Il giorno di Natale mi sono sgarrato un dito. Non un dito qualsiasi, a essere precisi, mi sono aperto in due la falangetta, so che si chiama così per un ricordo scolastico a base di “falange, falangina e falangetta” dell’indice della mano destra. Io sono ambidestro, nel senso che mi è stato detto, in età adulta, che ero un mancino che si è autoadeguato a usare la destra, come facevano tutti, ma so usare la mano sinistra quasi come la mano destra. Idem con i piedi, quando gioco a calcio. Quasi, però, perché poi certe cose mi sono abituato a farle con la destra, come tutti. Ma ci arrivo.
È andata così. Esco dalla mia camera da letto, dopo essermi fatto la doccia e vestito. In camera le finestre sono aperte, per cambiare aria. Ma tutte le finestre di casa sono state aperte in contemporanea, per cambiare aria. Abito al settimo piano, ho casa triesposta, e la mia camera dà verso i monti, li vedo innevati anche ora. La corrente è fortissima. La porta si chiude con la violenza di una ghigliottina sul mio dito, aprendomi la punta dell’indice in due, all’interno. Impreco. Inizio a sanguinare come in un film di Robert Rodriguez, le dita sono piene di vasi sanguigni, ovviamente non di arterie. So che non morirò dissanguato, per capirsi, ma ciò non toglie che mi faccia un male cane e che io stia sporcando di sangue mezza casa. Corro in bagno, mettendo la mano sotto il lavandino e chiamando mia moglie Marina. Marina, in altra occasione, sarebbe incavolata perché ho sporcato in terra, ma è lei che ha incautamente aperto tutte le finestre. Di più, ha anche messo dei cuori natalizi nella maniglia della porta, fatto che ha in qualche modo impedito alla porta di chiudersi normalmente, incastrando il mio dito. È la mattina di Natale. È la mattina di Natale del 2020, l’anno del Covid. Già l’idea di andare al Pronto Soccorso il giorno di Natale, a rischio di saltare il pranzo in famiglia, mi prenderebbe male. Andare al Pronto Soccorso oggi, col rischio supplettivo di finire incastrato dentro un qualche protocollo Covid è assolutamente impensabile. Marina ha tirato fuori dai cassetti del mobile del bagno garze che non sapevo ci fossero. Ha iniziato a fasciarmi il dito in maniera goffa, ora sembra una sorta di pupazzo di neve. Le dico, non in maniera calmissima, che non credo sia una fasciatura corretta. Lei chiama la madre, mia suocera, che in cucina sta finalizzando il pranzo per Natale. Siamo rimasti a Milano, per la prima volta in vita nostra. Siamo solo noi che conviviamo, e dire soli visto che si parla di sette persone, nello specifico i sei del nostro nucleo familiare, io, Marina, mia moglie, e i nostri quattro figli, più mia suocera, che in genere sverna con noi per darci una mano coi gemelli, ma che nello specifico è rimasta con noi anche per evitare di rimanere letteralmente da solo in Ancona, ecco, dire soli, nel nostro caso, fa ridere, ma era per specificare che non siamo al nostro solito Natale, con la famiglia di mia cognata con noi nella casa di Ancona e coi miei genitori, la famiglia di mio fratello Marco e quella di mia sorella Caterina, da vedere nel corso delle feste, siamo quindi per la prima volta a Milano e solo noi conviventi, ma almeno il menu natalizio è salvo, quasi uguale a quello che abbiamo in Ancona. Abbiamo anche rispettato la faccenda di Babbo Natale che passa prima della cena della vigilia. Certo, è il primo anno che i gemelli non lo hanno visto, ma è arrivato, ha suonato e quando abbiamo aperto c’erano tutti regali davanti la porta, la luce accesa nel pianerottolo, probabilmente ce lo siamo persi per poco. Di solito, ne parlavo giorni fa, erano amici o parenti che si prestavano a mascherarsi. Quest’anno ho coinvolto Lucia, la figlia maggiore, che si è preso l’incarico di vestire tutti per la cena, mettendo glitter e papillon vari, questo mentre io mettevo i regali fuori dalla porta e, complice la solita musica che in camera di Lucia è fissa e a alto volume, ho suonato il campanello e poi chiuso la porta, potendo poi correre dai bambini chiamandoli con l’urgenza di chi pensa ci sia Babbo Natale fuori dalla porta. Non so se ci abbiano creduto, non so neanche se ci credano più, ma abbiamo tutti dato per assodato che Babbo Natale è passato e ci siamo aperti i doni, esattamente quelli chiesti nelle letterine.
