I miei genitori si sono sposati sessant’anni fa. Era nel pieno del boom economico, una Italia che abbiamo appreso dai film in bianco e nero, dai racconti appunto dei genitori, parlo di noi nati pochi anni dopo, dai libri di storia. Erano due giovani anconetani, la famiglia di mia madre arrivava da Tolentino, provincia di Macerata, poco cambia, speranzosi in un futuro insieme che, in effetti, li ha visti questa estate festeggiare le Nozze di Diamante, seppur con le restrizioni del caso. Mio padre faceva il bigliettaio nella azienda dei trasporti pubblici della mia città, Ancona, mia città in quanto città nella quale sono nato, mia madre lavorava per una azienda che l’avrebbe licenziata perché una donna sposata e intenzionata a fare figli non era un investimento ritenuto opportuno, all’epoca. Si sono sposati il 4 luglio 1960, e il loro viaggio di nozze li ha visti andare nelle Dolomiti. Da allora ci sono andati con continuità per non saprei dire neanche io quanti anni. Io, personalmente, ci ho passato qualche settimana per praticamente i miei primi diciassette anni della mia vita, prima con tutta la famiglia, che includeva anche mio fratello Marco, ora cinquantanove anni, e mia sorella Caterina, di tre anni più piccola, poi da solo coi miei genitori. Sempre le Dolomiti, che si trattasse di Vigo di Fassa, di Pozza, di Ziano di Ziano di Fiemme, o luoghi limitrofi. Qualche minima variazione, come un anno che andammo in Val d’Aosta con la parrocchia, se no sempre da quelle parti. Ogni anno una puntata all’albergo dove erano stati ospiti durante il loro viaggio di nozze, almeno una giornata passata a passeggiare intorno al Lago di Carezza, il monte Atemar a sovrastarlo, magari una capatina alle cascate di Cavalese o a quella alle cascatelle di Valle San Niccolò. Di foto di me da piccolo ce ne sono poche, pochissime. All’epoca si tendeva a avere cura dei rullini, scattare solo le foto giuste, sempre con l’imprevisto che fossero venute bene. Non erano foto digitali, fatte con lo smartphone, che le vedi nel momento in cui le fai. Molte di quelle mie foto da bambino sono da quelle parti. Quasi nessuna al mare, nonostante io sia nato in una città di mare e abbia passato al mare buona parte delle mie estati, tutte e cinquantuno. Di solito in montagna ci si andava a fine giugno, inizio luglio. Mai dopo. Mai di inverno.
Quando ho compiuto diciannove anni non sono andato in vacanza coi miei. È stata la prima volta. Non ci sono andato perché mi ero da poco fidanzato con colei che sarebbe diventata mia moglie, Marina, che è ancora mia moglie, e lei aveva l’esame di maturità, volevo starle vicino, tenerle compagnia. Lei era stata una sola volta sulle Dolomiti, mi aveva raccontato, con la sua famiglia e la famiglia dei migliori amici dei suoi genitori. Aveva visto gli stessi luoghi che ben conoscevo, la Marmolada, Canazei, sempre quei posti lì. Io a diciannove anni non avevo l’esame di maturità, perché come ho già raccontato ho cambiato scuola dopo essere stato promosso al mio primo anno di ragioneria, ricominciando da capo al Classico. Ero un anno indietro. L’anno successivo non sono andato in vacanza coi miei, avevo la maturità io. Non ci sarei andato comunque, non ci sono più andato coi miei. A dirla tutta non sono più andato in montagna fino a qualche anno fa, come se avessi di colpo avuto il rigetto per qualcosa fatto per troppo tempo. Con Marina abbiamo cominciato a girare l’Europa, le capitali, una voglia di conoscere il mondo che poi mi ha portato per anni a fare il reporter per riviste di settore. Qualche volta altre parti di Italia, ma mai la montagna. Sono arrivati i figli, le vacanze, vivendo a Milano, prevedevano sempre qualche settimana da passare in Ancona, per vedere i nostri cari, e anche a Vasto, dove la famiglia di mia moglie ha avuto la casa fino a pochissimi anni fa. Ho fatto il calcolo che ho passato circa due anni di vita a Vasto, mettendo insieme le settimane trascorse lì nel corso degli anni. In montagna ne ho passate meno, ma di Vasto non ho mai avuto rigetto, della montagna sì.
