Ho visto L’isola delle rose, col solito doveroso ritardo.
Non ve ne parlerò, anche se, me lo chiedeste, vi consiglierei di vederlo.
Lo so, la storia vera di Giorgio Rosa e della sua isola al largo di Rimini è andata parecchio diversamente di come Sidney Sibilla ci ha raccontato, ma chi se ne frega, non è un documentario, è un film. Il motivo per cui però vi ho detto che ho visto L’isola delle rose è che a un certo punto c’è un passaggio che mi serve per introdurre l’argomento del giorno, o quantomeno uno degli argomenti che vorrei trattare nel mio capitolo del diario del lock down. Fabrizio Bentivoglio, che nel film interpreta il ministro degli interni del governo Leone, in carica al momento dei fatti, è al telefono con l’ingegner Giorgio Rosa. Lo ha chiamato direttamente negli uffici di Strasburgo della Commissione Europea, presso la quale Rosa si è recato per chiedere che la sua piattaforma, la sua isola, venga dichiarata stato indipendente rispetto all’Italia, cosa che ha fatto andare su tutte le furie il governo italiano. Il ministro Franco Restivo, questo il nome del politico interpretato da Bentivoglio, dopo aver provato, con successo, a comprare tutti i soci di Rosa, facendolo in sostanza abbandonare a se stesso, dopo aver fatto licenziare il padre dal lavoro in fabbrica che portava avanti con abnegazione da oltre trent’anni, ora prova a convincere, usando sia il bastone, sia la carota, Rosa a tornare sui suoi passi, non sto qui a spolierarvi come poi la faccenda andrà a finire.
In questo frangente, durante questa chiacchierata telefonica, Rosa prova a difendere la sua idea visionaria di un’isola libera dalle leggi italiane, nel film la piattaforma costruita genialmente fuori dalle acque territoriali italiane è una specie di Paese dei Balocchi dove tutti si divertono, ballando e bevendo, siamo tra il 1968 e il 1969, per dare una connotazione temporale al tutto, giocandosi la carta della libertà, dell’indipendenza, dando cioè alla sua azione una veste idealista che, nella realtà dei fatti, l’intera operazione aveva avuto fino a un certo punto.
Restivo, che era uomo di apparato, seppur qui reso in maniera parecchio macchiettistica, tanto quanto accade al Giovanni Leone interpretato da un irriconoscibile Luca Zingaretti, dice a Rosa, interpretato invece da un gigantesco Elio Germano, “Se davvero volete essere indipendenti, perché siete andati a Strasburgo, e prima avete scritto all’Onu. Non mi sembra molta anarchico, come modo di fare, non mi sembra molto libero da vincoli”. Parola più parola meno.
Lascio il film L’incredibile storia de L’isola delle rose, questo il titolo intero del film.
Riparto dall’anarchia.
Sono anarchico, l’ho scritto più volte anche in queste pagine. Lo sono da un numero di anni abbastanza lungo da potermi far dire, lo sono da sempre. Lo sono, quantomeno, da che ho iniziato a interessarmi alla società, alla politica, e più in generale a pensare a che ruolo avrei mai voluto avere in questo mondo.
Ciò non di meno rispetto le leggi e le regole. L’idea che un anarchico non lo faccia è superficiale, oltre che sbagliata. Gli anarchici non sono delinquenti. Ci sono delinquenti anarchici, certo, e viceversa, ma credo che sarebbero comunque delinquenti anche non fossero anarchici, perché non è certo l’essere anarchici che spinge a delinquere. Poi, sia chiaro, ci sono dei momenti che essere anarchico ha portato a andare contro le leggi, penso ai primi obiettori di coscienza, quando l’obiezione di coscienza non c’era e si parlava di diserzione, ma sono casi specifici. Io rispetto le leggi e le regole, anche quelle leggi, tante, e quelle regole, altrettante, che non trovo giuste, o addirittura trovo stupide. Vivo in questa nazione, in questa società, magari non del tutto per mia scelta, qui sono nato e qui sono rimasto, ma comunque è qui che sono nato e qui che vivo, faccio parte di questa nazione e seguo leggi e regole. Mi aspetto, quindi, che così facciano anche gli altri, specie coloro che questa nazione sono stati chiamati a guidarla, gli eletti. Anarchia e istituzioni non possono andare d’accordo, su questo credo di poter essere lapidario.