Comunque, io sto pisciando sangue dal dito indice della mia mano sinistra, goffamente fasciato. Marina chiama la madre, perché, dice, lei sa come fare. È una sarta, aggiunge, a riprova della sua tesi. Questa faccenda dell’essere sarta è curiosa. È vero, mia suocera è un’ottima sarta. Sa anche cucinare molto bene. Essere una sarta significa saper fare vestiti, o aggiustare vestiti. Più in generale sapere come tagliare e cucire stoffe. Stoffe, appunto. Durante il primo lock down, quello di marzo, Tommaso, il nostro secondo figlio, ora quindici anni, ha come spesso fa da che è adolescente, canalizzato il suo odio per questa anomala situazione che ci stavamo trovando a vivere contro di me. Sono il padre, il maschio alpha di casa, e non solo di casa, credo sia normale succeda questo. Lui, che è un tipo placido, mi attacca, cercando, dialetticamente e metaforicamente, di uccidermi, immagino per provare a trovare il proprio posto nel mondo. Una vita dura, la sua, perché io sono ingombrante, sono appunto un maschio alpha, e ho anche una certa naturale predisposizione per le polemiche. A volte, e so che un bravo psicologo potrebbe dirmi che non è esattamente la cosa giustissima da fare, lo porto in bagno, dove c’è un mobile con un grande specchio, gli mostro noi due, uno a fianco all’altro, lui coi suoi lineamenti dolci, assomiglia a Marina, e ha ancora i tratti di chi è adolescente ma lo è da non così tanto tempo da aver nascosto il suo essere stato bambino, qualche peletto sopra il labbro, un accenno di ridicole basette, io con la mia faccia da narcotrafficante, gli zigomi spigolosi, la barba di Tom Hanks in Cast Away, gli mostro noi due e gli chiedo che possibilità possa mai avere uno con la sua faccia di far paura a uno con la mia faccia, sottintendendo, non credo servano disegnini di supporto, che non basta il suo urlarmi contro per spaventarmi. Comunque lui, imperterrito, mi urla contro, provando, metaforicamente, a pisciare negli angoli di casa, piccolo predatore che cerca di delineare il suo territorio. Così, nei primi giorni del primo lock down, vi dico questo mentre, nel racconto, sto ancora pisciando sangue nel lavandino del bagno, Marina che chiama sua madre che è sarta e saprà come fare la fasciatura giusta, Tommaso ha iniziato a inveire contro di me che, a suo dire, gli ho impedito di andare dal barbiere per sistemarsi i capelli e ora i barbieri sono chiusi e lui non se li può più tagliare. Probabilmente ha una qualche porzione di ragione, non saprei, non ricordo, nei fatti i barbieri sono chiusi e lui sta a casa, direi che anche avere i capelli un po’ più lunghi del solito è un male sopportabile. Lui, Tommaso, non la pensa così. Urla e sbraita. Io gli rido in faccia, perché per me è sempre il patatino del solito. Questa cosa, di lui che sbraita e io che gli rido in faccia, immagino, lo fa ulteriormente imbestialire.
Mi fermo un attimo. Sto scrivendo con più fatica del solito, perché io di solito scrivo usando tutte e dieci le dita, senza neanche guardare la tastiera del portatile, ma siccome non posso usare l’indice della mano destra, poi vi racconterò come è andata a finire, ma me lo sono sgarrato, ghigliottinato dalla porta e dalla corrente, non dimenticatelo, mentre stavolta uso le cinque dita dalle mano sinistra e il solo dito medio della destra, mentre per altro il dito indice, fasciato pulsa e sanguina sotto la fasciatura, vogliatemi bene, lo faccio per voi.
