Il regalo di Natale di Netflix per quest’anno è il debutto di Bridgerton di Shonda Rhimes, la prima di otto serie che la showrunner creatrice di Grey’s Anatomy, Private Practice e Scandal ha in serbo per gli abbonati alla piattaforma.
Basata sui libri bestseller di Julia Quinn, la serie porta gli spettatori nelle vite (e nelle stanze private) di famiglie inglesi dell’alta società del 19° secolo: i protagonisti sono i Bridgerton e i loro rivali, i Featheringtons, persone in cerca di affermazione sociale attraverso l’assicurazione di discendenze gloriose. Lo strumento per ottenerle sono i matrimoni delle loro figlie, esposte in una sorta di mercato delle nozze in cui tra balli, passeggiate e incontri all’ora del te si stabiliscono i futuri contratti tra famiglie: chi riuscirà a trovare un marito ricco, nobile e socialmente stimato assicurerà alla sua famiglia un prestigio sociale e una salvezza certa dalla rovina economica e reputazionale. A condizionare dall’esterno questo spettacolo dei fidanzamenti è il giornale della misteriosa e ignota Lady Whistledown (una Julie Andrews che fa da voce narrante alla serie ma non appare mai in video), ua Gossip Girl ante litteram il cui feroce foglio periodico racconta scandali, pettegolezzi, segreti che potrebbero promuovere nell’alta società o rovinare per sempre l’immagine delle persone che finiscono sbeffeggiate tra le sue righe.
Adattamento di romanzi dell’era Regency (il primo decennio dell’800 inglese), Bridgerton di Shonda Rhimes non è in realtà frutto della scrittura della showrunner di Grey’s Anatomy, ma è prodotta dalla sua ShondaLand e creata dallo showrunner Chris Van Dusen, che l’ha concepita come un racconto di pura evasione, un affresco in costume di sentimenti universali rintracciabili tanto tra i corsetti e i pizzi degli abiti d’epoca così come ai giorni nostri.
Costituita da otto episodi da un’ora (una durata decisamente eccessiva), Bridgerton di Shonda Rhimes non è una serie che si svela pian piano, piuttosto si presenta subito per quel che è: un patinato ritratto della Londra dei primi dell’Ottocento i cui protagonisti parlano però con un linguaggio fin troppo moderno per l’epoca, intrattenendosi tra loro con corteggiamenti, accordi tra famiglie e tentativi di accalappiare il partito migliore e la ragazza con la dote più interessante. Un racconto che attinge a piene mai dalle ambientazioni e dalle atmosfere dei romanzi di Jane Austen – senza tuttavia la stessa brillantezza delle interazioni tra i personaggi – e le mette in scena in modo più audace e contemporaneo, con dialoghi certamente poco ottocenteschi, un po’ di satira di costume e riferimenti espliciti al sesso, alla masturbazione, ai desideri delle donne al di là del loro ruolo sociale di nubili in cerca di marito. Marchio di fabbrica della serie, sono le complicazioni sentimentali tipiche della scrittura di Shonda Rhimes, che non mancano nemmeno in quella del suo socio Van Dusen.
La protagonista è Daphne Bridgerton (Phoebe Dynevor), che rifiuta di sposare un odioso corteggiatore scelto per lei dai suoi fratelli, in un classico schema patriarcale che si manifesta anche quando a guidare le scelte delle ragazze sono le loro madri: la giovane donna, decisa a trovare l’amore della vita, farà di tutto per evitare un matrimonio imposto e farà squadra con il presuntuoso ma brillante Simon, duca di Hastings (Regé-Jean Page), che ha dichiarato che non si sposerà mai. Il loro tentativo di fingere di essere una coppia, per respingere ammiratori indesiderati per Daphne e madri incallite promotrici delle loro figlie per Simon, diventerà il filo conduttore di una trama fin troppo citofonata, in cui inevitabilmente i due protagonisti finiranno per scoprire l’amore tra schermaglie continue.
Bridgerton di Shonda Rhimes è sì un format d’evasione, ma anche un romanzo a puntate fin troppo lungo e dalla trama inutilmente diluita. Succede spesso che una serie piacevole a guardarsi perché molto curata, anche scritta e interpretata dignitosamente, rischi però di annoiare sin dal primo episodio. Ed è questo il caso. Esteticamente gradevole ma per niente avvincente è la saga di questa famiglia che vive basandosi sulle apparenze in un mondo in cui queste sono tutto e il cui unico scopo nella vita sembra piazzare la propria figlia in età da marito all’offerente migliore. Una trama che si trascina per otto episodi in cui molte delle svolte maggiori sono ampiamente prevedibili. Diciamo che un film o una miniserie in 4 parti avrebbe assolto al compito in maniera più efficace, tagliando tante scene di inutile contorno in una serie che non ha bisogno che le si costruisca attorno un’atmosfera così tratteggiata, quando questa trasuda già da costumi, luci, scenografie.
Non mancano metafore sulla condizione femminile che risultano di attualità, così come si gioca col collegamento tra passato e presente nelle musiche, con molti assoli di violino che citano hit degli ultimi anni come Thank U Next di Ariana Grande o Girls Like You dei Maroon 5. Ma non basta certo questo a fare di un format dall’aspetto sontuoso e dal contenuto debole una serie di cui avevamo bisogno. Apprezzabile anche se storicamente incongruente la volontà di avere un cast inclusivo che abbia come co-protagonista nel ruolo di un nobile un attore di colore, ma è anche vero che la serie non affronta minimamente il tema della razza in un contesto storico contraddistinto, ad esempio, anche dalla schiavitù: è come se il colore della pelle non avesse importanza in Bridgerton, non vi fosse un privilegio insito nell’essere nati bianchi, quando non era affatto così nell’epoca storica in cui la serie è ambientata. Il baricentro del racconto è tutto spostato sulla prospettiva femminile nel tentativo di mostrare quanto sia difficile per una ragazza sopravvivere ad una società oppressiva e basata su norme di comportamento discriminatorie alle quali è impossibile sfuggire. Si cerca costantemente di sollevare i temi del consenso, dell’autonomia delle scelte, del controllo sociale e di come questo condizioni le donne, che questo aspetto assorbe tutti gli altri senza lasciare spazio ad approfondimenti di altra natura, che pure sarebbero stati doverosi. C’è anche una scena di sesso piuttosto disturbante, un rapporto non consenziente che viene trattato in maniera molto superficiale per una serie che basa proprio sui temi suddetti il suo fulcro e finisce per rivelare così la superficialità della sua scrittura.
Primo degli otto progetti che la ShondaLand ha in cantiere per Netflix dopo la firma di un accordo dal valore ignoto ma che presumibilmente supera i 100 milioni di dollari, Bridgerton di Shonda Rhimes portava con sé tutte le aspettative che si riservano ai grandi debutti – potendo contare per giunta su una serie di una serie di romanzi best-seller come materiale originale, una produttrice leggendaria, un premio Oscar nel cast – ma è lecito dire che ci si aspettava molto di più. La prossima scommessa sarà Inventing Anna, basato sulla storia vera della truffatrice Anna Sorokin, nella speranza che una vicenda realmente accaduta possa risultare un po’ più accattivante.
- Quinn, Julia (Author)