Invece in questi mesi, nelle ultime settimane in modo particolare, ma praticamente in tutti i mesi ci è capitato mestamente di assistere a azioni di chiara matrice anarchica portate avanti da chi siede in parlamento, come di chi è stato chiamato a amministrare comuni e regioni, fatto che onestamente mi lascia tra l’amareggiato e il basito.
Come può, per dire, uno come Fontana, presidente della Regione Lombardia, pensare che i lombardi rispettino leggi e regole dal momento che lui approccia i DPCM parlando apertamente di “punizioni nei nostri confronti”? Se è lui che risiede in quel ruolo a considerare in tal maniera le regole, con particolare alle tante restrizioni che quelle regole prevedono, cosa dovremmo fare noi, semplici cittadini? Idem per altre istituzioni, penso a Confcommercio Lombardia, vivo a Milano, perdonerete questo mio concentrarmi sulle vicende di questa terra, che parla, sempre in riferimento al DPCM in vigore da domenica 17 gennaio come di “scelta feroce”. Scelta feroce? Quindi a muovere il governo, stando a Confcommercio, non a un punkabbestia che fa squat in qualche casa occupata, con birretta e cane pulcioso al seguito, una casa okkupata dovrei scrivere, non sarebbero i consigli dei comitati di scientifici, consigli filtrati certamente da decisioni in sede politica, ma comunque atti a contenere il contagio, a provare, in sostanza, a risolvere una emergenza sanitaria che ci tiene in scacco da mesi, quanto piuttosto il voler dar seguito a una propria voglia di sangue, una scelta feroce che tiene chiusi i negozi in periodo di saldi, questa la frase intera, ma sempre scelta feroce?
Io resto sbigottito.
Perché se a esprimersi così sono loro, i governanti, se a usare questi termini sono loro, le istituzioni, allora a noi cittadini dovrebbe essere permesso di usare un linguaggio anche più violento, e immagino dovrebbe anche essere permesso di violare quelle regole e quelle leggi non frutto di sagge decisioni, quanto di quei comportamenti riprovevoli così tanto stigmatizzato da quelle dichiarazioni.
Non dico che dalle istituzioni io mi aspetti un comportamento istituzionale come quello del Restivo del film di cui sopra, nel film, in maniera alquanto grottesca, viene indicato come anche quella vecchia politica fosse mossa da tutt’altro che un senso di giustizia, al limite dalla ragion di stato, ma quantomeno mi aspetterei un comportamento congruo a un ruolo di rappresentanza dei cittadini, quella che in altro ambito chiamerei decenza.
Se non sono decenti loro, questa la domanda non detta, perché dovremmo esserlo noi?
Siamo sempre lì, chi ci sta sopra, e chi quindi è incaricato, o si è autoincaricato, di controllarci. E poi chi è preposto a controllare chi ci controlla.
Lo so, me ne scuso, ho usato quella che tecnicamente si chiama una “scorciatoia”, potevo arrivare dove voglio arrivare prendendo una strada più lunga, anche un pochino più panoramica, invece ho tagliato per i campi, guadagnando minuti che magari ai miei occhi possono apparire preziosi, ma ora ho la macchina sporca di fango, impresentabile.
Ho buttato lì, dopo aver fatto tutta una serie di giravolte, sono partito parlando di un film di cui recentemente si è discusso parecchio, L’isola delle rose, citando un passaggio in cui si parla di anarchia, per bocca di un rappresentante delle Istituzioni, una delle cariche più alte delle istituzioni, poi ho preso a parlare di certe dichiarazioni assolutamente eversive da parte di rappresentanti di altre istituzioni, per finire poi a citare il claim di lancio degli Watchmen di alanmooriana memoria. Certo, potrei far finta che invece di Alan Moore e Dave Gibbons, autore delle chine della graphic novel in questione, di Alan Moore, Dave Gibbons e del loro romanzo capolavoro, il mio “chi fa la guardia ai guardiani” torna indietro nel tempo, all’originale, tirando in ballo Decimo Giuno Giovenale, o a Giovenale e basta che dir si voglia, e alle sue Satire, evidentemente riferimento colto anche del claim degli Watchmen, ma sono fatto così, sbaglio, prendendo una scorciatoia, anche a rischio di compromettere quanto fatto fin qui, ma lo ammetto candidamente, parlavo proprio del romanzo di Alan Moore e Dave Gibbons, d’ora in poi solo Alan Moore, per praticità.
Faccio una debita premessa, adoro Alan Moore.
