Datemi coccoline.
Ho sbagliato a comprare la farina per la polenta. Tecnicamente abbiamo sbagliato, perché quando ho preso la confezione della polenta c’era anche mia moglie, e non capendone io molto a riguardo, gliel’ho passata chiedendo se era quella giusta, evidentemente qualche dubbio ce l’avevo, cosa che lei ha confermato, è quella giusta, certo, ha detto, e lo ha detto, ho scoperto oggi, senza neanche prestarci un minimo di attenzione, ma sembra che agli atti risulti che ho sbagliato solo io.
Sono nato in una città di mare, del centro Italia, sono cresciuto in una città di mare per più della metà della mia vita, è vero, ho iniziato a vivere da solo in una città del nord, Milano, e sono anche quello che nel 99,9% dei casi fa la spesa, da solo, ma la polenta non rientra esattamente nelle mie competenze, ci sta che io non sappia quale sia la farina giusta. La compro una volta l’anno, per dire, ne capisco più di assorbenti con o senza ali che di polenta, anche se poi la polenta la mangio. Per altro, sempre per la cronaca, il fatto che la polenta sbagliata l’abbia presa mentre ero a fare la spesa con mia moglie, cosa che non succede praticamente mai, è accaduto in un supermercato nel quale non vado perché lei ha insistito per andare lì, perché nella sua testa lì avremmo trovato non so che prodotto che, ovviamente, non abbiamo trovato e che nei supermercati nei quali vado solitamente io avrei saputo dove trovare a occhi chiusi, li conosco come le mie tasche.
Questa cosa del fare la spesa è buffa, perché ci vado storicamente sempre io per quella faccenda di non avere orari di lavoro, il che implicherebbe, non so esattamente seguendo che logica, che io abbia più tempo a disposizione di lei, che invece ha orari di lavoro, nel senso che prima del Covid andava in ufficio e oggi che in ufficio non va è comunque legata a vecchi parametri. Così succede che io vado a fare la spesa, seguendo una sua lista, come io vado a prendere i figli a scuola, io faccio le cosiddette commissioni, ma poi sembra sempre risultare che non sia io a farlo, perché organizzare è diverso dal fare, sembra, e nel suo essere differente non solo porterebbe via più tempo, ma anche più energie. Così io mi ritrovo a passare una porzione del mio tempo dentro supermercato, lo smartphone con la lista in mano, ma nei fatti aver compilato quella lista, in qualche minuto, sembra sia stato impegno maggiore. Poi, è vero, prima del casino del Covid potevo permettermi di andare a fare la spesa in orari nei quali non c’era quasi nessuno, evitando la calca, allora nessuno usava la parola assembramento per indicare la calca nei supermercati, ma nei fatti ho sempre fatto la spesa perché a casa ci si è divisi i compiti, e a me è toccato quello. Guido io, del resto, la macchina, perché a differenza di mia moglie mi capitava, quando ancora avevo una vita sociale, di dovermi spostare per la città, a volte anche fuori città, mentre lei andava in ufficio con la navetta e tornava dall’ufficio con la navetta, ora va in studio, in ciabatte. Quindi io faccio la spesa e lei fa la lista. Per altro, la lista non viene mai fatta seguendo la logica del supermercato, il che rende il fare la spesa una faccenda ancora più lunga e tortuosa, un continuo tornare sui miei passi, come se fossi un tipo insicuro, incerto. Nel senso, io che al supermercato ci vado, so bene cosa incontro lungo il cammino, dal primo all’ultimo corridoio, e dovendo compilare una lista seguirei quell’ordine lì. Marina, mia moglie, invece segue una sua logica, partendo dalla nostra dispensa, e facendosi poi venire idee strada facendo, così mi ritrovo a dover leggere e rileggere la lista non so quante volte, e dopo aver percorso un corridoio mi ritrovo a ripercorrerlo almeno altre tre o quattro volte perché, in mezzo ai detersivi, per dire, spunta qualcosa che si trova nel reparto surgelati, per dire. Immancabilmente manca qualcosa, perché lo ha infilato nel posto sbagliato e, la nostra spesa è una cosa gigantesca, tipo due carrelli del supermercato, otto bustone di quelle riutilizzabili, cosa che immancabilmente innervosisce mia moglie. Per questo ora dico sempre che la tal cosa non c’era, adducendo il Covid come causa dell’assenza nella nostra dispensa della fondamentale, per dire, farina di cocco per fare i biscotti.
Ma non è della farina di cocco che voglio parlarvi, ma di quella per fare la polenta.
