero di letteratura tardi, diciamo verso la fine delle superiori, lasciando che questa passione raggiungesse, senza mai del tutto superare, la musica solo al tempo dell’Università. Ho sempre trovato asilo nei libri, come nei dischi, uno spazio per lasciarmi andare alle mie visioni, per trovare stimoli, per riversare rabbia.
Quando sono arrivato a Milano, poco dopo aver cominciato a scrivere, avevo ventotto anni, e poco prima di esordire con il mio primo libro, una raccolta di racconti, i miei ritmi di lettura erano piuttosto atletici, un libro ogni due, tre giorni. Quando ho iniziato a lavorare per la Mondadori, come consulente editoriale, leggere è diventato parte integrante del mio lavoro, anche testi non ancora tradotti, e viaggiavo a una media di circa trecento libri l’anno. Uno potrebbe pensare che per leggere così tanto non devi avere davvero nulla da fare, ma leggere è parte del lavoro di chi scrive, o di chi opera nel campo editoriale, e in quella fase della mia vita, specialmente in quella fase della mia vita, avevo come un conto da pareggiare con tutto quello che non avevo ancora letto. Ora mi muovo con più calma, anche se ho mantenuto l’abitudine di leggere una decina di libri in contemporanea, stanno tutti lì impilati sul comodino. Li porto avanti in contemporanea, a meno che non ce ne sia uno che mi prende talmente tanto da pretendere la mia totale attenzione. Ho passato qualche anno, diciamo due, per essere precisi, nei quali non ho letto praticamente nulla. Non perché, come qualcuno sostiene, i social o le serie Tv abbiano in effetti sostituito la letteratura, io leggo molti saggi oltre che romanzi, più che altro per una forma di rigetto, la stessa forma di rigetto, non a caso, che mi ha spinto a scrivere poco o niente, nello stesso periodo, io che, si sarà notato, ho una certa propensione a scrivere tanto, i miei ottanta libri e le mie maratone qui ve lo avranno in qualche modo certificato. Ma in generale i libri, da che sono entrati nella mia vita, prima come libri che leggevo, poi come libri che leggevo e libri che scrivevo, non sono mai mancati.
Ci sono però, ne leggevo giorni fa sulla bacheca social di Tommaso Pincio, che è uno degli autori italiani che più stimo, non è che io di autori italiani ne stimi tantissimi, va detto, che dichiarano di non leggere praticamente nulla. So di autori che non leggono mentre stanno scrivendo, per non finire nella trappola della simulazione, prassi che ho sentito praticata anche da certi musicisti e cantanti, ma qui si parla di autori che non leggono proprio mai, perché non vogliono che la propria scrittura venga contaminata in alcun modo.
Fatico a capire, perché per me entrare nella scrittura degli altri, è davvero vitale, tanto quanto entrare nella musica degli altri, seppur siano due forme d’arte con modalità di fruizione, che brutto termine, assolutamente differenti. Semmai per me il problema è che buona parte degli autori che più apprezzo, magari è solo una faccenda anagrafica, sono morti, e considerate che fatico a leggere libri non di miei contemporanei, quindi parlo di gente che era un po’ più vecchia di me, o che è morta giovane, in alcuni casi, diversi, anche per mano propria, penso a Hunter S. Thompson, David Foster Wallace o Mark Fischer, quindi, in quanto morti, difficilmente avrò occasione di leggere loro libri che non ho mai letto.
In un certo senso provo a ovviare a questo andando a cercarmi in mercatini, questo accadeva prima del Covid, è ovvio, e in siti specializzati, vecchie edizioni, così da far finta che si stia parlando di libri che ancora non ho, ma nei fatti quasi tutto quello del passato che mi interessava leggere l’ho letto. Succede, rarissimamente, che mi capiti di incrociare il libro un autore che apprezzo che non ho ancora trovato, sono anni e anni, per dire, che cerco l’edizione SugarCo di Vacanze Haitiane di Kathy Acker, se qualcuno che sta leggendo ne ha copia batta un colpo, ma parliamo di una manciata di titoli. Poi ci sono i nuovi autori, o gli autori che apprezzo ancora in vita, penso a Ellis, a Rick Moody, a Lethem, nel campo musicale a Simon Reynolds. Non sono tantissimi, ma ci sono, e aspetto le loro uscite con una certa ansia, per non dire del piacere che mi procura incappare in firme nuove che non ho proprio mai letto, di cui non ho mai sentito parlare perché non hanno ancora mosso i primi passi, la rete e una certa passione fanno sì che sia impossibile non aver sentito parlare di autori viventi che abbiano già pubblicato e di cui mi sarei dovuto interessare.
