Questa è una storia triste.
Una storia triste che si svolge a ridosso del Natale, manco fosse un racconto di Dickens.
La differenza è che questa è una storia triste, molto triste, ma è anche una storia vera. O almeno verosimile. Propendo più per la prima ipotesi, comunque.
C’è un ragazzo, età imprecisata tra i venti e i ventisei. È lui il protagonista di questo racconto natalizio.
Si muove per Milano, questa la città di questo racconto natalizio.
La storia si svolge oggi, in zona gialla, quindi senza restrizioni che non siano le solite, mascherina e distanziamento. Si può comunque girare, infatti Coso, questo il nome del protagonista del racconto natalizio, gira.
Si muove per un quartiere periferico, a voi la scelta: Calvairate? Baggio? Lambrate?
Decidete voi, è uguale.
Milano è abbastanza con le ossa rotta, la città che non si ferma o non si doveva fermare, si è fermata, è crollata, è agonizzante. Quella che prima era un’eccellenza italiana oggi viene additata come si fa con le cose di cui ci si dovrebbe vergognare. Nessuno sembra volerci più venire, molti hanno deciso di non tornarci dopo essere scappati.
Il ragazzo si muove a bordo di una Fiat Panda, questo è un dettaglio importante, fermatevelo nella memoria. Non una Fiat Panda di quelle nuove, magari disegnate da un amico di Lapo Elkann, maculate, fluorescenti, fighe. No. Una vecchia Fiat Panda, di quelle con la targa che comincia con le due lettere della provincia, quelle che si dovevano imparare a lato dell’aver imparato appunto le province, non ho mai capito esattamente a che scopo, una macchina talmente vecchia da non essere stata classificata ancora con un qualche tipo di Euro.
Una macchina che non può accedere nell’Area C, né all’Area B, al momento sospesa causa Covid, ma che probabilmente non potrebbe circolare neanche in periferia, se solo qualcuno avesse tempo e pazienza per fare un controllo. Del resto i controlli in periferia si concentrano a ragione su altro, che vuoi che gli freghi alle forze dell’ordine se una macchina è troppo vecchia e inquinante per girare. Nessuno ti ferma, infatti molti neanche fanno l’assicurazione, figuriamoci se controllano i fumi del tubo di scappamento.
La periferia è periferia, ci sono ben altri affari da tenere a bada che una macchina che inquina.
Perché inquina la Fiat Panda del ragazzo, e cammina a strappi, perché la Fiat Panda in questione non riesce a mettere la quarta. Le rare volte che in uno dei vialoni che portano verso il semicentro è libero dal traffico si può sentire anche da lontano lo sforzo del motore, il sudigiri per quella macchina lasciata in terza. A volte, neanche troppo raramente, si sente anche il fischio violento della cinghia. Sembra quasi partire da lontano, poi arriva forte, come se stesse passando da quelle parti Charlize Theron e un Dio piacione volesse attirare, a ragione, la sua attenzione.
Ma anche se la Fiat Panda è un dettaglio importante non è di macchine che si parla in questo racconto natalizio. Questo trap-conto natalizio, a essere più precisi.
Si parla del ragazzo. Badate bene, Coso, un ragazzo, un maschio, perché il genere in cui il ragazzo si muove è un genere che non ha dato la cittadinanza alle femmine, anche questo è un dettaglio, un po’ meno rilevante del tipo di macchina su cui si muove e del quartiere dentro il quale la macchina lo porta a spasso.
Il ragazzo che se ne va in giro per il suo quartiere, perché quello è e rimane il suo quartiere, a bordo di una vecchia Fiat Panda.
La gente lo guarda, li guarda, il ragazzo e la sua vecchia carretta.
Lo riconosce, la gente, a partire dalla macchina, certo, per loro familiare, e anche per la faccia, in macchina non porta la mascherina, il ragazzo, e anche in giro non è che la indossi sempre, almeno finché è da quelle parti, sin da piccolo ha saputo che chi gira con la faccia coperta ha qualcosa da nascondere, fosse anche un casco di una moto, le vecchie abitudini sono le più difficili da togliersi di dosso. Però ora è in macchina, da solo, e in macchina anche in centro si può andare senza mascherina. Così la gente gli vede la faccia e lo riconosce, perch la sua è una facciache hanno imparato a vedere anche dentro uno schermo, si tratti di quello grande della tv al plasma o di quello del tablet. Lo guardano, lo riconoscono e lo salutano, tutti alla stessa maniera: “E la villa?”
Sembra quasi una gag, qualcosa di preparato.
