Credo che l’Italia abbia un serio problema con la tifoseria.
Non sto parlando di calcio, né tanto meno degli ultras che, quando ancora le partite si potevano andare a vedere allo stadio, animavano curve e gradinate. Parlo di quella tendenza atavica nel nostro paese di dividersi in fazioni, in tifoserie, appunto, contrapposte. Bianchi o neri, guelfi o ghibellini, fascisti o comunisti. Contrapposizione che poi, incredibilmente, non è mai riuscita a dare vita a una condizione politica all’americana, quel duopolio che vedrebbe scontrarsi alle urne Democratici e Repubblicani, Sinistra e Destra, una scena politica frammentata in tanti partiti e addirittura in tante soccorrenti interne ai tanti partiti stessi.
Non c’è fatto che non dia il la a una presa di posizione netta, radicale, con conseguente tifo da stadio, da chi dovrebbe vincere il Grande Fratello Vip a come andrebbero gestiti i vaccini.
Noi italiani abbiamo anche un serio problema col senso di colpa, e quindi con l’idea di espiazione e redenzione.
Inutile star qui a cercarne le origini, direi che la presenza nel nostro suolo patrio del Vaticano potrebbe essere un buon indizio, ma credo che limitarci a questo renderebbe il discorso un filo superficiale.
Nei fatti tendiamo a stare sotto il gioco del senso di colpa, finendo per farci i conti su tutto. Per questo, poi, ci capita di dover trovare espedienti e escamotage per salvare la pellaccia, spesso ricorrendo a stratagemmi che mettano prima in pace noi con noi stessi che noi con chi ci sta intorno.
A metà degli anni Novanta ero un giovane ragazzo in cerca di se stesso. Nel senso che stavo facendo l’università e il servizio civile, mentre suonavo la chitarra in una banda hardcore e iniziavo a scrivere le prime cose, intuendo senza saperlo quello che sarebbe stato il mio futuro. Nel mentre guardavo il mondo, la morale dentro di me a provare a limitare le esperienze che avrei potuto incontrare spaziando per il cielo stellato sopra di me.
Facevo il servizio civile presso un dormitorio senza fissa dimora, a Falconara, dieci chilometri dalla mia città, Ancona. Ancona, per chi fosse poco ferrato in geografia, è posta al centro del litorale delle Marche, e chi come me è nato lì spesso si trova a indicarla a un qualsiasi interlocutore poco pratico, come a poche decine di chilometri da Rimini. Sembra che infatti tutti sappiano dove sia Rimini, questo non è un dettaglio da poco nel racconto che state leggendo.
Nel dormitorio passava di tutto, da ex ustascia scappati dalla guerra dei Balcani, era metà degli anni Novanta, ripeto, a centroafricani arrivati col barcone, passando per emarginati italiani che passavano la vita da un dormitorio all’altro. Molti erano alcolizzati, quasi tutti, alcuni erano anche tossici. Sono nato nel 1969, quando ero un bambino e un ragazzino l’eroina spopolava anche dalle mie parti. Mi capitava spesso di rientrare facendo zig zag su ragazzi che avevano adottato le tre scalette che portavano al portone del palazzo nel quale abitavo come punto per farsi le pere, lì svenuti con ancora l’ago in vena, e mi capitava anche di vedere Andrea, uno dei migliori amici di mio fratello Marco, farsi le pere sotto casa sua, nel cortiletto ben visibile dal nostro balcone. Andrea aveva visto il padre uccidere sua madre, mentre ancora abitava in Australia, dove era nato, questa cosa mia madre non mancava di ripeterla, come a voler giustificare quel suo farsi le pere. Forse anche a ragione. In quel caso il farsi le pere poteva essere l’espiazione del peccato del padre ricaduto sul figlio, pensavo, mancava la redenzione, a meno che la redenzione non fosse il piacere che il farsi le pere a occhi sembrava dargli sulle prime, il fatto che poi sia morto non ancora quarantenne potrebbe mettere in crisi questa strampalata tesi.
