I giorni trascorrono un po’ troppo uguali a loro stessi, l’ho già detto.
Anche il lamentarsi dei giorni che trascorrono tutti uguali a loro stessi fa ormai parte della routine dei giorni che trascorrono tutti uguali a loro stessi, in una sorta di loop mortale, ma tant’è.
In questa noia mortale trovo rifugio nella scrittura, che almeno mi tiene compagnia, così come nella lettura, nell’ascolto di buona musica, in alcune serie tv che divoro con foga, ultima in ordine di tempo la clamorosa Lavoro a mano armato con un gigantesco Eric Cantona.
Ma quando non ho voglia di fare niente di tutto questo, lo stare chiusi in casa stanca assai più dell’andare in giro, questa è una scoperta già del primo lock down, siccome sono un uomo che tende a voler sempre ricreare un proprio ordine, anarchico anche nei gesti quotidiani, non posso far altro che riordinare la mia biblioteca, attività che non manca di occupare svariate ore, se non addirittura giorni.
Quando un paio di anni fa, poco più, abbiamo cambiato casa, tanti erano i libri che si sarebbero dovuti spostare da casa a casa, che ho deciso che avrei montato la nuova libreria un paio di settimane prima del trasloco, così da poter poi sistemare i libri un po’ alla volta e, durante il trasloco, occuparmi di tutto il resto, che con una famiglia di sei persone non è esattamente cosa di poco conto. Ho comprato la libreria. L’ho montata mentre gli operai finivano i lavori di ristrutturazione nel resto della casa, avevamo esplicitamente chiesto che finissero prima la sala proprio per potermi permettere di sistemare i libri, poi un sabato mattina ho convocato alcuni amici e, complice una monovolume cui avevo tolto i sedili, e qualche viaggio avanti e indietro, abbiamo portato a casa nuova i quasi centocinquanta scatoloni contenenti i libri. A quel punto ho passato qualche giorno a sistemarli secondo un mio preciso ordine. Non quello alfabetico, né quello per editore. Figuriamoci se uno basato sui colori delle copertine, mica sono un virologo. Ho un mio ordine per generi letterari, e comunque al centro di questa libreria, piuttosto grande, si trovano gli ottanta titoli che ho pubblicato, in realtà un po’ di più di ottanta se ci mettiamo le varie edizioni uscite per editori diversi, quelle in economico e quelle tradotte in altre lingue. Un mio vezzo, quello di pormi al centro della libreria. Del resto è la mia libreria, farò anche un po’ come cazzo mi pare, no?
In questi giorni di lock down, ogni tanto, ci rimetto mano, facendo piccoli spostamenti, sempre seguendo una logica tutta mia. E nello spostarli mi accorgo di come, negli anni, i miei gusti di lettore, anche le influenze che certi autori hanno avuto e hanno su di me, siano mutati.
Ricordo che durante i mesi precedenti il mio esame di maturità, per dire, complice la mia insonnia cronica e anche un certo spirito romantico e melodrammatico, ho letto ogni notte un grande classico della letteratura. Un libro a notte, per circa tre mesi. Quando il classico che affrontavo era troppo lungo, penso a Tolstoj, lo leggevo in più notti. Mi sono così tolto dalle palle tanti titoli che sapevo non avrei avuto modo di leggere in altro periodo, così in effetti è stato, e ho consolidato in me l’idea che i classici sono importanti, certo, ma che leggere autori che erano morti da troppo tempo non era esattamente il mio sport preferito. Oggi, invece, mi rendo conto che molti dei miei autori preferiti sono nel mentre morti, penso a David Foster Wallace, a Hubert Selby Jr, a Hunter S. Thomposon, a Tom Wolfe, a William Burroghus, a Mark Fischer, e mi rendo comunque conto che quasi tutti gli autori che leggo e torno a leggere con più passione sono comunque tutti miei coetanei o più vecchi di me, forse perché nel mentre ho raggiunto una età che può serenamente consentire ai miei coetanei di essere diventati a loro volta classici, penso a un Bret Easton Ellis o a un William T. Vollman.
Se da giovane non amavo leggere gente che fosse vissuta prima di me, specie molto prima di me, ora sembra quasi io fatichi a leggere gente nata troppo dopo di me. Come se per cogliere il mio interesse, in pratica, l’autore dovesse essere mio contemporaneo al punto da essere anche mio coetaneo. Il tutto a rischio di precludermi un punto di vista sul mondo di chi c’è stato in tempi passati, certo, ma anche di chi è arrivato dopo e magari ha una mente più fresca, uno sguardo diverso.