Di più, sembra la scena iniziale di Cosmopolis, il libro di De Lillo o il film di Cronenberg, fate voi. Una macchina che attraversa le strade, lenta, inesorabile, a bordo un giovane di successo, tormentato.
Per certi versi anche stavolta c’è di mezzo un funerale, anche se non di una persona.
“E la villa?”
Il ragazzo nella macchina muove la testa a tempo con la musica che esce dall’autoradio, di quelle vecchie, come la macchina, che si possono ancora portare via, che si possono rubare. Una radio che non ha entrate USB, per capirsi, che non permette di attaccarsi a Spotify. Per poter ascoltare la musica che ascolta, il ragazzo, ha dovuto masterizzare un CD, con un vecchio PC di un suo amico, in uno studio in un paese lì vicino, sempre hinterland ma non più comune di Milano. Ci è andato di straforo dai DPCM, ma non è che anche lì ci fossero controlli o altro.
Il CD masterizzato salta a ogni buca, e le strade del quartiere sono piene di buche, perché la Milano che non si ferma da queste parti si è fermata assai prima dell’avvento del Covid, anzi, non è proprio mai partita.
La musica che l’autoradio spara a un volume talmente alto da distorcere tutte le frequenze è una musica di merda, ma questo il ragazzo non lo pensa. Perché è lui quello che ci rappa sopra, è la sua musica, quella.
La parola rappa l’ho usata per stanchezza, troppo difficile cercare la parola giusta, e dire trappa fa oggettivamente ribrezzo, il che avrebbe anche potuto indurmi a usare proprio quella parola lì, per emulazione, per cercare cioè di ricreare sulla pagina la sensazione che chiunque l’avesse ascoltata avrebbe provato, ma sono talmente stanco che rappa va più che bene, non è un dettaglio così importante questo, non è un dettaglio fondamentale.
È invece importante sapere che la musica che l’autoradio spara a volumi folli, distorcendo le frequenze alte, le basse neanche arrivano alle casse, è sua, di Coso, del ragazzo sulla vecchia panda.
È la musica con la quale, si ripete, sarebbe dovuto finire nella villa, in un quartiere buono, magari a bordo di una Lamborghini a donare soldi ai poveri in giro per Milano sotto lo sguardo attento e benevolo di un iPhone di nuova generazione.
Mentre lui sta ancora lì, a Baggio come a Calvairate, sulla sua vecchia Fiat Panda.
Del resto è meglio andare in giro che starsene a casa, sempre che si possa continuare a chiamare casa quei trentacinque metri quadri con quelle gigantesche macchie di umidità sul soffitto nei quali ha vissuto tutta la vita con la sua famiglia. Perché lì è un continuo citofonare. Non passano dieci minuti che non arriva qualcuno. Amici, parenti, anche gente che in realtà non ricorda di aver mai conosciuto, ma che lo chiama per nome, gli da il cinque, gli passa una canna. Tutti a fare la stessa domanda, sempre quella: “E la villa?”
Lo facevano anche durante il lock down, in barba alle restrizioni, ai droni, alla caccia all’untore, caccia all’untore che lì non c’è mai stata, perché fare la spia non è sport che qualcuno si possa permettere di praticare, da quelle parti, anche per buone cause.
“E la villa?”
Non lo sanno, loro, che una villa non arriverà. Sicuramente non per la sua musica, quella che gracchia dalle casse scassate della macchina.
Non lo sapeva neanche lui, il ragazzo, che la villa non sarebbe arrivata.
Ancora non ci crede, a dire il vero.
Gliel’hanno dovuto spiegare con calma, scandendo bene le parole, una alla volta.
Lui era lì, nell’ufficio dei suoi discografici, sulla scrivania di fronte a lui una cornice in vetro dei suoi tre dischi d’oro e del disco di platino, dischi per altro che nessuno ha stampato, se non per quell’occasione, perché tanto ormai la musica è solo liquida, la gente la ascolta con lo smartphone, attraverso Spotify o quelle robe lì, e di fronte un signore di mezza età che, con tono da laureato, gli ripeteva che sì, c’erano stati i premi, ma la situazione non era esattamente come poteva sembrare.
Poi gli aveva passato un foglio con su scritto tre righe.
Un foglio A4 con solo tre righe scritte.
In una c’era un numero, nella riga successiva ce n’era un altro, e nell’ultima c’era la differenza tra i due.
Il risultato era una cifra piccola, molto piccola.
Certo, rispetto a quello che portava a casa suo padre poteva anche andar bene, quasi due suoi stipendi, ma il padre faceva il carrozziere in nero in un’officina del quartiere, nessuno ha mai scritto il suo stipendio, sempre arrivato a casa in contanti, su un foglio, nessuno ha mai versato i contributi, fortuna che è morto prima di andare in pensione, ha detto sua madre pochi giorni dopo il suo funerale, non esattamente un metro di paragone corretto, se si vuole diventare una popstar.