Non mi sono mai fatto le pere.
Non mi sono mai fatto una canna.
Non ho neanche mai fumato davvero una sigaretta, forse ci ho provato un paio di volte, per posa.
Avevo visto Andrea e gli altri ragazzi resi come zombie, pur non sapendo ancora cosa fosse uno zombie, sarebbero arrivati dopo nel mio immaginario, non mi sembrava poi così interessante andare a emularli.
Ero però in quella fascia di età nella quale sperimentare le cose del mondo è parte integrante dell’essere vivo. Volevo conoscere, ma avevo come tutti i sensi di colpa.
Ricordo, per dire, che molti, all’epoca, parliamo della prima comparsa in Italia dei negozi che affittavano videocassette, forse era già arrivato anche Blockbuster, o sarebbe arrivato di lì a poco, parlavano di porno non come qualcosa dedicato ai vecchi bavosi che si vedevano entrare nei pomeriggi infrasettimanali al cinema Salotto, quello che in città trasmetteva film a luci rosse, così si chiamavano allora, ma come qualcosa che in qualche modo potesse riguardare un po’ tutti. So che oggi, con la pornografia ovunque, a portata di click, un discorso del genere può suonare naif, ma l’idea è proprio quella di far capire come certi discorsi, un tempo, procedevano su binari diversi da quelli che siamo soliti utilizzare oggi. Non esisteva la rete, se volevi fare certe esperienze ti toccava armarti di coraggio, più o meno, e fartele in prima persona.
Non volendo né io né i miei amici, quelli della compagnia che frequentavo allora, andare per cinema a luci rosse, abbiamo optato per noleggiare una videocassetta. Piccola premessa, una sera io e Marina, ora mia moglie all’epoca la mia ragazza, siamo andati a vedere un film d’essai, Whore di Ken Russell. La storia raccontata era quella di una puttana, la whore del titolo. Il fatto che raccontasse la storia di una puttana aveva indotto il distributore italiano, il film era vietato ai minori di diciotto anni, a metterlo nel circuito dei film porno, motivo che ci ha visto entrare in un giorno infrasettimanale al cinema Salotto. La bigliettaia del Salotto era la moglie di Riccardo, il benzinaio che si trovava a una cinquantina di metri da casa di Marina, benzinaio che viveva con la moglie nella via retrostante casa sua. Vedendoci entrare, ovviamente, la signora ha fatto una faccia strana, di biasimo. Non mancherà poi di riferirlo alla madre di Marina, questo lo ricordo bene. La cosa potrebbe oggi far sorridere, la cassiera di un cinema a luci rosse, seppur a luci rosse solo durante la settimana, che biasima noi che andiamo a vedere un film, per altro erroneamente considerato a luci rosse. Il senso di colpa, siamo sempre lì.
Tornando a noi, io e gli amici della compagnia che frequentavo all’epoca decidiamo di noleggiare un porno, in una videoteca che notoriamente li noleggiava, si chiamava Venere Video, qualcosa avrà pur voluto dire. Si dice che il titolare addirittura li producesse, certi filmini, coinvolgendo signore e signori della Ancona bene, ma vai a capire se fosse vero. Il tipo è poi finito a fare il sacrestano alla Cattedrale di Ancona, non credo serva dire altro.
Dicevo il senso di colpa, e la ricerca disperata di una giustificazione per sopperire a esso. Dovendo scegliere un film decidiamo di scegliere quello considerato il più “colto”, quello di cui, per capirsi, aveva parlato anche Giona A. Nazzaro su Rumore, e se Giona A. Nazzaro, il critico cinematografico della nostra rivista musicale di riferimento parlava di un film dovevano per forza vederlo, capace che sia stato lui a spingermi a portare Marina a vedere Whore di Ken Russel, per dire, Gola Profonda. Il senso di colpa, ricordate?, tenuto a bada, almeno razionalmente.
