A Milano ha nevicato.
Non è una grande notizia, siamo a fine dicembre, Milano non è troppo lontana dalle montagne, dalla finestra della mia camera da letto le posso vedere, direi che la neve non è un fenomeno poi così raro.
A Milano ha nevicato e io non ho sbroccato, allora.
Ecco, qui già c’è una novità, magari non a livello mondiale, questo è il mio diario della pandemia, non il vostro, naturale che parli di quel che succede a partire da me. Io odio la neve. Nel senso, mi piace a vedersi, come credo un po’ a tutti, non tanto per la faccenda del candore e quelle storielle lì, credo che riguardo al candore della neve, se abiti a Milano, puoi anche non credere, quanto piuttosto perché vedere una città di suo non strepitosa coperta di un manto bianco e ovattato è uno spettacolo interessante, raro, per di più, e questo pure concede al tutto un tocco di ulteriore piacevolezza, come di quei piatti che seppur buoni andiamo a mangiare una volta ogni tanto, con morigeratezza, finendo per associarli a eventi speciali e quindi ulteriormente piacevoli. Io comunque odio la neve, e la odio perché la neve, per quanto bella a vedersi, tende presto a trasformarsi in paccottiglia vischiosa e tendente al pantano, e perché tende di notte a trasformarsi in lastrone di ghiaccio, col risultato che o ti ci immergi dentro fino alle caviglie o ci scivoli sopra, se sei a piedi, e o ci affondi dentro le ruote che poi girano a vuoto o ce le lasci scivolare sopra, nel caso delle macchine. Sia come sia è scomoda, molto, anche fortemente penalizzante, nel caso tu ti debba spostare in auto, e quanto alla bellezza, è vero che le cose belle spesso durano poco, ma è pur vero che in genere le cose belle che durano poco non ti infangano le scarpe o non ti fanno fare nuova la fiancata della macchina.
Odio la neve, è un fatto. E la probabilità che nevichi proprio durante le feste natalizie, come questo anno, mi ha spesso fatto passare per un Grinch nei confronti dei miei figli, tutti invece grandi fan della neve, come anche mia moglie Marina, loro a implorare Dio che nevicasse copiosamente, io a sacramentare al primo fiocco, io il solo consapevole che la neve, specie quando noi si è in Ancona, città fatta di salite e discese e del tutto sprovvista di mezzi spargineve e spalaneve, equivale a rimanere bloccati in casa, senza la possibilità di andare in alcun dove e di fare alcunché. Mi è capitato, del resto, un anno, di farmi Milano-Ancona in autostrada, all’epoca eravamo solo io, Marina e Lucia, la nostra primogenita, di un paio di anni neanche, a bordo della nostra Punto Blu, sotto una tremenda tempesta di neve. In quel caso non potevamo non partire, avevamo un cosa da fare presso un notaio, ma il viaggio è stato davvero terrificante, la macchina che slittava, monti di neve ovunque, lo sguardo che faticava a abituarsi a tutto quel bianco accecante, al punto che abbiamo finito per piazzarci dietro a un gatto delle nevi e farci i quattrocento chilometri in non so più quante ore, maledicendo la neve, Zeus, il notaio e chi voleva che da quel notaio andassimo a tutti i costi.
Anche da piccolo ho sempre odiato la neve, a dirla tutta. Ricordo un solo episodio in cui l’ho amata, quando nevicò il 5 gennaio, impedendoci di rientrare a scuola come previsto il 7, dopo la befana. Ricordo che in quell’occasione andai a usare buste grandi dell’immondizia come fossero un bob dalle parti di via Angelini, dove anche oggi c’è un osservatorio spaziale, sto parlando sempre di Ancona, col mio amico dell’epoca Luca e ricordo quella giornata come qualcosa di insolito, a Ancona ripeto non nevica quasi mai (lì si dice che la sola neve che attacca è quella che viene da est, dal mare, ma chi lo dice in genere non saprebbe riconoscere una neve che viene da est neanche se ci fosse scritto su, tipo Made in China). Ho invece ricordi agghiaccianti di quando, poco dopo quella nevicata, mi ritrovai a scalare la vetta dell’Adamello con un gruppo di seminaristi della mia regione. Mi ero appena iscritto al Liceo Classico, dopo essere stato promosso al primo anno di ragioneria e aver capito, su suggerimento di buona parte dei professori, che non era quella la mia strada, io uno dei cinque promossi su tutta la classe, e mi ero iscritto a quel Liceo Classico lì, quello chiamato Liceo Ginnasio Cappuccini, perché stavo seriamente prendendo in considerazione l’idea di entrare in seminario. Prima dell’inizio della scuola, quindi, d’estate, ero stato mandato in vacanza coi seminaristi, per familiarizzare con loro. La vacanza era non ricordo esattamente dove, comunque in posti che conoscevo abbastanza bene. Non ero però mai andato fin sulla vetta dell’Adamello. Con la mia famiglia ero stato più volte da quelle parti, ricordo di aver visto l’orso Adamello, nome preso dal monte che lo ospitava, tenuto in una gabbia nei pressi di un rifugio. Ricordo che si muoveva ritmicamente, ciondolando la testa avanti e dietro, come impazzito. Non sono mai stato un animalista, ma ho sempre pensato che tenere animali in gabbia sia crudele. Anche gli uomini. Per questo ho sviluppato un forte senso di anarchia, senso di anarchia che ha fatto sì che io non entrassi poi in seminario, ma questa è altra faccenda. Quel giorno ci arrampicammo su per l’Adamello, prima camminando su rocce, e poi su lastrone di ghiaccio a picco sul nulla. All’epoca soffrivo ancora di vertigini, oltre che di attacchi di panico, stare lì su un crinale, uno strapiombo a destra e uno a sinistra, la neve trasformata in ghiaccio sotto i piedi non ha certo contribuito a cementare in me l’amore per la montagna. Al punto che, a pochi passi dalla vetta, mi sono fermato, rifiutandomi di proseguire. E anche lì, essere lasciato solo sul medesimo crinale, credo abbia invece accelerato incredibilmente il mio odio per la neve e tutto quello che ruota intorno all’idea di sport montano.
