Quest’anno non farò uno di quei classici pezzi nei quali elenco, più o meno schematicamente, gli album migliori e peggiori usciti nel corso degli ultimi trecentossessantacinque giorni, trecentosessantasei, va’, questo è un anno bisestile, manco a dirlo.
In genere, lo so, vi piace il sangue e di conseguenza vi piaccio di più nelle mie vesti di inquisitore spagnolo, ferri roventi, catene e altri attrezzi per le torture annessi, preferite i miei pezzi nei quali elenco impietosamente il peggio del peggio, senza risparmiare quella cattiveria che sembra essere il mio solo tratto distintivo, faje male, aò.
Niente di tutto questo.
Non perché io sia di colpo diventato buono, anche se non meno resto fondamentalmente come Wolverine quando era andato a vivere isolato, a fare il falegname, in sonno ma sempre pronto a tornare in scena, né perché il 2020 non ci abbia regalato qualche capolavoro e tutta una sequela di robaccia, potremmo averlo dimenticato ma prima che scoppiasse la pandemia c’era in giro Junior Cally, per dire, quest’estate abbiamo avuto i soliti tormentoni orrendi e ultimamente Achille Lauro è tornato a tormentarci con un album omaggio agli anni 20, quelli che nella sua beata innocenza erano gli anni in cui Chet Baker, nato nel 1929, swingava, Dio abbi pietà di lui, potrei eccome scriverne, ma non voglio. E non voglio perché penso che vada sottolineato nel solo modo che conosco, con le parole, l’anomalia che ci stiamo trovando a vivere.
Un anno diverso dai cinquantuno che lo hanno preceduto, parlo per me, un anno immobile, pietrificato, imbalsamato.
Un anno senza musica, per altro, perché seppur di musica io ne abbia ascoltata davvero tanta e seppur abbia continuato mio malgrado a cercare di metterne in circolo, credo sia uno degli anni in cui ho scritto di più, anche più di quando pubblicavo qualche decina di libri, nel 2012 ne ho pubblicati quattrordici, per intendersi, organizzando mio malgrado due edizioni del Festivalino di Anatomia Femminile, organizzando con Tosca un’edizione in remoto di Femminile Plurale, seppur proprio con Tosca io sia tornato a calcare un palco, quello della Mole Vanvitelliana di Ancona, per un concerto-chiacchierata pubblica molto emozionante, nonostante tutto questo direi che di musica ce n’è stata davvero pochina, niente mega-eventi, meno uscite di quelle che ci sono di solito, discografia ridotta al lumicino, entusiasmo ridotto al lumicino, forse anche a uno stadio successivo, tipo gli zombie di George Romero e senza manco un mercato da stigmatizzare.
Di star quindi qui a chiacchierare di dischi, mi perdonerete, non ho gran voglia. Ho già del resto esternato la sensazione, più di una sensazione, lasciatemi essere meno approssimativo, ho già esternato la certezza che a marzo non ci sarà il Festival di Sanremo, nonostante le fanfaronate di Amadeus e della RAI, lì a fingere che tutto sarà risolto, tutto sarà possibile, e se ci sarà nulla avrà a che vedere col Festival per come lo conosciamo, sarà qualcosa di simile a quello della fine degli anni Settanta, inizio anni Ottanta, basi, zero entusiasmo, alla faccia della Rinascita, così come ho già esternato la certezza che questa estate non ci saranno concerti negli stadi, Festival, niente di niente. Felice di essere smentito, non tanto per la necessità di un Festival di Sanremo o di sapere che Ultimo suonerà in giro per l’Italia, quanto più perché sarebbe il segno che la normalità sta in effetti tornando, ma al momento la penso così, supportato da un po’ di notizie che mi arrivano dall’interno.
Del resto saltano tour internazionali, slittano concerti già soldo out, penso a Harry Styles, perché mai dovrebbe andare diversamente per Festival di Sanremo e artisti nostrani allo stadio? Ce lo siamo detti più volte, quando ancora se ne parlava, la musica sarà l’ultima a ripartire, e così sarà.