Adoro lui, le sue opere, quelle a fumetti, ovviamente, attraverso quelle l’ho conosciuto, come i suoi romanzi non graphic novel, La voce del fuoco e Jerusalem, ma adoro anche lui per quel che è, le sue prese di posizione nette nei confronti del sistema, prima quello del mondo dei fumetti, la sua riscrittura dei miti contemporanei, la sua voglia estrema di indipendenza, come quelle nei confronti di Hollywood, il disconoscimento costante dei film tratti dalle sue opere è ormai leggendario.
Toh, adoro anche il suo essere diventato un mago, fatto che in qualche modo ha segnato il suo non essere più autore di graphic novel, perché se si è iconoclasti si è iconoclasti, non ce n’è.
Adoro Alan Moore, quindi.
Normale che mi sia perso, letteralmente e metaforicamente, nelle pagine di questo romanzo che affronta di petto la figura del supereroe, oltre che di una rilettura distopica ma precisissima della società occidentale di fine Novecento. The Watchmen riprende, destruttura e ricompone, in una maniera rivoluzionaria e sconvolgente, il mondo del supereroe classico, a partire dal primo gruppo di supereroi, i Minutemen, dando poi vita a una carrellata di personaggi che da soli varrebbero una carriera intera, sempre che questa non sia la carriera di un genio quale Alan Moore, è chiaro.
I Minutemen, quindi.
Lo so, qualcuno ha rabbrividito. Ha pensato a un’altra scorciatoia, stavolta tagliando però per un dirupo. Al fango, quindi, si sarebbero assommate bozze, sfregi, ammaccature della carrozzeria, forse anche l’asse delle ruote rotto. Non ancora, forse.
I Minutemen sono stati un gruppo di supereroi creato dalla DC Comics, quella di Superman e Batman, per capirsi, alla fine degli anni trenta, esperienza poi chiusa nel 1949. Non a caso il nome del gruppo è il medesimo di una unità di militari, prima ai tempi delle Tredici colonie americane, poi in seno all’esercito degli Stati Uniti, che aveva la caratteristica del dover essere sempre pronta all’azione. Minutemen starebbe per Uomini del minuto, il lasso di tempo che doveva intercorrere tra la chiamata alle armi e la pronta risposta.
In periodo di guerra, non è mia intenzione star qui a parlare di come l’immaginario dei supereroi sia totalmente ascrivibile a quello istituzionale americano, almeno fino a decenni più recenti, prima durante la guerra mondiale e poi durante la guerra fredda, un gruppo di supereroi non poteva che far bene alla propaganda.
Ovvio che Alan Moore abbia contribuito con la sua penna a far definitiva piazza pulita di questa modalità di intendere il pantheon americano, coadiuvato da Frank Miller, prima, e da Neil Gaiman, poi, guardatevi la serie tv American Gods, se vi volete bene, in questo Watchmen è una sorta di prontuario a disposizione del pubblico come degli addetti ai lavori.
Se non era mia intenzione spoilerare troppo L’isola delle rose, film carino, ma non certo nel campo dei capolavori che mi sento in dovere di suggerirvi, figuriamoci se intendo spoilerare The Watchmen, un tale capolavoro che, fossi uno delle istituzioni, credo che ne renderei obbligatoria la lettura, come sembra non essere possibile neanche con la somministrazione dei vaccini.
Del resto, Alan Moore è talmente geniale e la sua narrazione talmente multistrato, che anche volendo dubito riuscirei a racchiuderla in queste neanche troppo poche righe.
Quel che posso dire è che i Minutemen, cioè Capitan Metropolis, Il Comico, Giustizia Mascherata, Gufo Notturno, Falena, Spettro di Seta, Silhouette e Dollar Bill, i Minutemen, appunto, sono, è il caso di dire loro malgrado, protagonisti della graphic novel di Moore, pur nella loro assenza, evocati, ricreati, uccisi e fatti rinascere, comunque metabolizzati e divenuti altro da loro. La vicenda narrata in The Watchmen, infatti, attenzione minispoiler già piuttosto noto, parte quando viene ritrovato il cadavere di Blake Edwards. A indagare su di lui sarà anche l’ultimo supereroe in costume ancora in attività, Rorschach, il quale scoprirà che Blake altri non era che Il Comico. Mi fermo qui. Ripeto, non voglio rovinarvi la lettura.