Quando poi sono arrivati i gemelli, nel 2011, le vacanza sono diventate per un po’ stanziali, perché spostarsi in sei era più faticoso, oltre che più costoso. Ci siamo goduti le nostre città di mare. Poi abbiamo deciso di fare una vacanza in montagna, così, all’improvviso, come certe storie d’amore che finiscono, poi i protagonisti si rivedono e tutto riparte con la stessa passione. Magari non proprio con la stessa passione, i tempi sono cambiati, i protagonisti sono più maturi, ma comunque con passione. Abbiamo deciso, sulla carta, di andare vicino a casa, in Svizzera, nell’Engadina, perché era la prima vacanza in auto coi gemelli, e non volevamo stancarci troppo. Non avevamo considerato, da piccolo non ero io a guidare, che le poche centinaia di chilometri che ci dividevano da Samnaun, questo il nome del paesino dove avevamo affittato un appartamento, erano assai più lontani delle tante centinaia di chilometri che ci dividevano, per dire, da Vasto, da una parte strade di montagna, curve, gallerie, salite, dall’altra l’autostrada. Da Milano a Samanaun, questo lo abbiamo scoperto strada facendo, non avevamo il navigatore in auto e non c’era ancora Google Maps sugli smartphone, duecentosessanta chilometri, ci abbiamo messo quasi cinque ore. Per altro gli ultimi chilometri sono stati terrificanti, perché per salire, è il caso di dirlo, in paese, tocca fare una serie di tornanti in salita piuttosto ripidi, con delle gallerie strettissime e scavate nella roccia, senza feritoie, talmente strette che ci passa giusta giusta una monovolume come quella che avevamo allora, una galleria buia e strettissima nel quale c’era per di più il doppio senso di marcia, che equivaleva a dire che quando entravi dovevi pregare non fosse nel mentre entrato qualcuno nel senso opposto o uno dei due si sarebbe dovuto fare il percorso in retromarcia, perché due auto in contemporanea lì non ci passavano, il che significava che ogni volta che ci entravo, le gallerie erano tre e ogni volta che durane quella vacanza ci siamo spostati per fare passeggiate lì intorno lì siamo dovuti passare, toccava letteralmente prendere fiato e pregare che Dio ce la mandasse buona, un’ansia che non vi dico. Comunque, quella a Samnaun è stata la nostra prima vacanza in montagna insieme. La seconda se ci vogliamo mettere un paio di notti passate con Marina, Lucia, ancora piccolissima, mia suocera e il nonno di Marina dalle parti di Villetta Barrea, sulla Maiella, in Abruzzo, ma quella era più una gita lunga che una vacanza. Samnaun è stata la prima, bellissima, vacanza in montagna della mia famiglia. Nonché l’ultima, quasi. Non perché non ci sia piaciuta, è stata un’esperienza molto riposante, posti bellissimi, organizzazione incredibile, pulizia dei ristoranti, strade tenute come gioielli, paesaggi mozzafiato, ma poi, i gemelli nel mentre crescevano, diventavano un filo più autonomi, abbiamo optato per vacanze diverse, al mare, in Salento, prima, e in giro per l’Europa, poi. Ecco, nell’estate del 2019, che ora sembra più lontana di quando andavo in vacanza a Vigo di Fassa coi miei, tante le cose che sono successe nel mentre, siamo andati nell’Europa dell’est e del nord, da Budapest a Berlino, passando per la Polonia, una delle tappe l’abbiamo fatta a Zakopane, nei monti Tatra. Una sola notte, con i due giorni intorno. Zakopane e più in generale sono luoghi bellissimi, di cui, confesso, non avevo mai sentito parlare. Una sorta di casa di Heidi, in effetti è pieno di casette di legno che sembrano più quelle delle favole che reali abitazioni, immerse in un paesaggio aspro e verdissimo. Poi siamo andati verso Cracovia e poi ancora a Berlino, a respirare un po’ di modernità e progresso di stampo teutonico.