È vero, è in arrivo il vaccino, ma figurati se sarà già a disposizione di tutti prima dell’estate, siamo in Italia, baby, non scherziamo, da noi ci si allarma per il mancato scioglimento del sangue di San Gennaro assai più che per il continuo non prendere di petto la questione delle scuole chiuse ad libitum, che vogliamo mai pretendere?
Non parlerò di bei dischi e brutti dischi, quindi.
Ne ho già scritto, per quanto mi sia concentrato più che mai, su musiche di altri tempi, artisti che solitamente non raccontavo, libero di farlo per questo mio tenervi compagnia con la forma diaristica.
Le scuole chiuse. La faccenda delle scuole, si sarà notato, mi sta molto a cuore. Non fosse che perché ho quattro figli, tutti in età scolare, e due di questi non hanno praticamente quasi mai messo piede a scuola in questo 2020 da dimenticare. Una, Lucia, avrà anche l’esame di maturità, e onestamente fosse per me lo abolirei una volta per tutte, che senso avrebbe farglielo fare dopo che negli ultimi dieci mesi ha studiato da sola a casa, senza il supporto della scuola e la socializzazione con le sue compagne di scuola?
La scuola e anche più in generale la vita di questa generazione, di volta in volta attaccata dall’opinione pubblica come colpevole di non so che crimine, la movida, gli assembramenti, la mancanza di mascherine, le discoteche, loro che hanno osservato le regole assai più di noi adulti, e se penso a me stesso alla medesima età dubito sarei stato altrettanto ligio al dovere, loro che hanno imparato a adattarsi sentendosi ripetere da professori idioti che “i vostri nonni hanno fatto la guerra, che sarà mai stare chiusi in casa belli comodi sul divano”, il non capire che non sono la stessa generazione di chi si ritrovò a fare la guerra mi atterrisce, come il pensare che periodi particolarmente negativi del passato siano da prendere a esempio come modelli, non per evitare di ripercorre strade che evidentemente non ci hanno insegnato nulla. Per altro, l’esempio dei nostri nonni, viene fatto da tutta gente che non ha affatto vissuto la guerra e quei sacrifici, ma che di colpo quasi rimpiange di essere nata e cresciuta negli agi, nel comfort, senza bombe sulla testa e animali domestici da cucinare senza farsi accogliere dai figli.
L’idea di queste vacanze di Natale che per loro vacanze di Natale non saranno, impossibilitati ancora una volta a uscire di casa, a vivere la loro età in compagnia dei loro coetanei, mi immalinconisce ancora più dell’idea di quel che sta capitando a noi, gli anni che ci rimangono che si assottigliano, le occasioni mancate, quelle che ci eravamo guadagnati a suon di fatica, che probabilmente non torneranno mai più.
Vorrei sentir più spesso parlare di loro, da parte di Conte e del Governo. Vorrei sentirli tutelati, ma invece niente, non sono mai inquadrati dagli obiettivi, non sono mai sotto le luci dei riflettori. Non votano ancora, del resto, non producono, immagino tanto basti a tenerli a margine, a piè di pagina, come certe note che nessuno si degna di leggere.
Quando ero un ragazzino io, diciamo quando ero un ragazzo, perché ai tempi del liceo mi stavo davvero formando, studiando e provando a capire chi mai sarei voluto essere nella vita, un po’ meno disinvolto di quanto non siano i ragazzi oggi, ho sposato l’anarchia. L’ho sposata perché mi sono messo a studiarla, come del resto avevo fatto col comunismo e con Marx, credo di essere stato uno dei pochi tra i miei coetanei a aver letto tutto il Capitale di Marx, in biblioteca, oltre tremila pagine divise in otto tomi, come del resto era successo con Bakunin e buona parte dei filosofi degli ultimi due secoli dello scorso millennio. Avevo capito che le nostre tradizioni non mi convincevano, seppur io fossi e sia tuttora molto credente, ve l’ho già raccontato, mai avrei dato credito a un partito come la Democrazia Cristiana, cercavo una idea di politica che incontrasse in pieno il mio modo di vedere il mondo, che sposasse la mia visione del mondo.