So che può sembrare una fanfaronata, la spavalda dichiarazione di uno che vuole ergersi a intellettuale, ma siccome, come dicevo giorni fa, viviamo nel paese col più basso tasso di libri letti in un anno a persona, solo quattro italiani su dieci ne leggono almeno uno, direi che volessi vantarmi giocherei più la carta dei centimetri di pisello o roba del genere.
Però succede che Netflix, sempre loro, metta in streaming una serie in sette puntate diretta da Martin Scorsese, e che questa serie sia dedicata interamente a una scrittrice, Fran Lebowitz, di cui non ho memoria. Leggo diversi amici scrittori, sui social, che ne parlano entusiasti, dando per assodato, questo è un po’ un vezzo di noi scrittori, che tutti sappiano di chi si sta parlando. Dandolo talmente per scontato da non specificare neanche che si tratta di una scrittrice, a questo pensano alcuni articoli che presentano la serie. Mi incuriosisco. Vado a fare qualche ricerca in rete, e scopro che in effetti Fran Lebowitz è una scrittrice americana, di New York per essere precisi, di questo si parla molto nella docuserie di cui sopra, dove Scorsese è quasi sempre al suo fianco, e quasi sempre sta ridendo con le lacrime agli occhi per le continue battute, tra l’acido e il compiaciutamente misantropo della Lebowitz, scopro quindi che Fran Lebowitz è una rinomata conferenziera e che nei fatti non pubblica libri esattamente da che io ho cominciato a pubblicarne, e per altro il suo ultimo libro, datato 1994, è un libro per bambini, quindi stando sempre a quel che leggo, un’opera minore in una bibliografia comunque che definire stringata è voler essere generosi.
Ora, faccio una piccola sosta ristoro, di quelle che in genere, durante un lungo viaggio, si fanno in autogrill, per sgranchirsi le gambe, pisciare e bersi un caffè domandandosi, sempre senza risposta, perché negli autogrill esista la Noce di Prosciutto, altrove considerata alla stregua di una qualsiasi leggenda metropolitana, al pari dei coccodrilli nelle metropolitane di New York, chissà se la Lebowitz ne ha mai visti, al Chupacabras o altri esseri incredibili.
Per ragioni che sfuggono alla mia comprensione chi scrive viene spesso chiamato a parlare. Si pensi alle presentazioni, giorni fa parlavo in questa sede di come spesso siano disastrose e di come evitarle sia spesso una conquista da difendere anche a mano armata, si pensi alle interviste, in radio, raramente in tv, a volte per la carta stampata, si pensi alle conferenze, appunto, ai cosiddetti seminari. Sfuggono alla mia comprensione perché, il fatto di scrivere, di aver scelto cioè un mestiere e anche una forma di comunicazione che prevede lo stare soli davanti a un computer, io ho iniziato a scrivere con la macchina da scrivere, a dirla tutta, ma solo perché all’epoca non avevo ancora un computer mio, ma non tornerei indietro neanche se mi pagassero a peso d’oro, una forma di comunicazione e d’arte, qui il tema si farebbe complesso da affrontare durante una sosta ristoro, che è comunque mediata e che non contempla che ci sia un rapporto in tempo reale tra lo scrittore e qualcun altro, l’altro cui si rivolge, il lettore, sfuggono alla mia comprensione, quindi, perché l’essere scrittori non implica essere oratori, le due cose comportano competenze differenze, mi sembra evidente, ma ciò nonostante spesso e volentieri chi scrive libri si trova a guadagnare più dal parlare che dallo scrivere, dando un senso a quello che tecnicamente si chiama “indotto”. A meno che non si sia autori di best seller, e in Italia sono davvero pochi, spesso neanche scrittori veri e propri, ma personaggi per i quali i libri sono una conseguenza dell’avere un nome e una faccia, penso agli influencer più o meno credibili, su tutti il nome di Benedetta Rossi, ma anche attori, cantanti, calciatori, alcuni di questi best seller, quando facevo il ghost writer, una vita fa, li ho scritti anche io per loro, e a meno che non si sia tra quanti pubblicano con una certa costanza libri che magari non stravendono ma vendono abbastanza da permettere, tra anticipi e royalities maturate, di mettere insieme una buona cifra, io per una decina d’anni questo ho fatto come mestiere, solo questo, gli scrittori che si possano dire professionisti, parliamo in Italia di pochi nomi, lo possono dire in virtù dell’indotto, quindi per tutte quelle occasioni di lavoro che l’essere scrittori in qualche modo accende. Penso ai corsi di scrittura, agli articoli, alle ospitate in Festival e presentazioni retribuite, alle consulenze, il coinvolgimento anche in progetti ambiziosi quali la scrittura di opere cinematografiche o teatrali, volendo anche l’autoraggio televisivo, ma qui siamo quasi nella fantascienza, a volte alle traduzioni e, appunto, alle conferenze e seminari, a volte conferenze e seminari che si traducono in master o workshop, la linea divisoria tra le varie sfaccettature di questa tipologia di incontro è ambigua.
