Nelle settimane scorse si è parlato parecchio della copertina del nuovo singolo di Jennifer Lopez. Le copertine dei singoli, oggi, praticamente non esistono, perché non esistono fisicamente i singoli, e perché i francobollini dei singoli sulle piattaforme di streaming sono così piccole che riuscirebbe a distinguerne il contenuto giusto qualcuno dotato di un superpotere, tipo quello dei cani che sentono gli ultrasuoni, per intendersi, ma invece che sentire gli ultrasuoni chi ha questo potere qui può vedere le piccole iconcine dei singoli sulle piattaforme di streaming.
Le copertine dei singoli, quindi, non esistono, o meglio, non esisterebbero, non fosse che poi i cantanti e le cantanti, è di Jennifer Lopez che stiamo parlando, le condividono sui social e quindi le rendono visibili, e a loro modo anche virali. La copertina del nuovo singolo di Jennifer Lopez, In the Mornging, è diventata virale, e non poteva che essere così, perché la copertina del nuovo singolo di Jennifer Lopez, cinquantuno anni compiuti da poco, ce la mostra come mamma l’ha fatta, un tempo si diceva così, con indosso il solo preziosissimo anello di fidanzamento regalatole da non so bene chi. Ora, l’espressione “come mamma l’ha fatta”, è evidente, non è affatto pertinente al caso in questione, come a tutti i casi in cui a mostrarsi non sia una neonata, e nel caso specifico, per altro, non si dovrebbe dire “mostrarsi”, perché un neonato, è chiaro, non potrebbe mostrarsi anche volendo. Perché Jennifer Lopez, di qui la viralizzazione dell’immagine di copertina del suo nuovo singolo, a cinquantuno anni suonati si tiene piuttosto in forma, e dubito fortemente che il tutto sia merito solo della mamma. Immagino che oltre la natura, che sicuramente con lei è stata piuttosto generosa, la copertina non lascia molto all’immaginazione, in effetti, una buona dieta e un allenamento costante siano stati di grande aiuto. Già ricorderete che qualche tempo fa si era molto parlato di Jennifer Lopez, e più in generale di quella generazione che un patriarcato d’accatto identificherebbe come MILF, Dio me ne scampi, il tutto a partire dal suo aver indossato un abito, mi sembra di Donatella Versace, ma non ci scommetterei, indossato in precedenza per i Grammy Awards del 2000, senza però non solo rendersi ridicola, ma far capire che nel mentre erano passati venti anni circa. L’abito, nome in codice Jungle Dress, non è che coprisse tantissimo, quindi fare un confronto era più che normale. Molti gridarono al miracolo, indicando in Jennifer Lopez una sorta di madrina di un riscatto generazionale, altri, io, per dire, sottolinearono come il non far vedere il tempo che passa non sia esattamente qualcosa da sbandierare. Intendiamoci, non sto dicendo che Jlo non avrebbe dovuto fare quel che ha fatto, non me lo ha chiesto, non glielo avrei detto e più in generale è bene che ognuna e ognuno faccia quel che vuole. Ha indossato con orgoglio un abito indossato venti anni prima, e lo ha fatto senza forzi, con naturalezza. Io provavo a essere critico nei confronti di chi ha guardato al suo apparente non invecchiare come un comportamento poco carino, perché credo, parlo per me, non per Jennifer Lopez, che invecchiare sia parte del vivere, e che quindi anche chi invecchia in maniera meno wonderwomanistico di Jennifer Lopez dovrebbe poterlo fare senza imbarazzi o vergogne. Mi sto incartando, lo so, e mi sto incartando parlando di femminile, quindi andando a mettere bocca su argomenti che non dovrei neanche pensare, perché slittare nel mansplaining è un attimo, perché essere maschilisti pure, volendo anche sessisti. Solo che io sto parlando di una copertina di un singolo, materia che invece mi compete per lavoro, sono un critico musicale. E nella copertina del nuovo singolo di Jennifer Lopez, In the Morning, c’è lei, Jennifer Lopez, come mamma l’ha fatta e lei si è resa negli anni (lei e il mondo, insomma, concedetemi un minimo di respiro, dai). A corredo della copertina, Jennifer Lopez sembrava quasi stupita che nei commenti nessuno si soffermasse sull’anello preziosissimo di fidanzamento, povera stella, ha anche postato un video, sempre vestita alla stessa maniera, che non ha mancato a sua volta di diventare virale. Mettiamola così, Jennifer Lopez è piuttosto in forma, e ci tiene a farcelo sapere in maniera incontrovertibile.