Odio la neve, confermo, ma stavolta a vedere Milano coperta di neve ho gioito. Sapevo già sarebbe arrivata la neve, nottetempo, le previsioni lo annunciavano con sicumera da tempo, quindi non è stata tanto una sorpresa, ma a giocare a favore di quel mio esserne felice c’è stato il nostro non poter uscire da Milano, causa zona Arancione imposta da decreto governativo. Come dire, siccome comunque non potrei muovermi, anche volendo, che almeno nevichi e ci sia anche un motivo meteorologico a impormelo.
Ovviamente non è solo questo, non sono così cervellotico. C’è anche che a me spiace in genere negare ai miei figli una qualsiasi forma di gioia, e quindi so che quando impreco al primo fiocco di neve, in altre occasioni, intendo, loro ci restano male. Stavolta la macchina sarebbe comunque rimasta ferma, tanto vale festeggiare con loro. Cosa che in effetti è accaduta. Contravvenendo a un programma assai più preciso e rigoroso di quello per i vaccini, non a caso a farlo non è Arcui o il ministro Speranza ma Marina, mia moglie, abbiamo infatti deciso di spostare al pomeriggio l’incombenza dei compiti dei gemelli, e anche del mio star qui a scrivere, il mio diario arriva oggi con un giorno di delay, lo avrete notato, e siamo usciti tutti e sei, cioè il nucleo stretto della mia famiglia suocera esclusa, per andare a fare una passeggiata verso il centro, con conseguente pallate di neve. No, io non ho fatto a pallate di neve, perché come vi ho raccontato ho il dito sgarrato, la ferita ancora aperta e sanguinante, ma sono comunque andato in giro con mia moglie e i nostri figli, ben felice che l’un tempo efficentissimo Comune di Milano almeno per stavolta abbia clamorosamente cannato lo spargimento di sale per le strade, la città ci si è mostrata come una abbondante distesa di neve bianca in tutta la sua estensione.
Abbiamo passeggiato, i figli si sono presi a palle di neve, siamo andati a salutare amici, noi in strada loro alla finestra di casa, abbiamo ammirato pupazzi di neve di varia foggia e natura, siamo arrivati in zona assai di traffico, incontrando gente, ma meno di quella che avremmo pensato, per poi vedere, appunto, la neve trasformarsi lentamente in neve sciolta, in alcuni casi nella famosa poltiglia di cui sopra. Tutti erano vestiti per l’occasione, parlo dei miei familiari, mia moglie Marina ha portato negli anni i gemelli a sciare con la scuola, noi siamo gente di mare, non sappiamo sciare, e nel mio caso specifico, anche per i motivi di cui sopra, non ho alcuna intenzione di imparare a farlo. Io indossavo un paio di jeans su un paio di scarpe da trekking che, tempo dieci minuti, si sono trasformati in una sorta di tortura medievale, di quelle che tanto appassionano il mio amico Federico Zampaglione, noto per essere la voce e la sola anima dei Tiromancino, certo, ma anche per essere uno dei nostri registi cinematografici horror più apprezzati al mondo.
Ho quindi camminato per due ore con le gambe in stato di ipotermia, il che, unito al dito sgarrato e pulsante della mia mano destra, per l’occasione artificiosamente e goffamente protetto dalla neve per mezzo di un pollice di un guanto di lattice di quelli monouso indossato come un cappuccio, vedi a volte come ci si ingegna nel caso di necessità, mi ha reso la bella passeggiata un filo difficoltosa, ciò non di meno nessun lamento è uscito dalla mia bocca, come a voler far mio il famoso Canto della neve silenziosa di Hubert Selby jr.