Negli ultimi due anni, diciamo dalla fine del 2018, anche io sono tornato a occuparmi di tutto ciò. In passato ho tenuto corsi e workshop per la Scuola Holden, la prima struttura seria e articolata che si occupava di scrittura creativa, ma a lungo me ne sono stato in disparte, perché per poter pubblicare così tanti libri come ne ho pubblicati io, non è un segreto, il mio nome non doveva essere troppo “visibile”, almeno non al pubblico o a certa parte dell’editoria. Pubblicare più libri nello stesso anno, il mio record personale è stato quattordici, intorno al 2012, con editori diversi, spesso con argomenti che in qualche modo potrebbero farsi concorrenza a vicenda, biografie di cantanti diversi per editori diversi, saggi su temi comuni, guide di viaggio, comporta il dover puntare più sul titolo che sul nome, seppure il nome è fondamentale perché i venditori e i librai ne prendano in ordine parecchi, abbastanza da generare le famose royalities di cui sopra, o quantomeno convincere gli editori a sganciare anticipi importanti, quindi si deve essere semi invisibili per i lettori ma non per gli addetti ai lavori, anzi. Comunque, avendo io nel mentre ripreso a essere visibile, tra radio e tv, e avendo in tutti i casi deciso di lavorare anche sul personaggio oltre che sulla firma, mi sono messo a fare conferenze e mastar, webinar e workshop. Ho iniziato con il già troppe volte citato TedX di Matera, idea di mia moglie Marina, lei lavora nel mondo delle imprese, ben sa come un tocco di istituzionalità aiuti a volte a rendere il lavoro di anni in qualche modo riconoscibile anche all’esterno, come a mettere una bella cornice intorno a un bel quadro, e in effetti da lì sono partiti workshop sul mondo dello spettacolo, conferenze sul corpo della donna, master su temi inerenti al sistema musica. Certo, nel mentre è arrivata la pandemia, che ha congelato molto se non tutto, ma quello sarebbe potuto essere, e spero potrà tornare a essere, un campo molto stimolante, anche da un punto di vista meramente economico.
Capisco, quindi, che una Fran Lebowitz, autrice di libri di cui io non ho mai sentito parlare, viva andando in giro per gli Stati Uniti facendo conferenze, nella serie di Netflix, titolo “Fran Lebowitz: una vita a New York”, capisco meno, anzi, mi manda letteralmente fuori di testa, il fatto che una come Fran Lebowitz, scrittrice che tiene conferenze in giro per gli USA e cui ha dedicato una serie su Netflix, già scopro gli aveva dedicato un documentario dieci anni fa, La parola di Fran Lebowitz, non il primo che passa, ma Martin Scorsese, non fosse mai capitata alla mia attenzione, una cosa che fatico davvero a spiegarmi.
È ora di risalire in auto e riprendere il viaggio, finita la sosta ristoro.