A me, che comunque ho apprezzato la forma fisica di Jennifer Lopez più che l’anello di fidanzamento, preziosissimo, e che comunque avevo apprezzato anche l’aver indossato il Jungle Dress e buona parte delle sue mise nel corso degli anni, ha colpito però più un dettaglio che, sembra, non abbia neanche sfiorato buona parte di chi ha commentato quella copertina, quell’essere nuda, quell’essere in forma, cioè il fatto che sul volgere di un anno in cui buona parte del comparto musicale, in teoria, avrebbe dovuto fermarsi, fermi sono i tour, senza nessuna ipotesi di ripartenza, fermi di conseguenza sono un sacco di artisti che puntano molto sui tour, più che sulle uscite discografiche, vedi le popstar e rockstar di casa nostra, quindi il fatto che sul volgere di un anno terribile, lei, Jennifer Lopez, sia uscita con un nuovo singolo, In the Morning.
A ben vedere, però, e io ben vedo perché questo è appunto il mio mestiere, va detto che se il 2020 verrà ricordato, almeno per chi scrive di musica, come l’anno senza musica dal vivo, ci sono buon chance che venga ricordato anche per l’anno in cui le popstar internazionali donne hanno deciso quasi nella loro totalità di tirare fuori i propri album, o quantomeno qualche singolo.
Ultima in ordine di tempo una rediviva Britney Spears, negli ultimi tempi più al centro dell’attenzione per i suoi problemi personali e soprattutto per la discutibile gestione che ne sta facendo suo padre, tornata in scena col singolo Swimming in the Stars, brano arrivato per festeggiare il suo trentanovesimo compleanno e incluso nella riedizione del suo ultimo lavoro di studio, Glory, uscito quattro anni fa e che in copertina, manco a dirlo, ce la mostrava in bikini, la schiena inarcata come può fare solo chi non sa cosa sia la cervicale, ma prima di lei in questo 2020 sono uscite praticamente tutte le top player.
Non ricordo bene la cronologia delle uscite, perché questo anno è talmente dilatato da sembrare infinito, e quindi scontornato nei ricordi, ma a marzo è uscito Future Nostalgia di Dua Lipa, un lavoro che ci regalava una artista in splendida forma, una sorta di ponte tra la pop-dance degli anni Ottanta e l’electropop degli anni Novanta, un lavoro filologicamente perfetto, in grado di far iscrivere il nome dell’artista di origine albanese-kosovara nel gotha del pop.