Quest’anno siamo andati per una settimana sui Monti Sibillini, montagne incantate della mia regione, le Marche. Posti conosciuti di sfuggita, o anche solo per nome, montagne, certo, ma a un’ora dal mare, a un’ora da quella che per ventotto anni della mia vita è stata casa. Posti incredibili, con una storia affascinante e un presente fatto di ricostruzioni post-terremoto mai partite, abbandono, resilienza. Ci tornerei anche domani, ma lo dico per dire, sono bloccato a Milano e qui resterò fino a chissà quando.
Tutto questo per dire che non sono un appassionato di montagna. Tutt’altro. Ci sono andato a lungo, conosco le nostre montagne, ma da che ho modo di decidere in prima persona dove andare ho sempre evitato di andarci, non solo per quel costante constatare che le vacanze in Italia spesso costano assai più delle vacanze all’estero, cosa che confermo, quest’anno siamo andati sui Sibillini solo perché non c’erano alternative, il Covid ci ha tenuto a freno, non solo quindi perché andare in vacanza in montagna, in Italia, costa più che girarsi mezza Europa, anche perché la montagna non è esattamente la mia idea di vacanza. Ci sono andato tanto, ci sono tornato raramente, mi sta bene così.
Non sono quindi la persona più titolata a parlare della situazione piuttosto attuale, oggi, delle vacanze in montagna negate agli amanti dello sci. Sappiamo tutti di cosa parlo, gli impianti bloccati per DPCM fino al 7 gennaio, i cenoni a Capodanno impediti, solo cene in camera, l’impossibilità di andare nelle seconde case, anche quelle di montagna, che non siano nella stessa regione, almeno per le regioni arancioni, e comunque non negli stretti giorni di festa. Un comparto, quello del turismo invernale, tenuto alle strette per paure di una terza ondata, detto per altro mentre la seconda ondata non è ancora finita, i sessantamila morti da poco superati. Un comparto economico che ha strepitato, facendosi sentire in tutti i modi, supportato dai tanti appassionati, che hanno gridato allo scandalo per quel loro non poter andare a sciare. Il che, siamo nel 2020, e siamo oltretutto in piena pandemia e in piena pandemia raccontata sui social, ha scatenato anche i detrattori dei detrattori del DPCM, quella massa inferocita contro chi, in piena pandemia, numeri di morti e contagiati da capogiro, lamentava il proprio non poter andare a sciare. Come una guerra tra bande, sciatori contro non sciatori, ennesimo scontro tra bande tra quelle andate in scena quest’anno, ne abbiamo viste talmente tante che abbiamo perso onestamente il conto.
Non sono la persona più titolata a parlare di sci o di non sci, ripeto, ma qualche considerazione che con questa guerra tra bande ha qualcosa a che fare, mi sento di farla, sperando per non passare per uno assoldato da una delle due bande, non è mia intenzione.
Perché tanto in queste ultime settimane le vacanze in montagna, la fila agli skylift, le fiaccolate notturne sugli sci, il vin broulé da prendere al rifugio sono diventati per l’immaginario comune dei capisaldi inamovibili, tanto di colpo gli artisti che ci fanno divertire e emozionare sono usciti di scena, sembra ormai di poter dire definitivamente.