Fran Lebowitz risulta essere decisamente un personaggio interessante. Certo, mi ricorda a tratti Edilson, giocatore che mi sono trovato più volte a citare nella mia carriera, ala sinistra parecchio talentuso del Brasile anni Novanta, dribbling veloce e efficace, buon controllo di palla, numeri da funambolo, uno che però finiva sempre per rimanere vittima dei propri numeri, lì a cercare e magari anche trovare la giocata da standing ovation, ma meno di metterla in porta, col rischio poi di finire per essere uno che o fa il numero da funambolo o è spento, senza mezze misure, nel caso di Fran trovate ficcanti su trovate ficcanti, sempre una lettura arguta sulla vita, su New York, sul genere umano, mai una frase che non includa una battuta, una freddura, la dimostrazione di essere una donna intelligente e in maniera molto compiaciuta incapace di relazionarsi col prossimo.
Come dire, bello vestirsi di lattice, magari anche col mantello, farsi caricare su un paranco al soffitto della propria camera da letto, lanciarsi come se fossimo Batman sulla propria partner vestita da CatWoman a aspettare su un treppiedi tipo quelli che in passato usavano gli inquisitori per torturare gli eretici, olio sparso nelle poche parti del corpo che non siano ricoperte dal lattice, i genitali di entrambi liberi di incontrarsi, incastrarsi, scambiarsi umori, bello tutto, ma ogni tanto anche una sana posizione del missionario ha il suo perché, e sia chiaro che quello che avete letto è una ricostruzione fantasiosa, sono troppo grasso per ambire a indossare lattice, Batman mi ha sempre fatto cagare e soprattutto non ho paranchi attaccati al soffitto di camera mia.
La serie, quindi, seppur sprovvista di quelle che in narrativa si chiamano “pagine di respiro”, quelle, cioè, nelle quali non succede niente di eccessivamente rilevante, che servono però per far fiatare il lettore, e prepararlo magari a nuovi colpi di scena, emozioni o quel che è, la serie decisamente merita, quell’idea più volte sfiorata di provare a spostare le conferenze a teatro che torna a galla, ma tanto i teatri sono chiusi, è un attimo rimetterla in sonno come certi terroristi che non sanno di essere tali finché una telefonata da un numero sconosciuto non li risveglia, armandoli. Guardatele, saranno tre ore e mezzo ben spese.
Quello di cui però volevo parlarvi oggi, sì, non era di Fran Lebowitz o delle conferenze o di New York che volevo parlarvi, lo ammetto, è di questa particolare genia di artisti che vivono non praticando la loro forma d’arte, dei Jep Gambardella che decidono di non dare mai seguito alla propria opera prima, L’apparato umano. Fran Lebowitz, classe 1950, del resto, rientra a pieno titolo nella categoria, di suo in Italia non si trova nulla, e anche all’estero la sua bibliografia comprende solo Metropolitan Life e Social Studies, rispettivamente del 1978 e del 1981, una autrice di successo, scopro solo ora non nascondendo un certo imbarazzo per questa mia mancanza, che però è assai più famosa, almeno in patria, delle sue opere, al punto da potersi permettere di vivere come scrittrice pur non vivendo, e non che i suoi testi siano da annoverare ancora tra i long sellers. Il suo non è certo un caso isolato, pensate a J.D. Salinger, celebrato in tutto il mondo come il geniale autore di Il giovane Holden, uno dei romanzi di formazione più famosi di sempre, nei fatti autore oltre a quello di una manciata di titoli, i “Nove racconti”, “Franny e Zooey” e “Alzate l’architrave, carpentieri e Saymour”. A differenza di Fran Lebowitz, però, Salinger ha optato per non esserci, lui sì davvero misantropo, o estremamente astuto, io propendo per la prima ipotesi.
Di lui si sono sin da subito perso le tracce, per qualche tempo si è ipotizzato fosse poi divenuto Thomas Pynchon, a sua volta scrittore piuttosto misterioso, tesi scemata con gli anni, una foto sfocata e da lontano che lo ritraeva con due buste della spesa la sola che ha circolato, a parte vecchie foto di gioventù, il non esserci, l’essere sparito o aver comunque annullato la propria presenza se non attraverso i suoi libri, torniamo al discorso iniziale, lo scrittore contemplerebbe l’essere impegnato a scrivere, non l’essere visibile o presente in mezzo alla gente, soprattutto ai lettori, questa è una deriva recente, acuita dai social, che hanno in qualche modo imposto una interrelazione tra tutti, rendendo reciproco un rapporto che un tempo era legittimamente univoco, se non nelle derive create dall’indotto, le conferenze di Fran Lebowitz, per dire.