Questo mio raccontarvi dello scontro generazionale e familiare tra me e mio figlio, io cinquantuno anni, lui quindici, mi fa uscire fuori come una sorta di orco. Lo so. Cioè, il racconto risulta simpatico, lo so, è il mio mestiere scrivere, so che mettere la mia famiglia al centro della scena funziona, proprio alla vigilia di Natale ho ricevuto un sacco di messaggi di gente che non conosco, se non di nome, sui social, che mi diceva che la mia famiglia aveva fatto loro compagnia proprio attraverso questo diario. Ma so anche che io ne esco male, malissimo, come un aguzzino che bullizza il figlio adolescente. Fossimo in The Crown, serie che sto vedendo con Marina, sarei tipo Filippo che spinge Carlo a andare nel collegio che anche lui ha frequentato da piccolo, sottoponendolo a una vita durissima, al solo scopo di prepararlo a una vita reale, non nel senso di “da re”, ma di “una vita ancorata alla realtà”, vita che Carlo mai dovrà vivere, essendo il figlio della Regina. Chiaramente, converrete con me, io in questa storia non sono solo Filippo, sono anche lo sceneggiatore e il regista di The Crown, quindi provate a andare oltre questa momentanea antipatia nei miei confronti, in fondo sono quello col dito aperto che spisciola sangue dentro il proprio lavandino, e anzi, apprezzate che per farvi empatizzare con un adolescente io abbia deciso di sacrificare me stesso, facendo uscire lui come quello che subisce angherie, quello per cui tenere, e me stesso come lo stronzo.
Riprendo.
Tommaso mi attacca. Ha i capelli come Napo Orsocapo, lui non dice così, non sa chi sia Napo Orsocapo. Io sì, Marina anche. Siamo entrambi ricci. Entrambi siamo stati sfottuti così, da piccoli, da un piccolo esercito di nazisti coi capelli lisci, i nostri compagni di scuola. Dai, ecco che tornate un po’ a simpatizzare per me. Tommaso vuole tagliarsi i capelli, urla. La cosa è infattibile. Ma siccome il punto non sono i capelli, ma che io, il padre, devo metaforicamente morire, lui non sente ragioni. Tommaso vuole che glieli tagli io, con la macchinetta per sfoltire la barba. Vi sarà evidente, se mi avete mia visto in faccia, ma anche solo se avete letto con attenzione quanto scritto sopra, che io non ho una grande propensione a andare dal barbiere, e che anche da solo non tendo a tagliarmi spesso la barba, il citare il Tom Hanks di Cast Away questo indicava. La macchinetta per sfoltire la barba la uso molto raramente e male. Non saprei affatto come usarla per tagliare i capelli, e soprattutto non ritengo che tagliare i capelli sia, al momento, una priorità. Faccio un breve recap, al momento, mentre racconto, ho un dito aperto in due, mia moglie al mio fianco che chiama mia suocera per provare a fermare il sangue, ma il racconto che faccio è ambientato a marzo, durante il primo lock down, il futuro assai incerto davanti a noi. Per altro, dettaglio non da poco, io devo andare a fare la spesa, e fare la spesa durante il primo lock down era impresa assai ostica, due, tre ore di coda, lo sguardo ostile degli altri, la mancanza di prodotti negli scaffali, la paura di ulteriori blocchi, ricorderete bene tutto ciò. Lo lascio che sta urlando contro di me, come in una tragedia, e vado a fare la spesa. Torno sfinito, per la tensione, per la disabitudine a portare la mascherina, per tutto. Il tempo di disinfettarmi, togliermi tutti i vestiti e farmi una doccia, nel primo lock down eravamo più massimalisti di adesso, credo, che me lo trovo davanti con un berretto di lana calato in testa e la faccia di chi ha fatto una immane idiozia. Io sono stanco, seppure viva di fantasia non mi viene in mente niente di intelligente, sul momento. Tanto so che ci penserà lui a dirmelo. Infatti ecco che riprende a attaccarmi, stavolta accusandomi di averlo costretto, dice