Il fatto che io all’epoca abitassi in Piazza Malatesta, già Campo della Mostra, perché lì venivano esposte le salme di quelli che venivano giustiziati dal boia, ha forse influenzato il mio riconoscermi nelle istanze bakuniniane e malatestiane, del resto nella mia città, Ancona, c’è stata la Settimana Rossa, probabilmente la sola rivoluzione italiana di sempre.
Ero un ragazzo irrequieto, quindi. Sono stato un ragazzo irrequieto. Per certi versi lo sono anche ora, da adulto.
Cattolico ma anarchico, appassionato di pop e anche di hardcore. Figlio di un diacono, quindi in qualche modo visibile per i miei concittadini (per gli abitanti del mio quartiere che mi conoscevano solo di vista, specie per le signore anziane, ero il “figlio del prete”, perché vedevano mio padre in chiesa e non capivano bene che ruolo avesse) ma al tempo stesso attivo nei centri sociali che proprio in quei giorni nascevano da quelle parti, il Cardeto, la caserma della Polizia Stradale di Posatora, il Centro Sociale di via Flavia.
Ero anche molto innamorato di Marina, la mia ragazza, lo sono ancora, oggi che è mia moglie e madre dei nostri quattro figli. Se qualcuno mi avesse imposto di rimanere chiuso in casa, magari senza la possibilità di vederla, senza aver modo di uscire, di andare nei negozi di dischi, in biblioteca, in giro, mi sarei ribellato, avrei sbroccato, mi sarei romanticamente immolato.
Ho sempre pensato, in una visione appunto romantica del mondo, anche molto ingenua, che in qualche modo noi che ci muovevamo in quegli anni lì, quelli dell’ascesa di Berlusconi, del ritorno del Movimento Sociale sotto le mentite spoglie di Alleanza Nazionale, fossimo destinati a prendere il testimone dei partigiani, quelli che proprio nelle montagne dell’entroterra avevano combattuto i tedeschi. In effetti li frequentavo, gli ex partigiani, li stavo a sentire, cercavo di imparare da loro, di farmi formare.
Ne ho scritto nei miei primi libri, Furibonde giornate senza atti d’amore, Questa volta il fuoco, Anime @ Losanghe, romanzando eventi realmente successi, facendoli esplodere, metaforizzando la realtà, raccontando. Ero convinto, allora, che fossi nato in altra epoca, penso appunto a quello della guerra, o, più vicino a me, agli anni Settanta, quelli della tensione sociale, del terrorismo, avrei avuto una vita assai complicata. Ripeto, era una lettura ingenua, probabilmente, romantica. La mia irrequietezza mi sembrava quasi una scelta eroica, un non riconoscermi nel solco della mia tradizione, un ritenermi non tanto anticonformista, quello è un marchio che in qualche modo mi si è appiccicato addosso dopo, mica è un caso che per anni così si è chiamata la mia rubrica a RTL 102,5, quanto piuttosto una sorta di non allineato, un dissidente, ecco. Un obiettore di coscienza che non si dichiara non violento, per intendersi, ma “solo” antimilitarista, e all’epoca c’era davvero un protocollo sicuro per veder accettata la propria domanda di obiezione, copiata in ciclostile da una matrice, un punk che indossava il trench.
Ora, cinquantuno anni e mezzo, guardo ai miei figli adolescenti con simpatia, nel senso letterale del termine. Li vedo spaesati, confusi, fragili, e provo per loro un moto di compassione, vorrei poterli proteggere non tanto dal virus, cosa che provo ovviamente a fare in ogni modo necessario, aderendo radicalmente alle indicazioni sanitarie, rispettando regole che molto spesso non comprendo e quasi mai condivido, ma più che altro riuscendo a fornire a loro gli strumenti intellettuali per far di questa esperienza una solida base per crescere, qualcosa che fortifica più che indebolisce.
Chiaramente, sono un padre, non un amico, ci riesco parzialmente, immagino più con l’esempio che con le parole, per quanto io non condividessi affatto le idee politiche dei miei genitori, i loro valori sono i miei valori proprio grazie al mio guardare da giovane a come loro si muovevano, a come si comportavano in casa e nella società.