Ora però ho di fronte a me un bivio, e già giorni fa, parlando di bivio, citando quindi involontariamente il noto programma Mediaset presentato da Enrico Ruggeri, sono finito per parlarvi del cantautore milanese e del suo romanzo Un Gioco Da Ragazzi, aprendo in realtà il mio scritto a qualcosa di più simile a un crocevia, non credo, ma non ci metterei le mani sul fuoco, che mi ripeterò a distanza di pochi giorni, andando a parlarvi del suo nuovo singolo, L’America (canzone per Chico Forti), come indicato tra parentesi nel titolo brano dedicato a Chico Forti e scritto in tempi non sospetti, prima cioè che Di Maio desse notizia di un suo imminente ritorno in patria, lui che da oltre venti anni sta in carcere in America, vittima, a suo dire, di un clamoroso sbaglio giuridico, canzone, questa del Rouge, davvero di grande livello, musicalmente una tipica ballad ruggeriana, appena mossa, e con un testo poetico come il nostro ci ha insegnato a riconoscere nel tempo e apprezzare. No, non intendo parlarvi di lui, anche se vi invito a andarla a cercare e ascoltare, e mi auguro di cuore, lo auguro a tutti noi, che Enrico si decida, nonostante qualsiasi logica di mercato, a tirare fuori le canzoni cui ha lavorato in questi mesi, un bel doppio album, in barba all’immobilismo della discografia in era Covid, sarebbe un bel regalo per i tanti che lo seguono e anche per coloro che non lo hanno mai seguito, poveri stolti.
Parlavo di bivii. Anzi, di un bivio, di fronte al quale mi trovo.
Il bivio in questione vede da una parte il dirupo cui facevo cenno prima, la brutta scorciatoia, mettermi a parlare dei Minutemen intesi come la band hardcore che ha dato musicalmente i natali all’ipertrofico Mike Watt, voce e basso, qui in compagnia di Dennes Boon, voce e chitarra, e George Hurley, batteria, una band di quelle che, a ragione, viene definita seminale, perché a discapito del poco successo incontrato in vita, a Watt andrà un po’ meglio con i successivi FIREHOSE, band formata da Watt e Hurley dopo la tragica morte per incidente di Boon, nel 1985, per non parlare delle tante collaborazioni che Watt avrà nel corso dei decenni a venire, dal suo ingresso nei rinati Stooges di Iggy Pop a quella di passaggio nei Porno for Pyros di Perry Farrell, a discapito quindi di un ruolo di nicchia, parlo di numeri, la rilevanza avuta dalla band in termini di influenza, pensate ai Dinosaur Jr, per dire, o ai Pixies, non volendo aprire il capitolo grunge, oppure continuare a parlare di supereroi e di riscrittura dell’immaginario dei supereroi, andando a parlare della serie tv in assoluto più folle tra quante uscite dal magico mondo della Marvel, WandaVision, una miniserie disponibile da metà gennaio su Disney+ che ha per protagonisti Scarett, vero nome Wanda Maximoff, e Visione, in una specie di sentito omaggio alle sitcom, Vita da strega su tutte, e che muove i passi dal post- Avengers Endgame, dovendo giocoforza tornare nel passato, le ultime vicende degli Avengers non lasciano a riguardo altra possibilità, una serie folle proprio per porre due supereroi, uno dei quali, Visione, a mio avviso un gigante, vederlo morire sotto i colpi di Thanos, in Avengers: Civil War, mi aveva lasciato sconcertato, Visione, androide capace di annullare la propria massa corporea, privo di sentimenti, ma non per questo parte di una coppia canonica, quella che in WandaVision è protagonista, una serie folle proprio per questo suo porre una coppia di supereroi all’interno di un mondo immaginario, quello delle sitcom “casalinghe”, così distante da sé, lo storytelling delle sitcom è statico, tutto ambientato in pochi spazi, quasi sempre quelli della casa, statico il linguaggio usato, quasi infantile, comunque edulcorato, statico il bianco e nero che a sua volta immobilizza la scena, parlo almeno dei primi due episodi, i soli che ho visto fin qui, le risate finte di fondo, con la leggenda che siano risate vecchissime, sempre quelle, appartenute a figuranti ormai morti da tempo, un modo diverso di intendere la società, oggi diremmo un modo assai patriarcale, e anche di intendere la società nella quale la famiglia si inserisce, il mondo del lavoro, il rapporto con colleghi e capi, tutto è lontanissimo dal mondo dei supereroi per come li conosciamo oggi, specie dopo il trattamento riservato loro da Alan Moore e quell’altro gruppetto di pazzi cui facevo riferimento prima, anche qui, senza spoilerare, la visione di Visione, Dio mi perdoni, e Wanda aka Scarlett in questa sitcom vale assolutamente l’abbonamento alla piattaforma Disney+, e onestamente ci fornisce anche un certo grado di aspettativa riguardo quella che risponde al nome di Fase 4 del mondo Marvel, fase che arriva dopo circa quindici anni di film attraverso i quali la Marvel ha ridisegnato il proprio universo, l’ultimo riguardo gli Avengers sarebbe una sorta di chiosa in vista di nuovi scenari, a tutti i personaggi saranno dedicati film e serie tv, quindi nuovi scenari ma anche tanti scenari, è proprio il caso di dirlo.
