Ogni tanto arriva una buona notizia.
Addirittura ogni tanto arriva una buona notizia che non comporti un cambiamento di status, un rovesciamento di fronte, che non arrivi, quindi, dopo che avevamo dato per acquisita una cattiva notizia.
Sei lì sovrappensiero e così, di colpo, arriva la buona notizia e la cosa non può che farti piacere, specie se sei dotato di quel senso minimo di condivisione emozioni, vedi alla voce empatia, che in fondo dovrebbe caratterizzare il nostro essere uomini.
Giorni fa, per dire, Lorenzo Jovanotti, tornato improvvisamente sui social dopo un lungo silenzio, ha condiviso un post di sua figlia Teresa. Il suo non esserci ha preso a questo punto un senso assai compiuto, lo dico perché nel mentre mi ero interrogato sul suo silenzio, pensando stesse sotto per la faccenda del Covid, il tutto dopo i primi mesi nei quali ci aveva tenuto più o meno compagnia con le sue lunghe dirette, e con me si erano interrogati in tanti, lui solitamente è molto social.
Preciso, non sono uno che tendenzialmente si occupa di faccende personali dei cantanti, non lo sono perché, come ho avuto modo di spiegare non sono un giornalista, poco incline a seguire la cronaca, e non lo sono perché le vicende personali dei cantanti, molti li conosco anche bene personalmente, conosco cose che voi umani, non hanno a che vedere con quella che è poi la materia per la quale mi trovo a scrivere, la critica musicale.
Può quindi capitare che io mi trovi a scrivere, anche a lungo, di fatti personali dei cantanti, quando, capita spesso, questi fatti finiscono nelle loro opere, o in forma diretta, citati più o meno esplicitamente nei versi delle canzoni, o in forma indiretta, influenzandone le composizioni.
Faccio in questo caso un’eccezione perché la notizia, per altro resa nota proprio dal diretto interessato, è di quelle belle, e mai come in questo momento abbiamo bisogno di belle notizie.
Una notizia bella e per noi inaspettata, che però è una notizia che immagino, immagino con una buona dose di certezza, anzi, con una certezza cieca, quasi dogmatica, fosse attesa con preoccupazione e ansia da Lorenzo e da sua moglie, oltre che dalla diretta interessata, Teresa Cherubini. Forse, ma qui sono di parte, di più da parte di Lorenzo e di sua moglie che da parte della stessa Teresa, essere genitori porta a porre una lente di ingrandimento atomica, una cassa di quelle belle potenti che se le metti in auto e accendi lo stereo la macchina balla, salta sugli ammortizzatori, roba da tamarri, essere genitori porta a porre una lente di ingrandimento atomica, una cassa da tamarro di fronte all’anima, tutto quel che riguarda i figli ci fa vibrare, emozionare, preoccupare, gioire all’ennesima potenza.
La bella notizia che Teresa ha postato sui social, e che Lorenzo ha condiviso, è che lei, Teresa, dopo cicli di chemio e mesi di preoccupazione è finalmente uscita dal tunnel della malattia, un linfoma di Hodgkin diagnosticato nel luglio scorso.
Tutto finito, archiviato, evviva.
Noi, ovviamente, non sapevamo, e perché mai avremmo dovuto saperlo, che Teresa era malata, lei stessa ha raccontato di essersi rasata solo di recente, più come atto simbolico che per aver perso i capelli in seguito alla chemio, e quindi ci siamo beccati solo la parte bella di questa storia, come una storia di paura di cui abbiamo vissuto solo il lieto fine, per altro giocando tutto sull’empatia, senza neanche doverci impegnare troppo.
Letta la notizia, confesso, ho provato sollievo, anche se io Teresa non la conosco, e ultimamente le poche volte che mi è capitato di scambiare qualche messaggio con Lorenzo non era dei più sereni.