Sarebbe dovuto uscire sempre a inizio primavera, ma è slittato a fine maggio a causa del Covid invece Chromatica di Lady Gaga, un poderoso ritorno a certe sonorità electrodance dei suoi primi lavori, e nel caso di Lady Gaga tocca sempre specificare in che campo si sta muovendo, avendoci abituati a repentini cambi di genere, dal pop allo swing, passando per quella strana forma di folk che era Joanne. Un lavoro che la riposiziona in vetta all’Empireo del pop, lei che ha del resto si è già posta su in cima sin dal suo esordio, singoli quali Stupid Love, accompagnato da un video futuristico degno delle sue migliori performance, Rain on Me, con Ariana Grande, e 199 stanno lì a futura memoria. Anticipato dal singolo Never Really Over, il 28 agosto è uscito il nuovo album di Katy Perry, Kety Perry che soltanto due giorni prima, il 26, ha partorito Deisy Dove, figlia avuta da Orlando Bloom. Seppur il 2020 sia l’anno che è, va detto che Smile è forse il primo lavoro della nostra dopo Teenage Dreams a potersi paragonare a quello che è a tutti gli effetti uno dei capisaldi del pop del nuovo millennio. Diciamo che, forse complice proprio la gravidanza e la ritrovata serenità familiare con Bloom, Katy Perry decide di sfornare un lavoro che sia solo e soltanto il suo, senza fare l’occhiolino alle mode del momento, per altro per lei non praticabili, non essendo Halsey, che a lungo è stata il suo spauracchio neanche troppo nascosto. Certo, era più credibile quando giocava sull’ambiguità o si dipingeva come la pin-up gommosa dei sogni degli altri, mentre ora gioca molto la carta del woman enpowerment, forse fuori tempo massimo, ma i pezzi ci sono e il sound smaccatamente pop-dance del tutto è di quelli che vanno giù come acqua fresca d’estate (che è il corrispettivo di come mamma l’ha fatta, sia chiaro).
Sempre in estate, a fine luglio, è uscito anche Folklore, nuovo lavoro di Taylor Swift, una che negli anni si è contesa con Adele la corona di regina delle vendite, per altro schifando a più riprese, entrambe, le piattaforme di streaming. Stavolta la Swift, un passato nel country, un presente nel pop, è andata a muoversi tra suoni cupi e acustici, complice la produzione di Aaron Dessner dei The National e Jack Antonoff dei Bleaches, e ancor più complice, ci piace pensare così, la penna di Bon Iver, presente in cinque delle diciassette tracce. Un lavoro intimo, quindi, come del resto non poteva che essere quello uscito di getto durante la prima ondata, per una artista che ha in repertorio una gamma di colori amplissima, come forse solo Lady Gaga. E proprio mentre hanno cominciato a circolare le re-incisioni del suo vecchio repertorio, operazione da lei fortemente voluta a causa di una controversia col suo primo produttore, Scooter Braun, ecco la sorpresa di Evermore, album gemello di Folklore, uscito a soli cinque mesi dal primo, stessa squadra di lavoro, altro duetto con Bon Iver, lì in Exile, qui nella titletrack, oltre che un duetto coi The Nationale di Dessner. Tanto quello era un album oscuro, malinconico, tanto questo è un album che apre alla speranza, un lavoro gigantesco fatto durante la pandemia, a riprova di quanto il pop sia arte da guardare con attenzione, a volte, da rispettare, sicuramente, da scrutare come si fa con i fondi di caffè, addirittura. Tayler Swift si dimostra artista fondamentale per provare a tendere un ponte tra boomer e generazione Z, ma a parte queste considerazioni da boomer, si conferma solido pilastro della cultura musicale contemporanea.
Di Kylie Minogue, tornata sulle scene con Disco, album che già dal titolo omaggia il mondo della dance, ho già scritto qualche giorno fa, e sapere che la cantante australiana, naturalizzata britannica, è di nuovo in giro è sempre qualcosa di rasserenante
Non è invece affatto rassicurante, non fosse altro perché per sua natura voleva essere un album che cogliesse in pieno lo spirito del lock down, How I’M Feeling Now di Charli XCX. La popstar britannica, titolare di alcune delle più potenti hit pop degli ultimi dieci anni, si pensi a I Love It delle Icona Pop, sforna un lavoro iperpop che, fatto rigorosamente in casa e a distanza, tradisce uno straniamento che del resto è stato presente anche nei suoi lavori più cool, come il blockbuster Sucker, ormai di sei anni fa. Diciamo che Charli XCX si è fatta prendere un po’ la mano dallo spippolare con le macchine, chiusa in casa, e che il risultato è una perfetta fotografia dell’oggi anche per quel suo essere sempre un filo sopra le righe, iperzuccheroso e effettato com’è.