Ho sbagliato a comprare la farina per la polenta, dicevo. Invece di comprare la farina per la polenta, noi in casa abbiamo una pentola in rame battuto con motorino applicato sopra che serve per mescolarla senza fatica, serve giusto la farina di polenta, l’acqua e il tempo perché la farina si amalgami bene, ho comprato la polenta precotta. Polenta precotta che, al dunque, non si è ben capito come andava cucinata. Perché nella confezione non c’era scritto altro che “a bagnomaria 10 minuti, col microonde etc etc”, perché i tutorial sul tubo parlavano di polenta precotta ma ce la mostravano come fosse ancora farina di polenta, e perché, nei fatti, era la prima volta che ci capitava per le mani una polenta precotta.
La cosa, dopo quasi un anno di clausura direi che rientra nella norma, ha generato una microcrisi. Io che ho lamentato la scelta di andare in un supermercato a me ostile, oltre che la superficialità con la quale mi era stato detto che quella farina di polenta, che poi farina non era, andava bene, evidentemente senza neanche prestarmi un minimo di attenzione, Marina col dire che ero stato sciatto nel fare la spesa, poco importa che lei fosse con me, una volta tanto, e che non è che ci volesse tanto a prendere la farina di polenta giusta, farina di polenta giusta che per altro in quel supermercato non c’era.
Abbiamo alzato la voce.
Abbiamo interpretato rispettivamente le parti di quello che va sempre a fare la spesa, tanto poi sembra sempre che in casa non faccia mai niente, e di quella che, oltre che un lavoro a tempo pieno, lavoro a tempo pieno che con lo smart working è diventato ancora più pieno di prima, si deve pure prendere l’incarico di controllare che io, che il tempo pieno non so neanche cosa sia, l’artista, abbia scelto con oculatezza la farina di polenta.
Il tutto è sortito nella polenta precotta scaldata al microonde, ma con a fianco tagliatelle in quantità buttate giù per sicurezza, salvo poi scoprire che la polenta precotta è buona tanto quella da cuocere, forse anche di più, così abbiamo finito per mangiare sia le une che l’altra, con buona pace della mia dieta, andata ancora una volta a ramengo.
Questo non farà certamente sì che, la prossima volta che io e Marina decideremo di fare la polenta, piatto che non appartiene alle nostre rispettive culture culinarie, la mia totalmente marchigiana, la sua un po’ marchigiana un po’ abruzzese, culture ovviamente mescolatesi nel tempo a quelle di altre zone d’Italia, compreso il nord-ovest nel quale ci siamo trasferiti ormai ventitré anni fa, ma anche quelle di altre parti del mondo, ma pur sempre nostre culture ben radicate, questo non farà certamente sì che, la prossima volta che io e Marina decideremo di fare la polenta, opteremo direttamente per la polenta precotta, per intendersi, di quelle che rimangono compatte, che si tagliano a fette, che volendo si possono fare fritte, con buona pace non tanto della mia dieta, ma proprio del mio colesterolo, chiamato in caso direttamente in causa con una sorta di appello formale, ad personam, ma ci sono buone probabilità che se ci capitasse di nuovo per le mani, dubito nel medesimo supermercato che ho comunque messo nella mia black list, non esiteremmo a mettere quella polenta precotta prima nel carrello e poi in tavola.
Nella vita, del resto, può capitare di avere pregiudizi verso qualcosa, così, volendo più per viaggi che ci siamo fatti di nostra fantasia che per essere arrivati a costruire quei pregiudizi a partire da oggettività che avrebbero in effetti potuto portare da quelle parti, l’importante è poi ammettere di essersi sbagliati e cambiare idea, del resto, è noto, è anche trito e ritrito, ma è noto che solo gli stupidi non cambiano idea. Nella vita, è vero anche questo, può capitare di avere pregiudizi ben riposti, cioè può succedere che ci si faccia una idea su qualcosa a partire da una intuizione, da una suggestione, o che si proceda per deduzione, facendo confronti con situazioni simili, o in qualche modo analoghe, non starei adesso a mettere alla gogna tutti quei sacrosanti pregiudizi che abbiamo costruito con così tanta radicalità e dedizione, altrimenti dovremmo davvero star lì a testare tutto in prima persona, ben consapevoli che ci sono esperienze che no, non abbiamo mai fatto e non le abbiamo mai fatte perché non vogliamo farle, e basta.
Il fatto è che ho ascoltato Madame.