Comunque, niente, tra chi ha deciso di votare la propria vita all’hardcore, scegliendo il nome di una accolita di supereroi e chi supereroe è, nonostante momentaneamente vesta i panni della coppia felice da sitcom con le risate finte, mi tocca davvero scegliere ancora una volta la via più semplice, quella di tornare a parlare di Enrico Ruggeri e della sua L’America, non perché il mio suggerimento di qualche riga e qualche minuto fa abbia bisogno di una didascalia, confermo tutto, grande canzone su un grande tema, così come confermo l’auspicio di un repentino ritorno sul mercato, so di abbastanza canzoni per poter dar vita a un doppio album, lì in cantiere, quanto piuttosto perché credo, e lo credo con la ineludibile certezza che solo il parlare e lo scrivere della musica che mi fa battere il cuore e funzionare il cervello mi concede, che provare oggi come oggi anche solo a ipotizzare un nuovo album sia al tempo stesso qualcosa di eroico, forse addirittura di supereroico, ma anche di follemente visionario, né più né meno di quanto stanno provando a fare in Marvel, seppur con la potenza di fuoco della multinazionale, potenza di fuoco che chi opera da indipendente come Ruggeri, ovviamente, non si può concedere.
Aggiungo anche, non che fosse necessario, il fatto che lavorare a un album senza aver certezza alcuna di quando poi lo si potrà portare dal vivo, seppur nell’anomala condizione di dover pubblicare lavori per far partire tour durante i quali poi i pezzi degli album nuovo possono trovare spazio solo in parte, i grandi classici richiesti a gran voce, ecco, questa incertezza sulle tempistiche che vedranno gli artisti ricalcare di nuovo le scene, e uno come Ruggeri di concerti ne faceva parecchi ogni anno, io personalmente credo di averne visti oltre la ventina da che vivo a Milano, credo che tutto questo porti inevitabilmente a un supplemento di amarezza, il periodo anomalo senz’altro ha offerto a chi come Ruggeri scrive guardando alla varia umanità che lo circonda un campionario di storie e di suggestioni infinito, non poterle racchiudere dentro canzoni, o non poter poi far sentire quelle canzoni sicuramente non è cosa facile, come del resto non è facile stare lontano dal proprio pubblico, lontano dal microfono.
L’America, canzone che presenta sonorità rock molto tradizionali, in parte anticipate da Alma, ahinoi ancora ultimo lavoro di studio della sua discografia, datato addirittura marzo 2019, mai in tutta la sua carriera c’è stato un buco così grande tra un album e il successivo, poi sviluppate alla grande in Bestemmio e prego di Massimo Bigi, il suo collaboratore che ha trovato l’esordio all’età di sessantadue anni e che ha visto Ruggeri nei panni del produttore esecutivo e la sua band al completo al servizio di canzoni decisamente di qualità, sonorità che si sposano perfettamente a un modo di scrivere tipicamente suo, la scansione delle parole sulle strofe, un certo modo tutto suo di pensare lo special, che sono di perfetto supporto a un testo importate, tutto giocato sulla contrapposizione tra le due vite di Chico Forti, prima e dopo l’arresto, ma anche tra due modi di guardare alla pietas, dalla parte di chi la prova e da parte di chi la suscita. L’America intesa come terra cui si guardava un tempo con la speranza di un futuro migliore, penso ai nostri migranti, o con l’impavido sguardo di chi non ha paura di correre rischi pur di trovare l’oro, metaforico e non, quell’America cui Chico Forti aveva guardato come meta finendo invece impigliato in una giustizia che poi tanto giunta non è, L’America divenuto il nuovo singolo di Enrico Ruggeri, al momento mi appare con i contorni familiari di un ritorno alla vita vissuta in mezzo agli altri, quella che ho praticato per cinquantuno anni e che vorrei presto tornare a praticare, con tutte le cautele del caso. Spero che almeno in questo Enrico si sbagli mentre ci canta “L’America è troppo lontana/ eppure io sono al suo interno/ la barca che sta sulla riva sbagliata”, per il resto, confermo, non ne sbaglia davvero una che fosse una.