Si trattava presumibilmente del primo film porno in qualche modo diventato mainstream, uscito cioè dal microcircuito del “proibito” e affacciatosi brevemente alla ribalta del pubblico di massa. Era la storia, piuttosto nota, di una ragazza incapace di provare piacere durante il sesso. Una ragazza, questa la trovata che spiega il titolo, che praticando sesso orale scoprirà di avere il clitoride in fondo alla gola. Non so se in realtà ai tempi conoscevo la parola clitoride, ma questo poco c’entra con la storia che sto raccontando. So però che nel mentre personaggi come Cicciolina e Moana Pozzi erano diventati mainstream, entrando anche in politica, senza che però la stessa sorte fosse capitata ai loro film. Pochi anni prima, a inizio anni Novanta, c’era stato un tentativo di sdoganamento del genere da parte di Tinto Brass, che aveva avuto un grande successo al cinema con film quali Paprika, con la debuttante Deborah Caprioglio, e Così fan tutte, con Claudia Kohl, oggi decisamente “redenta”, dopo aver iniziato quel percorso coinvolgendo Stefania Sandrelli nel film La chiave. Solo che quella era diventata una moda e né io né la mia compagnia era incline a seguire le mode, roba di massa, per lobotomizzati. Quella era una versione annacquata di quello che il porno era davvero, credo di aver letto sempre da Giona A. Nazzaro.
Affittiamo quindi il film e, seguendo una logica che dubito riuscirei a ricostruire anche consultando direttamente gli amici di allora, decidiamo di vederlo mentre ceniamo. Ricordo che era estate, perché a cena c’era qualcosa di fresco e leggero, prosciutto e melone. Ecco, se posso darvi un consiglio evitate di vedere Gola profonda a cena, la cosa risulterà complicata, addirittura buffa. Avevamo le nostre giustificazioni intellettuali, lì a disposizione, ma la visione ci ha mandato la cena per traverso, ricordo, per cui abbiamo spento il videoregistratore, credo alla prima fellatio, perché ricordo le scene di esplosioni e razzi che partono nel cielo, modo scelto dal regista per rendere l’idea del finalmente trovato orgasmo, e proseguito la serata chiacchierando, che era esattamente la nostra passione principale. Da quel giorno ogni volta che trovo prosciutto e melone in tavola provo un certo senso di disagio, Pavlov potrebbe spiegarmi il perché.
Comunque, seppur provando fastidio, forse il senso di colpa aveva agito anche più dello stomaco, avevamo quantomeno messo il flag alla casella porno, sapevamo di che si trattava, e quando ne avremmo sentito parlare, lo facevano molti, spesso più per sentito dire che per esperienza diretta, avremmo potuto dire la nostra.
Vengo a oggi.
Negli ultimi giorni, diciamo anche le ultime due settimane, entrare nei social è equivalso a leggere commenti riguardo SanPa, la serie Netflix legata alla comunità di San Patrignano e al suo fondatore Vincenzo Muccioli. Un continuo. Anche legittimo, ovviamente, come se sia possibile per chiunque stabilire di cosa sia o non sia legittimo parlare anche viralmente sui social, la serie sta avendo un enorme successo, sia in ordine di spettatori, in Italia e in giro per il mondo, sia per quel che riguarda l’eco mediatico che la serie medesima ha riscontrato, con l’ovvio ritorno in auge del personaggio di Muccioli, divisivo oggi come lo è stato in vita (sì, spoiler, Muccioli alla fine muore).
Chiunque, penso proprio chiunque, lo ha visto si è sentito più o meno in dovere di dire la sua, non solo sulla comunità di San Patrignano, anche sulla tossicodipendenza, sui metodi di Muccioli, su Muccioli stesso. Chi non ha Netflix o per un qualche motivo non lo ha visto, non ha potuto, non ha voluto, aveva judo, ha fatto battute, le classiche battute da social, tipo “vi segnalo una cosa di cui non parla nessuno: è uscita una docuserie su San Patrignano”.