Sempre figlio di uno periodo singolare come questo è il sorprendente ritorno sulle scene di Fiona Apple, di nuovo su piazza con Fotch the Belt Cutters, lavoro quantomai cervellotico, come tutto quello che la Apple ha sfornato lungo la sua carriera, a ben vedere neanche troppe canzoni, ma con in più la variabile di essere in parte suonato da strumenti tirati fuori da oggetti trovati in casa, questo passava il convento durante il lock down, lock down che per la Apple è partito assai prima del Covid19, sia chiaro, il suo pianoforte e la sua voce calca e sensuale a tenere insieme tutto. Un album di una bellezza conturbante e disturbante, come del resto non potrebbe che essere quando a muovere le fila c’è lei. Come conturbante e disturbante, seppur in tutt’altro mondo sonoro, decisamente più elettronico, rarefatto, è Manic di Halsey, una delle più interessanti artiste apparse sulle scene negli ultimi anni. Una, per intendersi, capace di tirare fuori hit incredibili, si pensi al brano sfornato con i Chainsmokers, Closer, o alla sua Without Me, ma anche di tinteggiare le pareti della nostra anima con brani decisamente più orientati a dialogare con il nostro lato intimista, oscuro, volendo anche depresso. L’ho già scritto anche nella prima versione di questo diario, quello che mi ha visto impegnato da febbraio a giugno, considero Halsey una delle più grandi artiste in azione, sicuramente in ambito pop, ma non solo. Un gigante.
E se una come Halsey, non solo lei, ovviamente, ma lei più di altre, è capace di prendere il concetto di pop e declinarlo secondo un proprio linguaggio, piegarlo a una forma a se consona, possederlo come certi demoni fanno con i loro succubi, chi invece decide ancora una volta di andare sul sicuro, cioè in un pop che fa l’occhiolino neanche troppo sublinalmente alla trap, o a quello che la trap è diventata in USA è Ariana Grande, che col suo Positions prosegue la sua cavalcata sicura verso numeri talmente impressionanti da poterle permettere, volendo, qualche svisata, svisata che però non si trova tra le tracce di questo lavoro, destinato a permanere a lungo nelle classifiche di vendite, è chiaro, ma preso in considerazione anche da quelle di chi compila quelle buffe classifiche degli album migliori usciti durante l’anno (no, quello che state leggendo non è uno di quei pezzi, questa non è una classifica).
Da segnalare, seppur non mi abbia particolarmente colpito, Rare di Selena Gomez, album della maturità, certo, ma rispetto alle colleghe forse troppo “normale”.
Meriterebbe un discorso a parte colei che più di ogni altra ha incontrato i favori del pubblico negli ultimi tempi, l’artista che meglio sembra incarnare lo spirito della Generazione Z, o millennials che dir si voglia, colei che col suo pop autorale e per certi versi quasi acustico, una scrittura importante che si sposa con la produzione altrettanto solida del fratello Finneas ha dominato non solo le classifiche ma ha anche fatto incetta di buona parte dei vari Awards a disposizione, quella Billie Eilish che è passata nel giro di poco tempo dall’essere la Next Big Thing all’essere un caposaldo della discografia dell’Era Streaming. Lei, forte di un album come When We All Fall Asleep, Where Do We Go?, portando a casa numeri degni solo dei top player, contraltare femminile a Bad Bunny per Spotify, e Dio abbia pietà di me per aver citato una di quelle stupide classifiche del colosso svedese, col video Bad Guy che ha superato il miliardo di view, fatto che è stato celebrato con un video infinito, centinaia di cover del brano che si susseguono in loop, ha deciso di lasciare a suo modo un segno nel 2020 andando a chiuderlo con un singolo dal titolo Therefore I Am, lei che aveva già tirato fuori Not Time To Die, parte della