Certo, c’è stata la manifestazione meno calcolata della storia delle manifestazioni, oscurata addirittura da quattro scappati di casa di estrema destra andati a Roma per far valere il loro diritto di essere negazionisti, parlo di Bauli in piazza, c’è stata qualche minima voce di artisti noti che ha provato a sfruttare il fatto di essere noto non per parlare solo di sé ma della situazione di agonia ormai prossima alla morte nella quale versa il mondo dello spettacolo, c’è stata la glamourosisima iniziativa curata da Fedez, Scena Unita, che ha raccolto una parte degli artisti di casa nostra, praticamente nessun top player, col contributo di buona parte delle aziende con le quali collabora come consulente, iniziativa sulla quale non voglio dire la mia, perché non mi sembra il caso di evidenziare ambiguità nel momento in cui anche da luoghi particolarmente ombreggiati arrivano spiragli di luce, ma per il resto non c’è stato nessun segno di vita e, questo il punto dolorosissimo, sembra che al momento della chiusura di teatri, cinema e locali nei quali si tengono concerti, dello stallo del mondo dello spettacolo, in altre parole, sembra non fregare proprio niente a nessuno. Nel senso che sembra non fregare al Governo, ma tant’è, ce ne eravamo già accorti, ma soprattutto sembra non fregare più niente al pubblico, a quelli che fino a qualche settimana fa si ostinava a protestare per la faccenda dei voucher dati al posto dei rimborsi per i biglietti saltati l’estate scorsa, lo spauracchio che salteranno anche la prossima che si fa sempre più concreto, quelli che fino a qualche settimana fa magari invece continuavano a evocare proprio l’arrivo di quei concerti, e che di colpo si sono rassegnati, sono diventati da empatici a apatici, si sono uniformati a un pensiero dominante che vuole l’arte un suppellettile inutile, superfluo, si può ben vivere senza canzoni, o più in generale senza arte. Nessuno che abbia avuto conati di vomito nel vedere musei e teatri, o cinema, messi di fianco alle Sale Bingo, lì nei DPCM, tutti categoricamente chiusi a data da destinarsi, come le scuole, del resto.
Gli artisti, in tutto questo, non si sono praticamente mai fatti sentire, un silenzio scandaloso, vergognoso. Qualcuno, certo, ha fatto qualcosa per i propri lavoratori, penso a Elisa che ha fatto concerti finché era possibile mettendo il proprio cachet a disposizione dei suoi musicisti e dei suoi collaboratori, qualcuno ha fatto sentire la propria voce chiedendo aiuti concreti, ma parliamo di sussurrii, in questo caso urlante nel quale ci stiamo abituando a vivere, per il resto niente, silenzio totale, buio, morte. Credo che questo silenzio sia qualcosa su cui a bocce ferme si dovrà fare una riflessione seria, serissima. Perché mai come ora chi tace è colpevole, penso e dico.
Ma tornando alle proteste per le piste da sci vuote, contrapposte al silenzio per i teatri e i palasport vuoti, la cosa mi ha colpito. Mi ha colpito parecchio. Ripeto, non perché io abbia qualcosa contro chi ama sciare, ci mancherebbe, ma perché per contro ho molto a favore di chi opera nel comparto dello spettacolo. Non voglio creare contrapposizione, semmai indicare al modello che ruota intorno al mondo del turismo montano come esempio da seguire per il mondo dello spettacolo, sono molti meno ma si fanno sentire come un sol uomo, cosa che da questa parte della staccionata non siamo evidentemente in grado di fare.
Mi ha colpito perché sono anni che lamento come l’idea di far passare la musica per un bene gratuito, vedi alla voce streaming, prima ancora alla voce downloard pirata, sia stato il più grave errore che la discografia ha commesso, quando mai qualcuno a cui hai per anni regalato qualcosa penserà di iniziare a pagare per avere quella stessa cosa?, e ora mi sembra arrivato inesorabilmente il momento della conta finale, hai reso la musica qualcosa di poco valore, gratis, appunto, perché mai si dovrebbe guardare a chi con la musica lavora come a un lavoratore che al momento non lavora, quindi a qualcuno da sostenere, da una parte, o più semplicemente alla musica a come un bene primario della nostra vita, al pari del diritto a una casa, a poter mangiare, la vecchia faccenda del pane e le rose, avete presente?
Per questo la musica è letteralmente uscita di scena. Non c’è da tempo. Non ci sarà per chissà quanto altro tempo. Non se ne parla. Non la si attende. Non la si difende. Non aiutano i pochi che stanno suonando in teatri vuoti, lo dico pur non avendo a riguardo le idee chiarissime, perché nel momento in cui il mondo crolla, la visione di tanti film d’azione me lo ha in qualche modo insegnato, ci si aggrappa anche a uno spuntone di roccia sopravvissuto al crollo di una montagna, non si sta certo a fare gli schizzinosi cercando un luogo ben tenuto e pulito. Non aiuta sicuramente il fatto che certi programmi tv abbiano fatto vedere il pubblico in platea, seppur specificando che si tratta di un pubblico di figuranti, che sono tutti stati “tamponati”, così si dice ora, che nessuno ha corso rischi, perché la sensazione che questo non faccia che rendere ancora più dolorose le porte chiuse di teatri e locali è ben fondata, quasi un dogma.