Ho provato sollievo perché mi sono immediatamente immedesimato in lui, Lorenzo, provando quel senso di vuoto che il diventare di colpo sprovvisti di certezze per quel che riguarda i nostri figli non può che provocare. Ho quindi gioito nell’apprendere, è stata roba di pochi secondi, il tempo di arrivare in fondo al post, ma confesso che i toni del post stesso lasciavano già intendere il lieto fine, perché così era impostato il tutto, che la malattia era stata sconfitta, che lei, Teresa, era guarita.
Ora, messa da parte la faccenda delle belle notizie, cioè di quanto avere belle notizie in un periodo cupo ci sia di sollievo, e avere belle notizie senza essere stati messi prima in condizione di ansia, senza cioè che noi si fremesse per riceverle sia anche meglio, vorrei provare, ben sapendo di camminare in un terreno delicato, come se in terra ci fossero piantine preziose che temiamo di calpestare e quindi distruggere, vorrei provare a raccontare di padri e di figli, perché in fondo nel momento in cui ho gioito per Lorenzo non l’ho fatto certo a partire dal fatto che era Lorenzo, cioè un cantautore con le sue canzoni, ma proprio per quella forma di empatia che passa di padre in padre, magari acuita dal fatto che ci si conosca, ma comunque poggiata più su quel rapporto lì, padre e figlia, e di conseguenza da padre a padre, che da critico a cantante.
Ho quattro figli, credo che ormai lo sappiano anche i sassi. Ho quattro figli e sono un padre presente nelle loro vite, non solo ora che la pandemia ci ha portato a passare così tanto tempo insieme.
Per noi, per dire, per noi del nostro nucleo familiare, l’anno terribile che è stato il 2020 è iniziato a novembre, praticamente quando, abbiamo scoperto di recente, il Covid ha fatto il suo ingresso in incognito in Italia.
Ve ne ho già parlato nel primo diario, quello tenuto ai tempi del lock down di primavera, non voglio ripetermi. Mio figlio Francesco è caduto dal terzo piano di un altissimo letto a castello, mentre si era isolato per leggere un libro, vedi che a volte leggere è pericoloso, maledetti intellettualoni, si è procurato una microfrattura al cranio, all’altezza dell’orecchio sinistro, e quando siamo arrivati di corsa, letteralmente di corsa, al Pronto Soccorso del San Raffaele, dopo esserci allarmati per l’essere passati davanti agli altri siamo letteralmente rimasti atterriti dall’ipotesi, poi scongiurata, che lo si dovesse operare al cervello, causa un paio di emorragie che aveva in corso. Passata una notte infernale, con lui, solitamente iperattivo, praticamente in un sonno continuo, arrivata la notizia che non sarebbe stato necessario un intervento, sono arrivate le altre preoccupazioni, recupererà del tutto l’equilibrio?, perché la frattura riguardava la zona dell’equilibrio oltre quella dell’udito, e l’udito, in effetti, era l’altra preoccupazione, sarebbe tornato a sentire come prima? Insomma, si dice che i pensieri relativi ai figli ci tolgono anni di vita, credo di poterlo confermare scientificamente, perché usciti da lì, dopo un po’ di giorni di ricovero, mi sono sentito decisamente più vecchio.
Del resto, con quattro figli, avevo già provato altre volte quella sensazione orribile di terrore, la paura di una perdita, per di più la paura di una perdita nei confronti della quale nulla avrei mai potuto fare, anche impegnandomi, dibattendomi.