Ora, questo mio aver raccontato di come io da sempre, o quasi, covi in me una sorta di idiosincrasia nei confronti della neve, idiosincrasia maturata nel tempo, direi anche con un certo grado di ragione, ma aver anche raccontato di come io sia tornato almeno per una volta sui miei passi, il tutto senza star qui a citare stupide massime come “solo gli stupidi,” appunto, “non cambiano mai idea”, unito al fatto che abbia poi buttato lì con una certa nonchalance il nome di Hubert Selby Jr, probabilmente lo scrittore più amato dalla scena rock americana dopo William S. Burroughs, da Lou Reed a Lydia Lunch tanti sono gli artisti che si sono confrontati negli anni con lui, immortale autore di romanzi quali Ultima uscita Brooklyn o Requiem per un sogno, come della succitata raccolta di racconti Il canto della neve silenziosa, mi concede un passaggio all’argomento musicale che avevo in realtà deciso di affrontare oggi, sin da quando ho visto che in effetti il meteo ci aveva beccato e aveva nevicato forte su Milano, Henry Rollins.
Artista assai poliedrico, prima divenuto famoso con cantante e leader dei Black Flag, seminale band hardcore della scena di Washington, poi titolare di una propria band, la Henry Rollins Band, appunto, uno stile di canto riconoscibilissimo, potente e arrabbiato, con testi molto politicizzati, lui come gli altri artisti della medesima scena fortemente legati alla filosofia straight-edge, quindi niente droghe o alcool, il tutto assai “originale” nel contesto punk, impegnato in prima persona per la difesa dei diritti degli omosessuali, contrario alla guerra, Henry Rollins ha dimostrato di non essere solo un grande artista e performer, vederlo sul palco è come farsi un bagno nell’adrenalina bevendo sott’acqua, ma di avere molte frecce nella propria faretra. Sin da subito, infatti, divenuto autore dei testi dei Black Flag, andarsi a riascoltate Damaged, oggi, a quasi quarant’anni dall’uscita, è infatti del 1981, è un dovere morale, come ascoltarsi Slip It In, di tre anni dopo, Henry sviluppa un talento unico nella scrittura dei testi, finendo non solo per scrivere e pubblicare parecchi libri ma anche tutta una serie di album di Spoken Word, uno anche con lo stesso Hubert Selby JR, suo grande amico. Questa dei dischi di spoken words, cioè album nei quali l’artista legge suoi scritti, suoi monologhi, o a volte li recita improvvisandoli, in alcuni casi anche accompagnato da musica originale, è qualcosa che da noi manca. In America ne hanno fatti di bellissimi Jello Biafra, leader dei Dead Kennedys e fondatore della Alternative Tentacles, Lydia Lunch, i Disposable Heroes of Hiphoprisy di Michael Franti con William Burroughs, Jim Carroll, attivo anche con la band che porta il suo nome e come romanziere, i suoi Basketball Diaries sono fondamentali, come del resto sono fondamentali gli album di spoken words di Gil Scott Heron e quelli dei Last Poests, da molti identificati come i padri spirituali e anche fisiologici della prima scena rap. L’album parlato di Henry Rollins del 1995 Get in the Van: On the Road with Black Flag è valso a Henry Rollins il Grammy Award, premio solitamente destinato a politici o intellettuali, ripeto in America questa specie di prodotti ha un suo mercato prolifico, e gente come i Clinton o gli Obama hanno a loro volta portato a casa diversi di questi premi.
Ma siccome se si è poliedrici si è poliedrici, Rollins ha fatto radio, show televisivi, tour come autore di monologhi e ha una carriera di tutto rispetto nel cinema e in tv, il prete neonazista che ha interpretato in Sons of Anarchy, credo, varrebbe una qualsiasi carriera (la splendida serie in questione ha ospitato altri rocker, da Dave Navarro dei Jane’s Addiction a Marylin Manson, con cameo altrettanto significativi come quello di Courtney Love, Stephen King o Jenna Jameson).
Quindi la neve a Milano, il mio odio radicale per la neve e il mio cambiare idea a riguardo, almeno per una volta, il mio citare Hubert Selby jr e il suo Il Canto della neve silenziosa, il mio passare a parlare di chi ha fatto della radicalità straight edge il fulcro della sua poetica, Henry Rollins, per altro grande amico e collaboratore dello stesso Hubert Selby Jr., il cerchio si chiude.
In realtà il cerchio si chiuderà nelle prossime settimane, ma ve ne parlerò meglio in seguito, a momento debito, quando passerò dalla parola scritta a qualcosa che a uno spoken words album si avvicina. Intendiamoci, non sono Henry Rollins, seppur condivida con lui una certa radicalità e, dai, concedetemi un vezzo di autoriferimento ulteriore, una certa poliedricità, ho scritto libri, articoli, canzoni, opere teatrali, ho fatto programmi radio e tv, e ho anche scritto per il cinema, ma non ho mai fatto uno album con la mia voce, no. Farò invece un podcast, che alle tracce di un album di spoker words si avvicina parecchio e forse ne è versione aggiornata e contemporanea. Questo sarà uno dei primi progetti dell’anno a venire. Nella speranza che nel mentre siano arrivate buone notizie dal fronte. E che abbia anche smesso di nevicare.