Docuserie. Il termine docuserie credo non esistesse in natura prima dell’arrivo sulla piattaforma in questione di SanPa. E dire che di documentari a puntate, seppur documentari atipici, già ne erano girati parecchi, King Tiger, per dire, aveva anche avuto un certo successo. Il fatto è che durante il lock down le serie TV hanno avuto una accelerazione incredibile, andando a sopperire in tutto e per tutto i film e il cinema, come se la cosa non fosse già cominciata prima. Tutti tappati in casa e impossibilitati a incontrare gli altri, anche un po’ immobilizzati nei rapporti interpersonali dentro l’alcova familiare, per chi ha passato il lock down in famiglia, le serie sono diventate un vero e proprio calmante di massa, non dico lì per instupidirci, figuriamoci, ma per tenerci compagnia e salvaguardare quel briciolo della nostra sanità mentale che ancora fosse disponibile, normale, credo, che per lanciare un nuovo progetto, un progetto ambizioso, gigantesco, in tutto e per tutto italiano, si sia optato per questo neologismo, al solo scopo di spacciare per serie quella che serie non è. Detto questo, SanPa ha occupato militarmente i social, come forse era capitato in precedenza a poche altre serie, penso a La casa di carta. Forse anche di più. Se ne è parlato tanto perché la figura cui la serie è dedicata, Vincenzo Muccioli, a venticinque anni dalla morte, continua a essere in qualche modo centrale, sicuramente a permettere quello schieramento in squadre contrapposte che così tanto è caratteristico del nostro popolo, tanto più ora che i social ci hanno messo a disposizione un perfetto campo di battaglia.
Molti ne hanno parlato perché ai tempi c’erano, magari non a San Patrignano, intendiamoci, ma in Italia, conoscevano di seconda mano, pochissimi nella mia bolla la conoscevano di prima mano, posso dire con una certa sicurezza, il problema della tossicodipendenza, ricordavano l’ascesa di Muccioli e della sua comunità, i casi finiti in tribunale, la violenza e i misteri che dalla serie emergono.
Altri ne hanno parlato perché, troppo giovani, o addirittura ancora non nati, hanno scoperto questa cosa come fosse roba fresca e nuova, meravigliandosi che una storia così eclatante non fosse già arrivata loro, quasi guardando alla diffusione della droga, parte iniziale del racconto perfetto messo in piedi da Gianlunca Neri, da lui scritta con Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli, con l’aiuto di Elena Grillone e Grazia Sambruna, diretto da Cosima Spender, come qualcosa di fantascientifico, come è possobile?, lo Stato che faceva?, perché la gente sapendo che avrebbe fatto quella fine si bucava lo stesso?, ma davvero usavano le siringhe?, e tutta quella serie di domande senza risposta cui la serie SanPa Luci e tenebre di San Patrignano ha in qualche modo provato a dare risposta.
No, non è vero, tutta una serie di domande cui SanPa ha dato rilievo, mettendo sul tavolo elementi grazie al quale possiamo provare noi a dare risposte, o continuare a interrogarci sopra, un po’ più consapevoli.
Ora, non sono un critico cinematografico, né televisivo, ma sono uno scrittore, raccontare storie è parte del mio mestiere. Andrò quindi a dire brevemente la mia sulla serie, per poi passare a parlare di quel che mi preme parlare oggi. Credo che il team di lavoro messo su da Gianluca Neri, intellettuale già noto sin dai tempi di Clarence, sia qualcosa di incredibile e abbia soprattutto portato a un progetto incredibile.