Mi sono spesso interrogato su che tipo di esempio io, quello che parla sboccato in radio, quello cattivo, il politicamente scorretto che cita cavalli che affogano dal culo e affini, sia per i miei figli, consapevole che per loro, per i miei figli, quel mio essere eversivo e irriverente sia solo una minima parte di un tutto assai più complesso, spesso una parte invisibile, i miei figli tendono a non leggermi e raramente mi seguono quando sono in radio o in tv. Certo, sono un padre che può anche sembrare ingombrante, e per certi versi lo è, quasi tutte le insegnanti e gli insegnanti dei miei figli mi leggono, anche sui social, compreso quando mi lamento della scuola, la preside della scuola elementare e delle medie dei miei figli, andata in pensione a settembre, si è sempre dichiarata una mia grande fan, per dire, ma questo mio essere a mio modo un personaggio, uno estroso, coi capelli lunghi, i codini, gli occhiali rosa, le maglie strane, è parte del pacchetto “papà”, è più facile parlare con me di cartoni animati o di questo o quel cantante, ma sono anche quello che è presente, con mia moglie, quando ci sono problemi seri, quando ci sono argomenti spinosi, quando c’è da fare questo o quello.
Certo, Marina, mia moglie, mi chiede sempre, prima di una riunione coi genitori di una delle classi dei nostri figli, o prima di un colloquio con un professore, di cercare di non andare sopra le righe, spesso di fronte a mie battute si sente in dovere di spiegare che ho appunto fatto una battuta, finendo per farmi passare per uno tipo assai più bizzarro di quanto in realtà non sia, ma nei fatti sono e resto il figlio del prete cresciuto a Piazza Malatesta, quello che si leggeva gli otto tomi del Capitale di Marx alla biblioteca di via Bernabei, sotto l’arco de Carola. Sono eccentrico, a volte anche in maniera compiaciuta, ma resto fondamentalmente una figura ascrivibile, questo sì, alla tradizione, più simile a Howard Cunningham che a Stephen Keaton.
Per dire, ho cresciuto mia figlia grande, sempre lei, Lucia, mostrandole sin da piccola la famosa scena di Borotalco nel quale un immenso Mario Brega spiega a modo suo come Carlo Verdone, che in quel film incarna suo genero, dovrebbe decidersi a mettere la testa a posto e sposare sua figlia, lasciando da parte tutte le sue velleità di fare un qualche lavoro che gli piacesse per andare a lavorare da lui, in una gastronomia nel centro di Roma. La scena diventata famosa per quel “mangi ‘st’olivetta, è greca”, ma che ha in realtà nel racconto di una rissa avvenuta tra lui e due tizi che volevano fare i galletti con sua figlia, la fidanzata di Verdone, il vero focus. Un racconto che comincia con una frase che ritengo epica, questa: “Se nun so’ troppo indiscreto, me devi di’ che cazzo voi da mi fija?”, per poi proseguire con dettagli cruenti, atti a intimorire Verdone, la chiosa, “pensa che è mi’ fija.” Ci ho cresciuto mia figlia perché ho sempre pensato che chiunque avesse mai pensato di mettere gli occhi su di lei, il mio tesoro, avrebbe dovuto fare i conti con me. Certo, tutti i miei figli sono i miei tesori, ma Lucia è stata la prima, quindi è con lei che ho iniziato anche io a fare le ossa con l’idea di diventare, prima o poi, un suocero. Suppongo che farò altrettanto con Chiara, la più piccola.
Chiaramente Lucia ha assorbito quelle scene, per queste l’ho sottoposta a quella continua visione, come l’Alex di Arancia Meccanica con la Cura Ludovico, ricordo che quando era piccola diceva ai nostri amici di famiglia che ero molto geloso, sorprendendo per altro tutti, perché generalmente uno si dimostra tale, geloso appunto, quando ce n’è un motivo apparente. La penso ancora esattamente alla stessa maniera, che cioè lei sia fondamentalmente e primariamente “mi’ fija”, e sarei pronto a brutalizzare come un bulletto di periferia chiunque le mancasse di rispetto, anche se ora sarei disposto a fare davvero di tutto per saperla felice e in possibilità di vedere il suo ragazzetto (chiamarlo ragazzetto, ovviamente, rientra nella mia atavica strategia di sminuimento, per capirsi, mio fratello ai tempi, quando cioè sua figlia era una ragazzina, diceva sempre “quando Cecilia porterà un ragazzetto a casa gli preparerò pane e Nutella”, come fosse un amico dell’asilo), ahiloro residente in altro comune, quindi a lungo tenuto lontano dai DPCM e dalla Zona Rossa e Arancione.