Se lo era ripetuto per tutta l’adolescenza, e ora era divenuto una popstar.
La gente lo riconosceva, aveva milioni di followers, milioni di gente che lo andava a vedere su Youtube, o a ascoltare su Spotify.
Tre dischi d’oro per i singoli, uno di platino per l’album.
Uno spot, pure, che aveva reso la sua faccia ancora più popolare.
Certo, erano arrivati vestiti di marchi che in cambio volevano solo delle storie su Instagram, erano arrivato delle sneakers. Qualche marchio di bevande energetiche si era fatto sotto per offrirgli qualche soldo che poi, all’ultimo, era sfumato, ma niente di più.
Ma niente cash.
Niente soldi.
Niente villa.
Spotify, questo aveva detto in poche parole il signore, col suo 0,000000 e rotti centesimi a stream non consentiva grandi guadagni. Idem le edizioni, perché i passaggi radiofonici erano figli di un accordo col network che, in pratica, gli aveva chiesto in cambio tutti i ventiquattresimi a disposizione, anche quelli dell’autore. Le rare ospitate tv, siamo pur sempre ancora sotto pandemia, erano inquadrate come promozione discografica, non prevedevano un cachet. Già tanto che non gli avessero chiesto quei quattro euro di anticipo indietro.
Certo, a Covid finito ci sarebbero stati i concerti, e magari da lì qualcosa sarebbe arrivato, ma campa cavallo, chissà quando la gente tornerà a assembrarsi in un locale.
Quando, finalmente, il signore di mezza età dall’altra parte della scrivania aveva smesso di parlare, imbarazzato, lui la mascherina non la indossava, gli aveva detto, perché si faceva un tampone alla settimana, pagato da casa madre in Francia, il ragazzo si era alzato, cercando di ricordare dove aveva parcheggiato la Panda.
Uscito dalla casa discografica, dopo aver messo il foglio con le tre righe nella tasca interna del giubbotto, si era fermato al bar dei cinesi dall’altra parte della strada. Voleva mettere del tempo prima del suo ritorno a casa, sempre che si possa chiamare casa quei trentacinque metri quadri con le macchie di umidità sul soffitto nei quali ha vissuto tutta la vita con la sua famiglia.
Voleva mettere del tempo prima di incontrare lo sguardo di suo padre, quello di sua madre, prima di dover dire loro che no, non è vero che li avrebbe portati via di lì, non è vero che il miracolo era accaduto. Tutto finto. Tutto finito.
Voleva mettere del tempo prima di tutto questo. Possibilmente anche due o tre vodke lisce.
Entrato nel bar del cinese non l’ha riconosciuto nessuno, forse perché dentro c’erano solo vecchi e cinesi. La mascherina, va detto, almeno a qualcosa serviva. I cinesi se ne stavano dietro il bancone, a parlare cinese. Loro le mascherine probabilmente le portavano anche cinque anni fa, valo a saper. I vecchi a tre tavoli quadrati, tutti categoricamente senza mascherine e pure mezzi appicciccati, guardano verso un angolo della sala, la testa rivolta in alto. Lì c’era la televisione, sintonizzata su un canale il cui nome non dice nulla a Coso.
Sicuramente lì non avrebbero passato lo spot con la sua musica, con la sua faccia, sembra una cosa da vecchi, o quantomeno da adulti.
Sono nel posto giusto, pensa Coso. Sicuramente lì, almeno per qualche minuto, nessuno mi chiederà della villa.
I vecchi seduti ai tavoli sono piuttosto alterati, guardano e urlano, parlandosi l’uno sull’altro.
Il ragazzo non capisce di cosa stiano parlando, e neanche gli interessa molto. Capisce che c’è un tizio, un signore coi capelli molto pettinati, pettinati in maniera discutibile, sembra quasi indossi un parrucchino, un uomo di mezza età, che sta parlando dentro la televisione, un tizio che deve aver fatto dei grossi danni. Capisce che quel tizio ha fatto danni proprio a loro, ai vecchi del bar dei cinesi, questo gli dice l’odio delle loro urla. Se la stanno prendendo sul personale, è evidente.
Il ragazzo capisce che in qualche modo quell’uomo pettinato in maniera discutibile, col parrucchino, forse, li ha privati di quel che loro ritenevano un loro diritto. Non sa di che stanno parlano, ma è ovvio che è colpa sua, dell’uomo pettinato strano dentro la televisione.