proprio così, a farsi tagliare i capelli da mia suocera, col risultato che ne consegue. Il risultato che ne consegue, che al momento mi si para in tutta la sua agghiacciante ridicolaggine. Pensate al Giovanni Lindo Ferretti epoca CCCP-Fedeli alla Linea. Ecco, pensate a quel Giovanni Lindo Ferretti lì e provate a spingervi un po’ oltre, diciamo in area situazionismo spinto, come se Tommaso fosse una Orlan che ha deciso di modificare il proprio corpo a partire dai capelli. Una pettinatura sghemba, con chiazze di vuoto qua e là, nessuna precisa linea estetica, una roba che probabilmente neanche un Timoty Leary sotto acido. Lo guardo e ovviamente scoppio a ridere, per quanto io sia stanchissimo dall’essere stato tre ore in fila davanti al supermercato. Lui sta gridando che è stato costretto a chiedere alla nonna, mia suocera, di tagliarglieli, e che lei ha fatto tutto questo. Vorrei chiedergli perché sia ricorso a mia suocera, sua nonna, ma so già la risposta. Lei è sarta, mi direbbe, sa come tagliare. Il punto è che lei non è una di quelle sarte strane, che poi magari ci ritroveremmo sul colonnino di destra di un qualche quotidiano online, nelle stravaganze, di quelle sarte che cuce abiti coi capelli umani, non prima di aver fatto acconciature ai titolari di detti capelli, lei è una sarta che fa abiti con stoffe e tessuti. Quindi gli ha fatto una pettinatura che un qualsiasi punk neanche dopo essersi sniffati tutta la colla vinilica di casa Muciaccia si sarebbe potuto immaginare. A quel punto, armato della famosa macchinetta, ci ho messo le mani io, facendogli una sfumatura alta tipo Alberto Sordi in quel film nel quale era emigrato in Australia, rasando tutto in maniera uniforme e, in qualche modo, mettendoci una pezza. Se dicessi che questa cosa non è poi diventata una arma a mia favore nei nostri scontri epici mentirei, sono una brutta persona, e anche mia suocera, temo, ha nei mesi subito qualche sfottò a riguardo, io le continuo a dare del lei nonostante la conosca da trentadue anni e mezzo, e lei vive lunga parte dell’anno con me, ma ciò non di meno siamo molto in confidenza. Al punto che, quando finalmente arriva in bagno, siamo tornati alla mattina di Natale, la porta di camera mia mi ha appena aperto in due la falangetta dell’indice della mano destra e io mi sto dissanguando sopra il lavandino, quando finalmente arriva in bagno e Marina le dice “Aiuta Michele a fasciarsi il dito”, e lei risponde, “Mamma mia, non farmi guardare che mi fa brutto”, io inizio a ridere. Lo so, se non riusciremo a fermare il sangue passerò Natale al Pronto Soccorso di un qualsiasi ospedale milanese, col delirio dei protocolli Covid e col rischio evidente non solo di stare lontano dai miei cari, ma di contagiarmi, ma al momento mi viene da ridere. Lo faccio. Poi chiudo con un cerotto la fasciatura a pupazzo di neve fatto da Marina, mi infilo scarpe, cappotto e mascherina e corro in farmacia. È Natale, le farmacie sono chiuse, e la zona rossa non mi fa incontrare che altre due auto mentre vado verso la sola aperta per turno nella mia zona, a un paio di chilometri da casa. Entro, mi compro una scatola di Steri-Strip, quei cerottini fatti a sottili strisce che fungono da simil-punti, li metti perpendicolarmente al taglio e tiene la carne e la pelle insieme, mi ha detto la farmacista, e torno a casa. La faccio breve, alla fine mi sono un po’ curato da solo, come Rambo nella foresta, mia suocera si è fatta forza e ha guardato la ferita e mi ha aiutato, ma giustamente solo io potevo sapere quanto tirare con i steri-strip e con la garza senza che il dito andasse in cancrena. Credo che ne avrò per un mesetto, ma seppur il dito appaia macilento durante le operazioni di pulizia e fasciatura quotidiane, è evidente che il pericolo è scampato.