Chiaramente non cambia la mia visione del mondo, assolutamente identica a quella di Mario Brega in Borotalco, seppur io sarei poco credibile nel dire a un qualsiasi ragazzetto di tagliarsi i capelli, di cercarsi un lavoro normale o roba del genere (io in realtà ho un lavoro normale, non sembra, ma scrivere lo è, ci si paga il mutuo, ci si sfama la famiglia, ci si campa), ma mi’ fija è mi’fija.
Mi sono perso. Succede, ultimamente succede anche più spesso del solito. Immagino non faticherete a capire perché.
Sono partito parlando della mia decisione di non scrivere le classiche classifiche dei dischi più belli e più brutti dell’anno. Parlando di questa aberrazione delle scuole chiuse sono passato a parlare di come mi immalinconisca a vedere i miei figli adolescenti murati vivi in casa, svisando su quando ero io a essere giovane, sulla mia irrequietezza e su come quella mia irrequietezza, probabilmente, in una situazione del genere avrebbe portato a un legittimo sbrocco. Poi mi sono trovato da qualche parte senza ricordare dove stavo andando. A questo punto potrei chiuderla sostituendo quelle due classifiche lì, i dischi più belli e più brutti del 2020, con una più attinente classifica delle canzoni dedicate ai figli che siano state incise nella storia della musica leggera, roba che varia da Isn’t She Lovely di Stevie Wonder a Avrai di Baglioni, con tutto quel che sta nel mezzo. Sarebbe coerente col discorso, e mi darebbe agio di dimostrare quanto ampia sia in effetti la mia cultura musicale. Ma di essere coerente mi interessa assai meno che dimostrarmi lucido, stiamo vivendo anche noi una situazione anomala, rivendico il sacrosanto diritto a palesarmi confuso. Per cui vi dirò che se mai qualcuno volesse farmi un regalo ambirei, ma ambirei davvero, a avere una mia versione personale di E tu che vuoi andare via di Leandro Barsotti, brano potentissimo e assolutamente eversivo tratto da quel capolavoro che era l’esordio del cantautore padovano, Il caso Barsotti.
Ve ne avevo parlato nell’altro lock down, evocando la ripubblicazione dei suoi lavori, o quantomeno il fatto che fossero resi disponibili in streaming. Parlavo di lui, di Rudy Marra e di Brando, tre giganteschi artisti che vorrei tutti i giovani come i miei figli potessero assaporare. Sembrava pure che in effetti ci fosse la volontà di rendere nuovamente fruibili le sue canzoni, così ci eravamo detti coi suoi ex discografici, ma poi il lock down è diventata questa cosa qui, semi permanente, parlare di discografia è diventata quasi una barzelletta.
Ciò non toglie che E tu che dici che vuoi andare via resta una grande canzone, disturbante, dura, tagliente, e mi piacerebbe sentirla in una nuova versione, magari con l’apporto degli altri due artisti che citavo in quel capitolo del mio diario del primo lock down, Brando e Rudy Marra, certo con un cameo di Barsotti, che oggi nella vita fa altro, ma resta uno dei più grandi rimpianti che la nostra musica leggera dovrebbe avere. Ci vedrei bene anche altri artisti, da un Enrico Ruggeri a un Finardi, per dire, magari un Alberto Fortis. Una sorta di Do They Know is Christmas Time sovversivo, non allineato, deragliato. Ecco, se qualcuno mai avesse a cuore la mia felicità dovrebbe proprio regalarmi questa cosa qui.
Ovviamente il ritornello dovrebbe alternare quel vecchio “Barsotti boia” a un megalomane “Monina boia”, ricordate il Campo della Mostra?, almeno i miei figli avrebbero un motivo serio per vergognarsi di me, ma anche per essere un po’ fieri di questo padre così eccentrico e geloso.