Quando Tommaso, il secondogenito, aveva poco più di una settimana è stato ricoverato per una brutta infezione alle vie urinarie, infezione che, a quell’età, può essere assai pericolosa, addirittura letale, ma che soprattutto può essere indicatrice di altri problemi, assai seri. Quando, facendo le varie Tac di controllo, ci hanno confermato che aveva tutti gli organi interni, reni compresi, fatto che davamo ovviamente per acquisito dai tempi delle ecografie, una, l’ecografia morfologica, che si fa a metà della gravidanza, è appunto dedicata organo per organo a una sorta di controllo generale, io e Marina siamo sbiancati, ma mai quanto ci hanno detto che dovevano fare una tac al cervello. Sorvolerò, già mi sembra che questa pandemia abbia troppo repentinamente fatto dimenticare i giorni in cui medici e infermieri erano i nostri angeli, non voglio infierire, sulla pediatra che, coi suoi soliti modi bruschi, visitandolo e quindi in qualche modo inibendone ogni reazione con il suo procedere in maniera troppo veemente e con un tono di voce stridulo, troppo forte, ci ha costretto a sei mesi di strazianti visite al Besta, l’ospedale neurologico di Milano, convinta che Tommaso avesse un qualche problema col movimento, arrivando addirittura a ipotizzare una spina bifida che, questo ce lo hanno confermato poi in sede di visita specialistica, non è possibile scoprire a otto, nove mesi di età. Le visite al Besta erano strazianti non tanto per noi, io e Marina vedevamo bene come Tommaso si muovesse normalmente, a casa, salvo poi immobilizzarsi di fronte alla pediatra, quanto piuttosto per il nostro vedere bambini altrettanto piccoli con problemi così importanti e devastanti, uscivamo ogni volta distrutti.
Come è stato straziante portare per circa cinque anni Lucia presso il reparto ematologico della De Marchi, la clinica pediatrica legata alla Mangiagalli, sempre a Milano. Anche questa storia l’ho già raccontata, ma credo serva toccarla en passant per far sprofondare anche voi in un luogo caldo e insonorizzato fatto di buone notizie che attutiscono il terrore delle brutte notizie. Mentre io ero con il mio amico Gianni al concerto dei Die Antwoord, infatti, e pensare me e Gianni, Gianni Biondillo, al concerto della band sudafricana è già in sé uno spettacolo horror, mi sento di poter dire oggi, alleggerito dal sapere come andrà a finire questa storia, a Marina arriva una telefonata dell’ospedale che la convoca d’urgenza perché sono arrivati i risultati di certi esami del sangue appena fatti, e sono allarmanti. L’antefatto è che a Lucia, dodici anni all’epoca, sono saltati fuori diversi lividi, alcuni dei quali anche in punti dove avere un fratello col quale giochi a picchiarti non possono procurarti, nelle cosiddette parti molli. Mentre sto tornando a casa, in auto, con Gianni, Marina mi chiama per dirmi di raggiungerla lì. Da quel momento, per quasi cinque anni, inizia un incubo. Non viene detto, nei primi momenti, il non dicibile, cioè nessuno usa la parola leucemia, anche se è a quel male lì che ovviamente pensiamo tutti, e in tutti i casi, quando ci dicono “Possiamo fugare l’ipotesi di leucemia”, sia io che Marina siamo letteralmente sbiancati, perché la paura può anche essere richiamata da lontano. Il non sapere inizialmente cosa fosse, il sapere poi che si tratta di piastrinopenia cronica, una mancanza importante di piastrine nel sangue, non mortale, non un vero e proprio handicap, ma comunque qualcosa con cui fare i conti a vita, salvo poi scoprire, cinque anni dopo, che è tutto rientrato, così, di colpo come era entrato nelle nostre vite, beh, tutto questo ha reso i nostri anni qualcosa di paragonabile a un supplizio, le visite mensili fatte presso il reparto di ematologia, con tutti quei bambini e ragazzini coperti di carta stagnola, non si chiama così, immagino, ma quello è l’effetto, alcuni rasati, tutti comunque lì per un qualche motivo serio, serissimo, è qualcosa che mette angoscia e alla quale non ci si può, forse neanche ci si deve, abituare.