A questo punto dovrei star qui a ipotizzare un parallelismo tra Fran Lebowitz e un qualche cantante o musicista, magari contrapponendolo a un altro nome, sempre del mondo della musica, che possa essere il Salinger del caso. Citare Mina, nel secondo caso, è decisamente fuori luogo, lo dico subito, perché Mina è scomparsa, è vero, almeno dalla vita pubblica, ma non c’è anno che passi che non pubblichi almeno un album, e la sua recente lieson con la TIM, prima o poi dovrò dire qualcosa sull’ultimo spot, la sta facendo essere anche troppo presente, per i miei gusti.
Tenendo fuori dai ragionamenti gente che è scomparsa, nel senso che non ha più dato traccia di sé, ma che si presume sia morta, come Richey Edwards dei Manic Street Preachers, tanto per fare il nome più noto, direi di avere un personaggio che fa al caso nostro, presente, molto presente, non fosse altro che per aver generato una intera categoria dello spirito, padre spirituale dell’indie o itPop che dir si voglia, ma nei fatti divenuto per sua stessa scelta invisibile da ormai cinque anni, almeno con progetti che siano in tutto e per tutto suoi. Parlo di Niccolò Contessa, in arte I Cani, artista romano che circa un decennio fa ha esordito con Il pranzo di Santo Stefano, cui farà seguito nella primavera 2011 Il sorprendente album d’esordio de I Cani, di nome e di fatto, lavoro in qualche modo inaugurerà la nouvelle vague del cantautorato romano, uno strano mix di synth pop, testi molto ricercati e assolutamente originali, testi che in seguito si faranno più crepuscolari, come del resto si faranno più minimali e cupe le musiche, il 2013 vedrà il secondo album Glamour e il 2016 il terzo e per ora ultimo capitolo della saga, Aurora. Da allora più nulla, come se, una volta che l’indie sarà passato dall’underground più o meno consapevole di sé al mainstream lui, che de I Cani è autore e voce, ma che dell’indie è indubbiamente artefice, avesse voluto farsi da parte. Se non per il suo ruolo di produttore, a lui si deve il successo degli ultimi due lavori di Coez, e anche la produzione dei Tutti Fenomeni, oltre che tre colonne sonore. Per il resto niente di niente, non pervenuto. Non proprio scomparso alla Salinger, ma comunque niente dischi, concerti, partecipazioni a eventi o altro. Certo, proprio degli ultimi giorni un apparente ritorno, la pubblicazione su Soundcloud, dove tutte per altro ebbe inizio, di un nuovo brano, canzone intima e oscura, Alla fine del sogno, pubblicata così, senza un comunicato, una didascalia, vai a sapere se una vecchia demo, rimasta fuori dai lavori ufficiali, o il bozzetto di quello che potrebbe tornare a essere a breve. Di questo si è molto favoleggiato, a dimostrazione che i cinque anni di assenza dalle scene, qualcosa come tre ere geologiche nell’era di Spotify, ricordiamo che l’AD dell’azienda svedese, Daniel Ek, solo qualche mese fa postulava che gli artisti contemporanei dovrebbero pubblicare con cadenza mensile, per non rischiare di scomparire, non hanno assolutamente intaccato la sua statura, anzi, l’hanno forse fatta aumentare.
A dirla tutta, se non dovesse tornare, seppur dispiacendoci per le nuove canzoni che non potremo sentire, il suo mito, parliamo di un mito tutto interno al mondo della musica, ma pur sempre di mito si tratta, si accrescerebbe a dismisura, come di chi, nel momento in cui il successo gli stava per esplodere in mano ha preferito farsi da parte. Il Niccolò Contessa scomparso sarebbe un po’ come Lee Mavers dei The La’s, che dopo aver azzeccato quella gigantesca hit mondiale che risponde al titolo di There she goes e aver visto pubblicato il primo album della band contro la propria volontà, lui che è stato riconosciuto da tutti come il padre del brit-pop, ha preferito farsi da parte, scomparendo dalle scene. A volte non pubblicare e esserci può fruttare parecchio, Fran Lebowitz docet, a volte non esserci e basta pure, magari non in termini economici, ma diventare una leggenda, immagino, non abbia prezzo.