Incredibile perché la forma usata per raccontare la vicenda in questione è stata trattata molto ma molto bene proprio da un punto di vista narrativo, riuscendo nell’impresa assai ostica di non farci fare il tifo pro o contro Muccioli, o di non farcelo fare fino al momento in cui buona parte della storia non è stata raccontata. Incredibile perché ha sì dato voce a una parte dei protagonisti, partendo dal presupposto che il vero protagonista non poteva che essere raccontato da fonti dell’epoca, e devo dire che il numero di filmati e interviste di Vincenzo Muccioli recuperate è davvero gigantesco, tutti molto molto a fuoco, per altro raccontati con un montaggio perfetto, un ritmo che ben simula il crescente interesse verso il fenomeno della comunità nata alle porte di Rimini, l’angoscia della piaga dell’eroina che nel mentre lobotomizza una generazione, finendo poi per seguire come l’acqua di un fiume che prende la forma del terreno che trova di fronte, certo, finendo magari per scavare e imporre la propria potenza, quindi incidendo sulla topografia, a tratti. Walter Delogu, il dottor Boschini, il magistrato Andreucci, il figlio di Muccioli, Andrea, i coniugi Moratti, ecco, io che ci fossero i Moratti di mezzo non lo ricordavo, Red Ronnie, soprattutto una figura davvero affascinantissima come quella di Fabio Cantelli, tutti gli intervistati sono usciti dalla docuserie in maniera quasi fisica, perfettamente delineati, caratterizzati dal loro specifico modo di parlare e di raccontare le cose, fondamentali per rendere il racconto vivido.
Poi si potrebbe dire che il racconto, seppur tentando una neutralità dichiarata nel sottotitolo, luci e tenebre, ha più raccontato le seconde che le prime, tesi per altro sposata dalla attuale gestione della comunità ha perentoriamente portato avanti, coadiuvata dalle prese di distanze di Letizia Moratti, recentemente tornata in auge con il suo ingresso nella Giunta regionale Lombarda, Assessore alla sanità al posto dello stanchino Gallera e vicepresidente a fianco di Fontana, e dello stesso Red Ronnie, molto presente nella serie ma altrettanto molto intenzionato a raccontare altrove, qui compreso, le luci a suo dire assai più importanti e presenti delle ombre, durissime le sue parole verso Walter Delogu, senza che io stia qui a spoilerare, figura controversa e al centro di quello da alcuni definito il tradimento che ha poi portato Muccioli al declino e alla morte a soli sessantuno anni. Si potrebbe dire che a parte le faccende processuali, in realtà raccontate con la terzietà del cronista, le tante voci a favore al fianco delle tante voci contro, magari chi non ha visto la serie e non ha memoria o conoscenza dei fatti lo ignora, ma le accuse verso Muccioli, le tenebre di cui sopra, vertono prevalentemente, non solo ma prevalentemente, su metodi poco ortodossi per tenere i ragazzi lontani dalla droga e quindi in comunità, metodi che, questo è emerso dai fatti di cronaca e quindi anche dalla docuserie, andavano dalla segregazione di chi provava a scappare in tuguri che andavano da una piccionaia a un tino, sì, un tino, catene e mazzate incluse, a una sorta di cameratismo manesco che prevedeva violenze fisiche anche estreme, il caso più eclatante è la morte di Roberto Maranzano, picchiato brutalmente da uno dei responsabili della comunità e il cui cadavere è stato occultato, dalle indagini poi emerse con il favoreggiamento da parte di Muccioli stesso, qui a raccontare la faccenda è chiamato anche il figlio, dando ovviamente al racconto un tocco emotivo che fa pendere la bilancia contro Muccioli, a fianco di casi sospetti di suicidio, come quello di Natalia Berla, raccontata in maniera emotivamente potente dal suo fratello gemello, si potrebbe dire che, a parte le faccende processuali, proprio i racconti di personaggi potenti come il dottor Boschini, uno dei primi ragazzi della comunità, laureatosi mentre ancora era “in cura” e poi divenuto medico dell’ambulatorio di San Patrignano, così come di Fabio Cantelli, un personaggio colto e profondo che non riesca a prendere evidentemente una posizione netta tra giudizio morale, Muccioli non gli ha detto per quattro anni che era sieropositivo, quando l’Aids era ancora una malattia considerata incurabile, e gli ha tenuto nascoste tante sfumature dei casi processuali quando lui, Cantelli, era diventato responsabile della comunicazione della comunità, mettendolo evidentemente in difficoltà, si potrebbe dire che la potenza delle loro voci riesca nell’impresa difficilissima di tenere qualsiasi giudizio tranchant alla porta, perché è vero che alcuni fatti raccontati sono davvero orribili, ma è anche vero che di vite salvate con quei metodi parafascisti, sono tante, le loro in primis.