Sempre da quelle parti, alla Mangiagalli, abbiamo temuto, ma temuto davvero, di perdere Chiara, quando ancora non era neanche nata. Mancavano pochi giorni al parto, parto che poi sarebbe arrivato in anticipo, causa rottura delle acque, quando durante uno dei controlli l’ostetrica non ha trovato il battito di Chiara, noi ovviamente non sapevamo che era di Chiara, ma in fondo sì, lo sapevamo. Era una signora anziana, l’ostetrica, immagino ne avesse viste tante, e il vederla sbiancare, preoccuparsi, per noi, è stato un incentivo a cadere nello strapiombo dell’angoscia. Ha iniziato a bofonchiare che non c’era battito, che c’era un problema. Poi l’ha trovato, ma le sembrava debole, finché finalmente tutto è rientrato. La situazione è durata pochi secondi, non vorrei star qui a paragonare il tutto a storie decisamente più serie, come quella da cui questo capitolo del mio diario è partita, ma vi assicuro che in quel momento, momento che si è fermato come sempre quando il terrore prende il sopravvento sulla razionalità, pensare di perderla ci ha lacerato, anche se non l’avevamo mai nemmeno vista in volto. Considerate che io arrivavo con quarantadue anni di storie sull’aver perso il mio gemello nel giorno della mia nascita, strozzato dal cordone ombelicale, diciamo che tutta la gravidanza è stata in qualche modo caricata di attese supplettive, quasi ataviche.
Potrei andare avanti, ma non serve. Mi fermo qui.
Non credo, non lo so, non ne ho un riscontro diretto, per una questione meramente anagrafica, che questa forma di ansia, di paura, di equilibrio instabile e fragilissimo tra il voler vedere i propri figli camminare da soli per la propria strada e il volerli proteggere, finisca col tempo. Dico questo perché sento come mio padre e mia madre mi parlano, come parlano ai miei fratelli, e perché in generale vedo quel che succede ai miei amici, quelli almeno che i genitori ce li hanno ancora. Credo ci sia ovviamente un cambio di registro, altrimenti si finirebbe inesorabilmente nel patologico, nell’ossessione, ma credo che in fondo quella paura lì rimanga sempre, e già solo chiamarla paura mi fa quasi sussultare, perché è molto più della paura che sto parlando.
Metto da parte quanto ho scritto fin qui, e lo faccio con gesto perentorio, ben sapendo che non basta dirlo perché ciò accada, questo è un capitolo, ovvio che si legga seguendo il suo corso.
Sappiate però che ora affronterò questo argomento partendo da un’altra direzione, e per poterlo fare vi chiedo di dimenticare quanto ho detto fin qui, e siccome dimenticare qualcosa che si è letto pochi istanti fa è impossibile, a meno che non lo sia letto distrattamente, o per propria attitudine, o perché c’è in effetti qualcosa che ci distrae o perché quel che si è letto è poco interessante, ma onestamente dubito che ci si possa distrarre per mancanza di interesse quando tutto ciò che avete letto è così fortemente personale, empatico, non fingete di non essere interessati a conoscere il lato personale di chi state leggendo, sarebbe un bluff facilmente leggibile, siccome quindi è impossibile dimenticare qualcosa che si è letto pochi istanti fa, vi stimo e so cosa ho scritto, vi chiedo di fare uno sforzo, volendo anche uno sforzo disumano, e tirare una riga, fermarvi e ripartire.
Non potrei parlare di ciò che sto per parlare così non fosse, vi ho aperto il cuore su mie paure e dolori personali, come una Madonna di quelle col cuore infilzato da spade che si vedono in certe icone russe, né credo sarebbe corretto farlo in un capitolo che ha preso le mosse dalla bella notizia di Teresa Cherubini, la figlia di Jovanotti, che è uscita dall’incubo della malattia, notizia della quale ho gioito e spero voi con me.
Azzero.
Riparto.
L’inizio del 2021 ci ha già regalato qualche canzone, qualche album. Vi ho parlato del nuovo singolo di Vasco, per dire, brano intenso che ben lascia pensare riguardo la pubblicazione del suo nuovo lavoro, in autunno.
Mi fermo. Sto tergiversando. Di più, sto proprio scappando. So di non doverlo fare, ma è più forte di me. Mi difendo, vi difendo. Faccio da airbag, provo a mettermi tra voi e il dolore di cui sto per parlare.
Perché l’album di cui sto per parlare è incentrato sul dolore, il dolore di un padre che perde un figlio. Non lo è musicalmente, forse, ma concettualmente sì, senza dubbio.