Sto qui a scrivere, del resto, poteva decisamente andarmi peggio.
Chiaro, poteva anche andarmi meglio, Marina avrebbe potuto non aprire tutte le finestre contemporaneamente, io avrei potuto non voler sistemare quel maledetto cuore natalizio messo sulla maniglia, poteva non esserci il vento forte.
È andata così, amen.
La morale di questa favola, che favola non è, perché il finale non è esattamente un lieto fine, io ho sempre il dito sgarrato, è che ognuno ha il suo mestiere. Se sei una brava sarta non è detto che tu sappia tagliare anche i capelli o fare una fasciatura come fossi un medico o un infermiere.
È per questo che spesso i cantanti che decidono di voler fare anche i produttori dei propri dischi sbagliano, finendo per fare assai peggio di quando si affidano a chi quel mestiere lo sa fare e infatti fa solo quello, non si mette anche a cantare o scrivere canzoni.
Perché gli mancano le competenze per farlo e perché gli manca anche una figura altra che gli dica dei sì, certo, ma anche dei no, indicandogli come fare meglio, cosa fare e soprattutto cosa non fare.
Certo, ci sono sarte che sanno fare tagli di capelli incredibili, forse, non ne ho prova, come cantanti che sono anche ottimi produttori oltre che essere ottimi cantanti.
So di dire una cosa talmente ovvia da farmi passare, dopo che sono già passato per un orco che bullizza suo figlio adolescente, aprendolo ipoteticamente a un futuro oscuro, anche per un emerito deficiente, ma proprio in queste settimane è uscito un album che ben si presta a questa mia lettura, McCartney III, di quel McCartney lì, Paul. Un album nato durante il lock down, mentre io facevo la fila di tre ore al supermercato e mia suocera rendeva mio figlio Tommaso, uno che mentre andava all’asilo un giorno mi ha chiesto, vergognoso, perché io fossi il solo padre che accompagnava i figli lì senza giacca e cravatta, per intendersi, sorta di damerino capitato per sbaglio in casa mia, e che per accontentare il quale, lui di quattro anni, ho accompagnato per la prima volta dal barbiere tagliandomi anche io i miei lunghi capelli, per farlo contento. Un album nel quale Sir Paul ha fatto praticamente tutto da solo, scritto, prodotto e suonato buona parte del suonabile, andando a tirare fuori anche canzoni assai distanti dai suoi soliti standard, e i soliti standard di Paul McCartney includono buona parte di ciò che è annoverabile nella musica leggera tutta, dal rock al pop. Ci sono vecchi bluesacci lentissimi e oscuri alla LeadBelly, come Women and wives, virate verso l’acid-jazz dilatate nel tempo, quasi nove minuti, come Deep Deep Feeling, ma anche l’anomala strumentale posta in apertura, quasi tutta solo musicale, titolo Long Tailed Winter Bird, per non dire di The Kiss of Venus, tutta tenuta su un falsetto tiratissimo, non esattamente la sua comfort zone, o Deep Down, dove chitarra e voce si alternano nell’accompagnare l’ascoltatore, la prima assai più incisiva della seconda.
Un album fisicamente solitario, con Paul che suona tutto, piano e chitarre, ovviamente, oltre che il basso, ma anche mellotron, clavicembalo, sintetizzatori, batteria, un gioiello che rifugge dal minimalismo del fatto in casa, in virtù dei mille talenti del padrone della casa stessa, certo, ma che al tempo stesso è anche una sfrontata dimostrazione di come, a settantotto anni suonati, è il caso di dirlo, chi sa farlo possa ancora incantare a dispetto degli ostacoli che la pandemia ci ha messo di fronte.