Lo so, partire dalla polenta per arrivare a una che ha il suo pezzo più forte che si intitola Sciccherie potrebbe suonare quantomeno bizzarro, ma io sono bizzarro, e onestamente il paragone calza parecchio, prendere o lasciare.
Ho ascoltato Madame per la prima volta in realtà parecchi mesi fa, diciamo quasi un paio di anni fa, quando per altro lei aveva appena sedici anni, sedici anni, ripeto, sedici anni. Ho una figlia adolescente molto curiosa, in ambito musicale, mi capita spesso di sentire quelli che di lì a breve diventeranno fenomeni in voga tra i giovani con qualche settimana o mese di anticipo sui tempi, a volte casualmente, cioè passando davanti a camera sua mentre lei, incautamente, ha lasciato la porta aperta, lasciando che la musica che ascolta costantemente, almeno quando non sta guardando qualche serie o sta studiando, non ovviamente in questo ordine di priorità, signori professori, a volte seguendo un piano preciso, di mia figlia, che quando identifica in una canzone e quindi in una o un artista qualcosa di particolarmente interessante, qualcosa che potrebbe diventare più che una canzone e quindi una o un artista di passaggio, viene da me e me lo fa ascoltare, sempre alla stessa maniera, uno smartphone appoggiato su un orecchio, gli occhi che mi sanguinano come una Madonna di provincia, senza neanche la speranza di un miracolo di comitive di devoti. Un giorno è arrivata da me, Lucia, mia figlia, e mi ha fatto sentire Sciccherie, dicendo, lei è una forte, molto.
Confesso di non aver capito quasi nessuna delle parole pronunciate nella canzone, cioè, capivo che lei, Madame, era italiana, ma il modo in cui se le mangiava tutte, sbiascicando, oltre a uno slang che immagino sia una roba da giovani, certo, e io non sono giovane, ma anche ostentatamente da giovani, come a voler alzare una palizzata tra boomer e non boomer, mi è risultata ostica.
Ho però colto una capacità compositiva importante, questo ho pensato ascoltandola, questa mi sembra una importante, cosa che in genere non mi capita mai, quando Lucia mi fa ascoltare qualcosa. Lei in genere ci resta piuttosto male, quando vede la mia indifferenza, se non la mia noia o il mio schifo, rispetto a canzoni e artisti che, evidentemente, la entusiasmano. Mi guarda malissimo, minaccia di non farmi sentire più niente, cosa che per lei è appunto una minaccia, per me a volte una via di salvezza, dice, in sostanza, che sono un vecchio e che quindi ho gusti da vecchio, anche se poi mi chiede come si intitola questo o quel brano dei Tiromancino o dei System of a Down, per dire, quindi sarò anche vecchio con gusti da vecchio, ma ho nella mia discoteca mine che lei, temo, ancora non abbia. Una volta, anzi, più di una volta, è successo che si sia palesemente offesa con me, dopo che l’ho accompagnata a un concerto e ho passato tutta la serata a guardare i social sullo smartphone. Meglio, certo, di quando l’ho accompagnata, ancora piccola, al concerto di Emis Killa per poi devastarlo sul Fatto Quotidiano, col mio pezzo di esordio su un quotidiano dopo anni di riservato ritiro, parliamo del 2014, o di quando ho praticamente fatto a pezzi il povero Fragola, credo fosse l’anno dopo, reo di avermi asciugato al suo innocuo concerto post-X Factor, fatto che per altro ha indotto Peter Gomez, mio direttore allora, a suggerirmi di coinvolgere mia figlia nel caso volessi ancora cimentarmi con qualcosa di giovanile, di lì nacque l’idea della pagelle Padre & Figlia che avete potuto seguire le scorse settimane da queste parti, meglio di quelle volte lì, certo, ma comunque un chiaro indicatore del mio disinteresse verso qualcosa che a lei piace, questa l’accusa non detta, e di conseguenza la mia indifferenza verso di lei, in questa ottica totalizzante tra ascoltatore e artista. Ricordo perfettamente la faccia lunga che ha fatto in auto mentre tornavamo dal concerto di Calcutta al Forum o di Gazzelle al Fabrique, anche se quest’ultimo, almeno per un paio di minuti, mi era pure piaciuto, al punto che a quel concerto è seguito uno showcase, mesi dopo, sempre al fianco di mia figlia.