Ho più volte evocato non solo un aiuto concreto da parte di chi qualche soldo da parte ce l’ha, questo in sostanza ha provato a farlo Fedez, a modo suo, quanto più un silenzio totale di tutta la filiera, certo a partire proprio degli artisti, che vorrei non vedere più in programmi tv, vorrei non sentire più ospiti in radio. Di più, di cui non vorrei sentire più le canzoni da nessuna parte, a partire dalle piattaforme di streaming, come in una sorta di serrata, di sciopero bianco, sciopero che a mio modo di vedere dovrebbe riguardare tutti, dai fonici ai cameraman, compresi quelli che mandano in onda i programmi radio e tv di cui sopra. Un’utopia, chiaramente, dirà qualcuno, una mia facile provocazione, alzerà qualcun altro. Ma di fronte all’impossibilità di vedere tutto ciò anche solo ipotizzabile, mi piacerebbe almeno che gli artisti, quelli che hanno modo di parlare, magari quelli che hanno modo di parlare anche fuori dalla promozione di un album o di qualsiasi altra cosa, sappiamo tutti che certi artisti al solo volerlo hanno un microfono davanti nel quale parlare, mi piacerebbe vedere un po’ di sano politicamente scorretto. Qualcuno che alzi la voce, e invece di star lì a dare buone indicazioni e fare buoni propositi, mettete le mascherine, rispettate le regole, inviti a alzare la voce in difesa di un comparto economico ormai alla frutta, forse anche al caffè e all’ammazzacaffè. Del resto la musica è servita, da che esiste il rock, certo, ma anche da che esiste più in generale la cultura giovanile, l’esistenza proprio dei giovani come categoria commerciale, anche far passare certi cattivi pensieri come fossero appunto passabili. In che altro ambito, per intendersi, è possibile che un personaggio noto ammetta candidamente di avere dipendenze? Di più, in che altro ambito è possibile che l’ammettere di aver dipendenze non solo venga accettato, ma considerato qualcosa di intrigante, considerato parte integrante del talento?
Intendiamoci, non rimpiango un mondo fatto di dipendenze elevate al livello di fonte di ispirazione, lo dico senza cadere nel facile moralismo, di cui mi interessa ancor meno che della montagna, ma tra quello e un mondo di ex rockstar che si ritrovano a svolgere il ruolo di zerbino, incapaci per contro di portare un minimo di acqua al mulino del settore musicale, beh, non ho dubbi. Pagherei di tasca mia per vedere qualche nostra rockstar o popstar invitare il pubblico a smettere di far circolare musica, per far pesare a tutti quanto questo silenzio non potrebbe che provocare, una sorta di buio emotivo che ci precipiterebbe se possibile ancora di più nel baratro. Non volendo loro spegnere il microfono vorrei sentirli dire: “spegneteci voi il microfono, che diavolo”.
Comunque, non potendo contare sugli artisti, sembra proprio ce li siamo giocati tutti, o quasi, vorrei almeno poter contare su quanti ancora oggi si professano veri appassionati di musica. Quanti, cioè, al pari di sciatori e appassionati di montagna, patiscono questo stato di stallo nel quale stiamo vivendo ormai da dieci mesi. Alzate la voce voi, voi che potete, e fatelo anche spegnendo la musica. Smettete di ascoltare radio, di seguire programmi musicali in tv, smettetela soprattutto di nutrire la discografia attraverso le piattaforme di streaming. Uno sciopero non dei lavoratori, in buona parte già fermi anche per il silenzio complice di chi in quel settore è visibile e ha voce, gli artisti, ma del pubblico, degli acquirenti. Non un boicottaggio, intendiamoci, ci mancherebbe pure, ma una vera e propria serrata, senza preferenze o esclusioni di colpi.
Uno sciopero della fame, perché come appunto il concetto del pane e delle rose ben esprime, anche la musica è nutrimento. E noi vogliamo sia il pane che le rose, su questo almeno dobbiamo essere tutti concordi.