colonna sonora dell’omonimo episodio cinematografico di 007, Ilomilo, ottavo singolo del suo album d’esordio, e My Future, brano uscito in luglio e accompagnato da un bizzarro video animato, brano uscito un po’ in sordina e non sposato dallo stesso successo degli altri, forse perché uscito in piena estate, o meglio nel pieno dell’estate del post lock down. Peccato che però Therefore I Am, brano che da molti è stato presentato con meraviglia per quel suo citare il Cogito ergo sum di Cartesio, abbia raggiunto il singolare risultato di potersi fregiare del titolo di prima canzone veramente brutta sfornata da questa giovanissima e talentuosissima artista. Una canzone brutta, certo, ma più che altro una canzone banale, di quelle che chiunque altra avrebbe potuta fare, intendendo con quel “chiunque altra” un novero ristretto di popstar, certo, ma comunque non lei che fin qui non ne ha sbagliata davvero una, inventando a suo modo il genere di cui è ovviamente regina. Non che questo significhi che ha perso il suo tocco, che ha finito le sue cartucce o sciocchezze del genere. Ha semplicemente sbagliato un singolo, si rialzerà e riprenderà a correre, ne sono sicuro.
Chi invece sembra aver ripreso a correre, come del resto ci aveva abituato a fare negli anni, seppur correndo a zig-zag come una pazza furiosa, cambiando in continuazione direzione, genere, poetica, comunicazione, è Miley Cyrus, da poco uscita con Plastic Hearts, suo album destinato a rinverdire i fasti che furono di Bangerz. Non perché il nuovo lavoro somigli all’album che l’ha lanciata, complice il twerking con Thicke, le foto con Terry Richardson, il video in cui cavalcava nuda su una palla da demolizione, quello di Wrecking Ball, appunto, e tutta quella sequela di gesti situazionisti, in bilico tra seduzione e ambiguità, tra provocazione e candore bambinesco, del resto fino a poco prima lei, Miley Cyrus, era la reginetta della Disney, Hannah Montana, ma perché, dopo aver sposato in toto lo spirito stralunato e indipendente dei Flaming Lips col suo Miley Cyrus and Her Dead Petz, andatevi a risentire la bellissima Karen Don’t Be Sad e piangetene tutte, dopo essersi riimmersa anima e corpo, corpo per qualche tempo meno esposto di quanto non sia di solito, ricordiamo che Miley è la testimonial principe della campagna Free The Nipple, perché i capezzoli femminili abbiano lo stesso trattamento di quelli maschili, quindi non vengano censurati, dopo quindi esseri riimmersa anima e corpo nel country, lei figlia di Billy Ray Cyrus, campione del genere nato a Nashville, un country, nel caso di Younger Now, suo album del 2017, assai poco glamourizzato, un concentrato di canzoni solide, quasi monolitiche, che ulteriormente mettevano in risalto le incredibili doti canore della nostra, dopo aver tirato fuori un EP di chiara matrice electropop, dove a fare da sottotraccia era un discorso femminista che tirava in ballo corporeità e fluidità, prima parte di tre EP annunciati, gli altri due rimasti impigliati non si sa bene dove, dopo aver annunciato anche un album di cover dei Metallica, pure questo ancora non pervenuto, insomma, dopo aver giocato a correre da tutte le parti, il pop colorato di suoni urbani di Bangerz, l’idie, il country, ecco che stavolta Miley gioca col rock, come del resto ha più volte fatto negli anni, con le tante cover regalateci sul web e attraverso i social, e lo fa cogliendo il bersaglio alla figura. Plastic Hearts è infatti il suo omaggio al quattro quarti per antonomasia, certo corroborato da forti tinte di elettronica e di pop. Non a caso troviamo tra gli ospiti nomi quali Billy Idol, nella notturna e new wave Night Crawling, Joan Jett in Bad Karma e addirittura Steve Nicks nel remix di Midnight Sky, intitolata per l’occasione