Cominciamo dalla fine: dagli inserti documentaristici sugli scontri causati da neonazisti e suprematisti bianchi a Charlottesville, nel 2017. Le aggressioni, i primi piani, le testimonianze pressanti e vitali, il drammatico remake d’un razzismo mai debellato. In questa presa diretta si ritrovano l’urgenza, la vitalità che costituiscono la cifra migliore del cinema di Spike Lee, costretto a recuperarle dalla vita vera alla fine di due ore di un film dal titolo lambiccato, BlacKkKlansman (2018), nelle quali della sua caratteristica forza espressiva c’è poco.
Le premesse c’erano tutte, a partire dalla storia paradigmatica, ispirata a fatti reali, di Ron Stallworth (John David Washington, il figlio di Denzel poi protagonista di Tenet), primo poliziotto afroamericano nella storia di Colorado Springs, che comincia un’indagine sul Ku Klux Klan fingendosi al telefono un bianco razzistissimo che vuole iscriversi a quella che i membri chiamano eufemisticamente l’“Organizzazione”, un po’ per mimetizzarsi, un po’ perché nel nuovo corso degli anni Settanta è bene, per sopravvivere, darsi una patina di rispettabilità borghese. Però, fatta la tara alle buone maniere di superficie del leader David Duke (Topher Grace), la sostanza ideologica resta sempre quella sintetizzata dal discorso dei “nazisti dell’Illinois” di The Blues Brothers (1980), che farneticavano dell’“ebreo che sta usando il negro come muscolo” per attaccare alle fondamenta il bianchissimo sogno americano.
- Adam Driver, John David Washington, Topher Grace (Actors)
Infatti è ebreo il poliziotto che aiuta Stallworth nell’indagine: perché a un certo punto, per iscriversi al KKK, lui è costretto a entrare materialmente in contatto con l’organizzazione. E allora a fingersi Ron e infiltrarsi è il bianco Flip Zimmerman (Adam Driver), ebreo che non s’è mai posto domande sulla sua identità e che però è spinto a farlo dinanzi alle provocazioni di questi bifolchi che fanno riaffiorare in lui un barlume di senso d’appartenenza.
Queste le premesse, vertiginose, di BlacKkKlansman: un nero che sovrappone un’altra pelle alla propria, e un ebreo che deve fingersi altro da sé. Chissà se nello scegliere questa storia Spike Lee abbia ripensato a quello straordinario film del più grande irregolare del cinema americano, Samuel Fuller, Il corridoio della paura (1963), nel quale c’è un tizio che si mette un cappuccio in testa e riscalda gli animi con un discorso incendiario a base di supremazia bianca e “America agli americani”. Il problema è che il tale non è esattamente un wasp membro del KKK, bensì un afroamericano rinchiuso in un manicomio, e il suo pubblico delirante sono gli altri ospiti della struttura. Ma lì, appunto, l’ambientazione dava al racconto il sapore furibondo di un’allegoria tagliata con l’accetta, e perciò precisa ed efficace nella sua temperatura costantemente altissima e allucinata.
A BlacKkKlansman invece manca la lucidità fulminante dell’apologo, per colpa d’un racconto ondivago ed estenuato. Non è che manchi un messaggio forte: al contrario, il problema è che di messaggi ce ne sono fin troppi. Spike Lee vuole raccordare passato e presente, raccontando un paese eternamente razzista: ma lo fa mettendo semplicisticamente in bocca ai membri dell’organizzazione le parole d’ordine dell’America di oggi di Donald Trump, “America first”, “Make America great again”, e disseminando la sede del KKK di manifesti elettorali d’epoca del famigerato Nixon. Per essere ancora più chiaro, il film si apre con il discorso d’un ideologo del KKK interpretato da Alec Baldwin, vale a dire colui che, nel Saturday Night Live, ha dato vita alla più feroce imitazione del presidente Trump.
Spike Lee aggiunge poi una riflessione tagliente sulla struttura ideologica di fondo del cinema hollywoodiano. Mostra prima, prefigurando le polemiche di cui sarebbe stato oggetto nel 2020, Via col vento (1939), un melodramma che raccontando la guerra civile americana finisce per essere un melò nostalgico della Confederazione e quindi, per osmosi, del razzismo degli stati del Sud. Poi tocca alla pietra dello scandalo alla base di tutto, Nascita di una nazione (1915) di David Wark Griffith, il “padre del cinema americano”, come sapeva persino il ragionier Fantozzi: film dal linguaggio modernissimo e di insinuante spettacolarità, che era però un inquietante peana al KKK e che, ricorda Spike Lee, venne persino proiettato alla Casa Bianca del democratico Woodrow Wilson.
L’effetto complessivo però è assertivo e didascalico, anche perché queste restano divagazioni saggistiche all’interno di un film che già di suo divaga sin troppo, incapace di trovare un equilibrio e uno stile che bilancino un incedere incerto e a tratti troppo picaresco con la serietà dei temi in campo.
Spike Lee è visibilmente attratto dall’ambientazione anni Settanta. In BlacKkKlansman si diverte a esibire vertiginose capigliature afro, l’abbigliamento sgargiante, le inquadrature sghembe del cinema blaxploitation d’epoca – c’è una discussione tra Stallworth e l’attivista Patrice (Laura Harrier) su quale sia un modello accettabile cui la comunità nera possa ispirarsi, se il detective privato Shaft, immagine anarcoide ma tutto sommato positiva di tutore dell’ordine, o Superfly, ennesimo nero spacciatore e pappone.
Il problema di BlacKkKlansman non è l’uso di un cinema di genere per affrontare questione alte e gravi. Il gioco era infatti riuscito mirabilmente in Inside Man (2006), nel quale la confezione da thriller aveva consentito a Spike Lee di squadernare i suoi classici temi in maniera persino più problematica ed efficace, proprio perché non spiattellata ma inoculata surrettiziamente attraverso metafore corpose. Ma lì c’erano una storia robusta e un confronto di intelligenze tra personaggi memorabili.
Qui invece la statura dei personaggi latita e il racconto è sussultorio e ingarbugliato, sia dal punto narrativo che stilistico. Per cui gli effetti piuttosto facili presi di peso dai film anni Settanta –schermo in split screen, inquadrature fuori asse – convivono con la ricerca di un tono improvvisamente liricizzante, come nella sequenza in cui durante il comizio di un leader delle Pantere nere s’alternano uno dopo l’altro i volti dei convenuti, isolati e stagliati su uno sfondo cupo, con effetto tanto epico che sinfonico. E può capitare che dopo l’ennesima divagazione, appaia l’icona novantenne Harry Belafonte, attore e attivista, a raccontare un atroce caso di linciaggio del 1916. Un’impennata sì emozionante, ma che fatica a fondersi col resto.
BlacKkKlansman è un film che invece procede per accumulazioni, sperando che quantità e buone intenzioni bastino a costruire senso e coerenza – a ben vedere, lo stesso difetto dell’ultimo Da 5 Bloods. Il risultato però è tanto generoso quanto confusionario. Però è uno dei film più premiati della carriera di Spike Lee. Prima con il Gran premio della Giuria a Cannes, dove era in concorso. Poi è giunto finalmente, l’Oscar – a Lee l’Academy ne aveva in verità assegnato già uno alla carriera, nel 2016, di sapore ipocritamente riparatore. Una statuetta vinta, come capita talvolta, per la cosa che convince di meno: la sceneggiatura.