Già alla seconda vodka il ragazzo si disinteressa di tutto quel ciarlare, ciarlare che quantomeno gli ha impedito di pensare a quello che l’uomo di mezza età dall’altra parte della scrivania, dentro la casa discografica, ha faticato a fargli capire, scandendo bene le parole. Con la terza vodka, a stomaco vuoto, la faccia dell’uomo dall’altra parte della scrivania, quello che prima gli ha dato i tre dischi d’oro e il disco di platino, poi il foglio con le tre cifre ridicole, si confonde con quella dell’uomo pettinato in maniera discutibile dentro la televisione.
Conte.
Così gli hanno urlato per tutto il tempo i vecchi dentro il bar.
Almeno finché uno dei due cinesi dietro al bancone, alla terza volta che ha gridato loro di smetterla di fare casini, ha cambiato canale.
La scena è cambiata, anche se dentro c’è sempre un uomo con una pettinatura discutibile, anche lui con quello che potrebbe essere un parrucchino appiccicato sulla testa, che fa facce strane a beneficio di camera.
I vecchi sono sbottati, qualcuno ha pure cominciato a ridere, finendo per strozzarti a colpi di tosse.
Conte di merda, hanno gridato di nuovo.
Forse Conte è il nome in codice che identifica i signori con le pettinature discutibili dentro la televisione, ha pensato Coso. O forse no.
Conte dimettiti.
Da principio pensava parlassero di un qualche grado di nobiltà, dando vita a un bel paradosso, essendo loro decisamente poco additabili come nobili.
Poi ha capito che Conte era un cognome, il cognome dell’uomo pettinato in maniera discutibile dentro la televisione. E ha capito che era tutta colpa di Conte.
Ora che l’effetto delle tre vodke è praticamente finito, e che anche la benzina dentro la Fiat Panda sta per finire, la luce della riserva che lampeggia da troppi minuti, quel nome gli torna in mente con tutta la sua potenza.
Conte.
Lui non segue l’attualità, non guarda un telegiornale da che la vecchia tv col tubo catodico ha smesso di accendersi, non legge giornali, non sa nulla di nulla.
Ma ha sentito quei vecchi inveire contro un uomo, e ha capito che inveire contro qualcuno non risolve i problemi, ma sicuramente non fa male.
“È tutta colpa di Conte,” comincia a urlare, sovrastando la musica e la sua stessa voce che esce dalla vecchia autoradio della sua vecchia Fiat Panda.
“Se non compro la villa è tutta colpa di Conte! Conte dimettiti!”
“E da quand’è che ti occupi di calcio?” urla qualcuno al ragazzo, una sciarpa nerazzurra a indicare il tifo per una delle due squadre di Milano, mentre la Fiat Panda da gli ultimi strappi prima di spegnersi a secco. Domanda lecita, magari.
“Calcio?,” chiede il ragazzo. “Cosa c’entra il calcio? Conte dimettiti! Non capisci una Mazza. Ridatemi quello che è mio.”
Ridategli quello che è suo, ridaglielo, Conte.
Questa è una storia triste.
Una storia triste che si svolge a ridosso del Natale, manco fosse un racconto di Dickens.
La differenza è che questa è una storia triste, molto triste, ma è anche una storia vera. O almeno verosimile. Propendo più per la prima ipotesi, comunque.
C’è un ragazzo, età imprecisata tra i venti e i ventisei, Coso, si chiama.
È lui il protagonista di questo racconto natalizio.
Si muove per Milano, questa la città di questo racconto natalizio. Si muove per un quartiere periferico, a voi la scelta: Calvairate? Baggio? Lambrate? Decidete voi, è uguale.
Il ragazzo non si muove più a bordo di una Fiat Panda, perché a finito la benzina e non ha soldi per fare il pieno.
Non si comprerà una villa, perché non ha soldi per farsi il pieno, figuriamoci per comprasi la villa.
Continua a non capire nulla di calcio, di politica, di attualità, con o senza vodka a stomaco vuoto. Continua a non capire nulla anche di discografia, ha cominciato a credere ripensando a cosa gli ha fatto vedere il boss della sua casa discografica. Non capisce niente di niente.
Conte non si è dimesso, nessuno dei due Conte, anche se è capace che li facciano cadere entrambi, ha sentito alla radio, dal che ha compreso che i Conte sono due, chissà se sono fratelli, chissà se sono gemelli. Sia come sia, può darsi che li faranno cadere, maledetti Conte, ma la cosa non lo consola affatto.
Ognuno ha il proprio Conte che non si vuole dimettere, neanche a Natale.