Madame l’ho conosciuta così, e mi ha subito colpita. Tempo dopo ho sentito, per dire, Tha Supreme sbiascicare cose ancora più incomprensibili, e sì, anche lui l’ho trovato importante, confesso, però più da un punto di vista musicale che testuale, perché i testi, dai, diciamolo, sono poca cosa di fronte a quella fantasia produttiva che riesce a mettere sulle sue tracce. Tha Supreme e Madame, per altro, hanno una caratteristica comune, a parte essere considerati tra i fuoriclasse della musica che gira ora, sono entrambi quasi coetanei di mia figlia, Lucia. Lei, Lucia, ha diciannove anni, Madame ha pochi mesi meno di lei, è del 2002, mentre Tha Supreme ha qualche mese più di lei, di mia figlia. Tutti tra i diciannove e i diciotto anni, quindi.
Di Madame ho continuato a seguire le evoluzioni, le pubblicazioni. Ho apprezzato alcune cose, ne ho apprezzate altre meno, pur riconoscendole sempre una sua poetica molto precisa e bella, e riconoscendole la capacità, rara in un adulto, figuriamoci in una ragazzina, di saper spostare sempre di qualche grado le proprie canzoni, non rimanere cioè nel solito metro quadro di canzone, come invece fanno tanti suoi epigoni, penso soprattutto a certi trapper molto quotati. L’ho vista, perché sono andato a cercarmi i suoi video, e non ho potuto che provare una grande simpatia per lei e per quel suo modo così pieno di personalità di scherzare sui suoi apparenti difetti fisici, cui faceva già cenno in Sciccherie, difetti fisici tipo i denti storti, stigmatizzati nel video di Baby, e prima ancora elencati con impietosa precisione chirurgica in 17, brano che stigmatizzava proprio la stereotipizzazione del corpo o forse più l’adesione passiva a quella sterreotipizzzazione, a dimostrazione che l’autoironia è arma assai più potente di certa perfezione stereotipata e formale, parola di un denti storti come me. Ma soprattutto ho imparato a capirla, e capendola ho iniziato a immergermi anima e corpo non solo in quelle sonorità electropop e vagamente trap che sembra siano il solo suono in grado di raccontarci l’oggi, sono un boomer, è vero, ma sono anche un boomer che ai tempi ha molto seguito il rap, oggetto della mia tesi di laurea in Storia, al punto da farsi trovare pronto nel momento in cui il rap esplose con Eminem, come il solo in seno al già tante volte citato Tutto Musica a avere delle competenze a riguardo, la mia traduzione del libro ufficiale dei testi di Eminem, in epoca nella quale la rete era poco cosa, se volevi capire cosa diceva Eminem è lì che dovevi rivolgerti, come la pubblicazione del mio saggio GeneRAPzione, per Rizzoli, uno dei primi libri decisamente mainstream dedicati all’argomento, ne sono riprova, anche se il mio non essere un b-boy come loro, cito Lou X, mi ha sempre fatto guardare con reticenza da chi il rap lo faceva o lo seguiva come unica fede, sto andando decisamente fuori tema, ho imparato a capirla, dicevo, e capendola ho iniziato a immergermi anima e corpo non solo in quelle sonorità electropop e vagamente trap che sembra siano il solo suono in grado di raccontarci l’oggi, ma soprattutto a apprezzare proprio quel suo modo per me alieno di mettere le parole una dietro l’altra sulla melodia, perché benché spesso Madame rappi il suo rap è decisamente vicino a un cantato. Inventarsi parole che non esistono, o modificarne il significato facendole in qualche modo proprie è consuetudine non molto praticata in letteratura, ma comunque già decodificata, se qualcuno cioè lo fa nessuno sviene con le convulsioni o grida allo scandalo. Diverso è in genere in musica, dove le forzature vengono spesso guardare con diffidenza, si guardi la annosa vicenda, citata pochi giorni fa, degli accenti spostati da Max Pezzali, o si guardi a certi finti anglismi guardati quasi con compiaciuta benevolenza, la stessa che in genere si riserva agli scemi del villaggio, di Zucchero o di Pino Daniele, come se le parole fossero dei blocchi compatti di ghisa, immodificabili, pena la morte.
Chiaramente, il cambiare il senso di alcuni termini, o l’inventarsene di altri, in sé, non è un pregio, un valore. Lo si può fare con un senso della frase, seguendo una poetica e una forma stilistica che quella poetica rende viva, ma lo si potrebbe fare anche male, come scorciatoia per uscire almeno momentaneamente da vicoli ciechi.