Edge of the Midnight Sky, un parterre de roi mica da ridere, se è al rock del passato che si vuole guardare. Il presente è invece rappresentato tutto da quella Dua Lipa che divide con lei Prisoner, hit del momento presentato da un video dai toni splatter e sensuali, entrambe sono infatti piuttosto solite giocare con la propria sensualità, insieme fanno danni. Questo album non è rock. È una citazione del rock, specie quello degli anni Ottanta, penso a Blondie, non a caso coverizzata nel finale con Heart of Gold e omaggiata con la copertina dell’album, ancora a parlare di copertine nel 2020, caspita, ma è una citazione divertita nella quale Miley Cyrus ha davvero voluto mettere tutto, finendo apparentemente per confondere troppo le acque, come quando si decide di cucinare mettendo troppi ingredienti in una pietanza. Solo che tutte le pietanze presentate fin qui, album dopo album, look dopo look, perché anche su quel fronte la abbiamo vista in tutte le salse, sembrano esplodere nelle tracce di questo lavoro, che seppur confuso finisce per essere una specie di spettacolo vaudeville di tutto quanto la musica americana ci abbia offerto nell’ultimo mezzo secolo.
Sotto la patina rock, infatti, troviamo davvero tutto, dal country al punk, passando per l’immancabile pop a tinte elettroniche.
Un album mondo, verrebbe da dire, quando il mondo che l’album volesse rappresentare dovesse essere un mondo quantomai variegato e abitato da tante razze diverse. Un mondo album universo, forse, dove a tirare le fila si trova una aliena coi capezzoli ben in evidenza e la lingua sempre fuori dalla bocca. Non c’è una traccia che una che si possa definire minore, fatta forse eccezione per la caciarona Bad Karma, salvata giusto da un giro di basso di chiara matrice Mark Ronson, ma sicuramente, a parte le bellissime Never be Me, Golden G String, Gimme What I Want, le due canzoni più azzeccate della tornata sono Heart of Glass e Zombie, rispettivamente cover di Blondie e Cranberries, interpretate con tale naturalezza da sembrare sue da sempre. Un album confuso e assai apprezzabile, insomma, perfetta fotografia di un anno che ci ha tolto da sotto i piedi qualsiasi certezza.
Il 2020, quindi, anno del ritorno delle popstar internazionali.
Certo, mancano all’appello la regina Madonna, che quest’anno come il precedente ha dovuto fare i conti anche troppo con il fisico che comincia a cedere e anche con una stabilità emotiva non proprio rocciosa, tutti abbiamo letto certi suoi imbarazzanti post durante il lock down, come sono mancate all’appello le certamente non comprimarie Beyoncé, Rihanna e Shakira, uscita in questi giorni dentro il nuovo singolo degli ormai ipercommerciali Black Eyed Peas, Girl Like Me, un brano leggero destinato a diventare tormentone che, però, la vede ospite e non padrona di casa, fino all’ultimo speravamo di ascoltare la nuova attesissima fatica di Adele, nel mentre ultradimagrita e per questa passata alla TAC da buona parte della stampa e dei social, come se il dimagrire o meno potesse essere oggetto di dibattito pubblico, ma resta che questo 2020 è stato davvero un album molto generosissimo sul piano del pop al femminile, almeno a livello internazionale.
Del resto proprio a gennaio, quando tutto quel che ci attendeva dietro l’angolo era inimmaginabile anche per Soderbergh, una delle prime a uscire era stata Tove Lo, con il singolo Bikini porn, andato a infoltire la tracklist del già edito Sunshine Kitty, uscito nel 2019, e Tove Lo è probabilmente insieme a Halsey una delle artiste di maggior rilievo tra quante si muovono al momento, non siamo stati capaci di intuire che piega avrebbe preso la pandemia, a capire almeno che sarebbe stato un anno all’insegna del pop al femminile ci potevamo arrivare.