Il dubbio, che per altro trapela in alcuni casi, rari, anche dalle parole di Andrea Muccioli, certamente intenzionato a difendere la memoria del padre, ma non sempre ferreo nel difenderne tutte le azioni e tutte le scelte, credo sia il vero protagonista di questa docuserie, per questo credo che avere una posizione troppo radicale, penso a Red Ronnie che si autodefinisce un soldato e che arriva a invocare una santificazione di Muccioli, mal rendano in termini di sostegno proprio a colui nei confronti del quale il nostro ha dimostrato abnegazione, dubbio che trapela anche le parole di Delogu, sicuramente l’antagonista, in termini narrativi, di Muccioli, prima suo braccio destro e poi, volontariamente o meno, colui che lo ha messo più in crisi, mi sembra il vero protagonista della serie, e in questo, va detto, un progetto documentaristico che riesca a creare intorno a sé una tale discussione, parlando di una storia che si è svolta trenta e passa anni fa, addirittura che ponga il problema dell’eroina, dell’eroina di stato, intesa come piaga che ha in qualche modo reso lo stato immobile, permettendo o costringendo, qui sì, si finirebbe nel tifo, a un privato cittadino di dar vita a una sorta di città stato a sé stante, regole non permesse altrove, metodi non canonici, un progetto documentaristico che, pur guardando al mondo, quindi dovendo escludere temi sicuramente fondamentali quali la Legge Basaglia, legge che ha creato la zona grigia dentro la quale Muccioli si è trovato a agire, mi sembra davvero ben riuscita.
Qualcuno potrebbe ovviare che una docuserie che non prenda posizione, o che la prenda in maniera ambigua, sia un filo democristiana, il che renderebbe per altro ridicole le voci di partiagianeria da parte dei detrattori di SanPa, come qualcun altro potrebbe ovviare che tirare in ballo la presunta sieropositività e omosessualità di Muccioli sia invece un tentativo bieco di imbrattarne il ricordo, ma a mio modo di vedere porre domande e insinuare dubbi è esercizio assai più interessante che procedere per tesi, e indubbiamente SanPa non è partito da una tesi e una tesi non ha dimostrato. Resta l’idea di una visione della vita molto intrisa di quel senso di colpa, con conseguente idea di dover espiare per poter arrivare alla redenzione di cui parlavo sopra, probabilmente a sproposito, idea che Muccioli, uomo più grande della vita, capace di aggirare le leggi dello stato e uscirne impunito, di chiamare a sé la politica e in qualche modo manipolarla invece che venirne manipolato, ripeto, un uomo più grande della vita, per dirla all’americana, gigantesco come carisma tanto quanto come stazza, grande passione per l’esoterismo e in qualche modo ascrivibile alla categoria dei santoni, non ha mai mancato di esplicitare in una metodologia di approccio alla droga decisamente sbagliata, che ha portato però anche a buoni, ottimi risultati.
Se la domanda da cui Neri e soci sono partiti era: fin dove ci si può spingere quando si vuole fare il bene, si può sconfinare anche nel male?, direi che l’impresa è riuscita alla grande.