Non voglio star qui a citare la frase su come i genitori non dovrebbero mai seppellire i figli. Succede, e quando succede, non voglio neanche immaginarlo, è un dolore che non si potrà più placare, seppur nell’ineluttabile certezza che si va avanti. Questa cosa del sopravvivere al dolore, per altro, a parte essere assai poco romantica, è anche quasi agghiacciante, perché è evidente che a freddo nessuno vorrebbe farlo. Ma poi si sopravvive, il che rende il tutto ancora più difficile.
Smetto di tergiversare, di girarci intorno, di prendere tempo.
Il 4 gennaio 2021 è uscito J.T., nuovo lavoro del cantautore americano Steve Earle. Earle è un cantautore gigantesco, lo dico senza paura di essere smentito, e anche un soggetto mica da ridere, uno, per intendersi, che dopo l’11 settembre ha dedicato una canzone a un terrorista americano, John Walker Lindh, balzato agli onori delle cronache proprio a causa del suo arruolamento nelle file dell’Isis di Osama Bin Laden, impegnato nella sua folle guerra all’Occidente, la canzone è John Walker’s Blues e si trova dentro l’album Jerusalem. Steve Earle, per altro, ha sempre accompagnato la sua carriera a lotte politiche che lo hanno spesso posto al centro di polemiche, è stato e è tuttora uno strenuo oppositore alla legge sulla pena di morte, per fare un esempio.
J.T., il suo ultimo lavoro, è un album di cover. Le undici canzoni che compongono la tracklist, anzi, le prime dieci, sono tratte dai nove album incisi da Justin Townes Earle, suo figlio, morto il 20 agosto 2020 per overdose da cocaina e Fentalyn e che proprio il 4 gennaio avrebbe compiuto trentanove anni. Un disco, quindi, che non potrebbe anche volendo non fare i conti col dolore, perché, per stare a quanto ha dichiarato lo stesso Steve, è il solo modo che lui, in quanto padre, conosce per dire addio a suo figlio.
Un lavoro struggente, forse più per quel che c’è dietro che per quel che c’è dentro, per le canzoni in sé, musicalmente trapela infatti il malessere che evidentemente ha accompagnato tutta l’esistenza di J.T., ma sicuramente non siamo ai livelli di disperazione che devono soggiornare da mesi nel cuore del padre. L’ultimo brano, undicesimo in scaletta, Last words, è il vero addio che il cantautore ha scritto per provare a fare i conti con una morte probabilmente annunciata, J.T. aveva problemi di tossicodipendenza da oltre venti anni, quando ancora era poco più che un bambino, forse anche per quel suo essere figlio di un artista così ingombrante, anche dalle nostre parti abbiamo esempi di artisti anche validi che restano schiacciati sotto l’ombra del padre famoso e di talento.
Un brano, questo, sì doloroso, dove Steve Earle e la sua band, i Dukes che lo accompagnano in tutte le tracce, dopo aver reso onesto tributo all’arte di Justin Townes, un country rock tradizionale, a tratti anche allegro nel suo incedere, non possono che virare verso una cupa rassegnazione, quella di un padre che dopo aver visto suo figlio nascere, averlo visto crescere, averlo anche visto suonare e diventare a sua volta cantante, per qualche tempo J.T. ha fatto parte della band del padre, prima che la cosa presentasse troppe criticità, anche per la tossicodipendenza che lo ha portato alla morte, dopo aver visto quindi suo figlio staccarsi e camminare sulle sue gambe lo ha visto morire, arrivando fino a seppellirlo, gesto contro natura forse come nessun altro.
Non è il disco migliore tra gli oltre venti album pubblicati in carriera, diciassette in studio e sette dal vivo, ma sicuramente è un album molto bello e anche molto sincero, un alt country a tratti anche di maniera, con le tipiche svisate nel folk e nel blues che hanno caratterizzato tutta la sua carriera ormai decennale, come se la perizia nelle esecuzioni potesse essere balsamo per l’anima, modo per anestetizzare la parte emotiva, fatta poi detonare in Last Words, senza ombra di dubbio la sola canzone che Steve Earle non avrebbe mai voluto scrivere né cantare.