Madame ha un suo stile letterario molto preciso, riconoscibile. Ha uno stile, nel senso di forma, ma ha anche uno stile nel senso di sostanza, la sua è una poetica fatta non solo di linguaggio, quindi, ma anche di messaggio che quel linguaggio veicola. Detto così, lo so, è una cosa pesante, ostica, ostile, ma sentitevi le sue canzoni per capire come il problema sia tutto mio nell’esporvi la mia lettura, non certo suo nel farsi leggere. Un po’ come la polenta precotta, la puoi mettere dentro l’acqua che bolle, pensando che sia una sorta di soluzione liofilizzata che in acqua troverà modo di esprimersi, o puoi semplicemente scaldarla, questa la via giusta, perché di polenta compatta si tratta, buona e da mangiare a fette.
La Madame perfetta di Sciccherie, quella cioè difficile da capire al primo ascolto da un quasi cinquantenne che ascolta una canzone appoggiando all’orecchio lo smartphone di sua figlia, è una canzone che è una sorta di manifesto di un modo, il suo, di stare al mondo. Un modo che aggira e affonda gli stereotipi, facendo del suo non aderirvi non una resa, quanto una vittoria, la vittoria per antonomasia. L’ultima arrivata in casa Madame, Clito, va anche oltre, tirando direttamente in ballo una visione patriarcale del mondo, il diritto a godere che in qualche modo il citare il clitoride non può che richiamare. Musica e testo sono più duri, quasi sbruffoni, ma direi che ci sta perfettamente, il tema lo richiede. Sbruffona, Madame, ma sempre con leggerezza, è chiaro, una sorta di mano di vernice fluo al vecchio slogan “l’utero è mio e me lo gestisco io”, senza che quindi vengano tirati in ballo stilemi usurati e ormai sgonfi (e so che nel dire questo farò alterare chi quegli slogan li ha gridati, anche a ragione).
Ma se però la parola Clito, l’abbreviativo Clito, sparato lì nel titolo, e fermo a muoversi nel video in versione grafica, è sicuramente di un certo impatto, non abbiamo certo le Cardi B o le Nicki Minaj a spararci in faccia storie di anaconde o di suoni onomatopeici provocati dal sesso, devo ammettere che la parola che più mi scompone, la frase che più mi scompone tra quelle messe da Madame, ripeto, diciotto anni di talento e denti storti da Vicenza, dentro le sue canzoni è quella con cui si chiude la prima strofa di Sciccherie, “Ciao amore bibbi bello, però dammi coccoline”. Una parola dolce, infantile, quasi, messa dopo una sequela di frasi che disturbano, almeno disturbano me padre cinquantenne di una ragazza appena maggiorenne che mi sta facendo ascoltare una canzone che cita, en passant, “succhia lì”, “ficcatine” e via discorrendo. Un ricondurre, così ho interpretato io il tutto, credo a ragione, ai sentimenti un discorso che parte però dal corpo, quel voler essere “come quelle un po’ più fighe”, per piacere a “quelli che mi davano i bacini però senza volere me”. Bacini, coccoline, ma poi anche “la saliva che non metti sopra e cartine la sprechi a dirmi ciò che non voglio sentire”, invenzioni verbali degne di una poetessa.
Confesso che in questi giorni ascolto spesso Madame, seppure il suo essere in qualche modo mainstream un po’ mi immalinconisce, perché le canzoni che fa con altri, da Marracash a Sfera Ebbasta, passando per Gaia o i Negramaro, per non dire del passaggio a X Factor con Blind, sono sicuramente importanti per farla conoscere a un pubblico più ampio, ma sono decisamente qualche tacca sotto non solo le sue potenzialità, ma anche sotto quel che in solitario ha fatto fin qui.
Ripeto, sentitevi Sciccherie, 17, Sentimi, Baby o Clito e poi ditemi se a diciotto anni questa ragazza non è un vero fenomeno.
Lo so, sono stanco, il corpo è appesantito dal poco movimento, la mente vacilla, il futuro non offre grandi prospettive, io sbaglio pure a comprare la farina di polenta ritrovandomi poi qui a scrivere di Madame, neanche avessi appena letto un racconto inedito di Hubert Selby Jr, uno che un suo personale vocabolario se l’era in effetti inventato, uno che aveva anche deciso che il suo personaggio più scabroso e romantico, dotato cioè di quel romanticismo che porta inevitabilmente alla morte, la prostituta protagonista di Ultima fermata Brooklyn, si sarebbe potuta chiamare solo Tralalà, nome dolce e infantile che nascondeva un baratro nel pozzo dell’anima.
Voi vogliatemi bene, mentre vi mangiate la polenta fatta come Dio comanda, e datemi coccoline.