Torno quindi a occuparmi nuovamente di generazioni.
E lo faccio ovviamente cosciente che agli occhi di qualcuno risulterò un boomer, qualsiasi cosa ciò voglia dire.
Torno a parlare di generazioni, e soprattutto di quanto evidentemente a alcuni appartenenti alle nuove generazioni sfugge, nel momento in cui approcciano coloro che ai loro occhi risultano “i vecchi”, cioè il fatto che essere giovani non è un valore in sé, non lo è mai stato e non vedo perché dovrebbe esserlo ora, e sicuramente non dovrebbe essere un vanto.
Procedo.
Non gioco più a calcio da nove anni. Non è una notizia, ho cinquantuno anni, qualcuno potrebbe pensare che ci ho giocato sin troppo a lungo. Ai più, invece, immagino poco interessi se io giochi o non giochi a calcio, non essendo il mio giocare a calcio rilevane né per quanto scrivo né per l’umanità in generale.
Lo è per me, ma questo direi che è altrettanto irrilevante.
Ho raccontato proprio durante il primo lock down perché io abbia dovuto smettere di farlo, alla giovane età di quarantatré anni, non intendo tornarci su.
Voglio però soffermarmi su una partita giocata quando ero già in quella fascia di età per cui, la mia generazione, intendeva come finita una qualsiasi carriera calcistica, a meno che uno non giocasse in porta alla Dino Zoff o fosse Roger Milla, capitolo ovviamente a se stante.
Voglio cioè soffermarmi in una partita giocata quando stavo correndo verso i quarant’anni, ma non li avevo ancora raggiunti. Oggi, direi, la faccenda è diversa. O almeno è diversa per alcuni calciatori, vedi alla voce Ibrahimovic o alla voce Cristiano Ronaldo. C’è un culto del corpo differente, ai miei tempi i campioni non erano questi fenomeni sul piano fisico, pensa a un Maradona, pensa a un Platini, oggi funziona così.
Io non ho mai amato correre. Sono stato, immagino di dover usare il passato, un atleta piuttosto veloce, buoni risultati raggiunti a quelli che ai miei tempi si chiamavano Giochi della gioventù proprio sulla corsa veloce, non certo sulla Marcia Longa o Corsa Campestre, ma questo mio essere molto veloce l’ho sempre usato con parsimonia, solo se davvero necessario.
Giocando sulla fascia sinistra, almeno fino a un certo punto, poi mi sono spostato al centro, vantaggi dell’invecchiare, ho usato la mia velocità per seminare qualche difensore, quando giocavo partite a calcio undici contro undici, lo scatto in questi contesti è fondamentale, ma anche il saper mantenere la velocità costante, per non farmi raggiungere. Ho sempre molto amato anche lo scontro fisico, cosa che suppongo non dovrebbe sorprendere, un’idea piuttosto fisica dello sport, quasi marziale, quindi se c’era da prendersi a spinte, a calcioni, figuriamoci, mi ci sono sempre buttato. Quando negli ultimi anni della mia attività mi sono spostato in centro all’area, per intendersi, ho sempre giocato spalle alla porta, perché, appunto, mi sembrava divertente cercare lo scontro, provocare chi mi doveva marcare, scatenare quella che poi sui social sarebbe diventata la consuetudine. Sono stato un centravanti con la stessa attitudine di come ora sto su Facebook.
Anche prima di ingrassare inverecondamente come vi ho raccontato giusto nei giorni scorsi ho sempre avuto una struttura muscolare delle gambe molto massiccia, come in passato non potevo certo dire di avere per il busto e le braccia. A quella ci sono arrivato con tempo, mentre le gambe le ho sempre avute piuttosto muscolose, perché ai miei tempi chi giocava a calcio su quelle lavorava, c’era un’idea di atleticità del calciatore assai diversa da quella attuale, nessuno si sognava di lavorare sugli addominali, diciamolo chiaramente, niente tartarughe, e anche le braccia e le spalle venivano lasciate un po’ al destino. Se quindi c’era da assestare calci o prenderli non mi tiravo indietro, nel corso dei miei primi quarant’anni, del resto, ho riportato non troppe fratture, di significativa solo una al malleolo quando ero giovanissimo.
Negli ultimi anni della mia attività sportiva, diciamo in quelli che vengono catalogati come anni zero, ho prevalentemente giocato a calcetto, e più volte nella mia città natale, Ancona, che a Milano, la città nella quale vivevo e vivo, dove come unica valvola di sfogo avevo la partita coi colleghi quando lavoravo in Mondadori. Un calcetto rivisitato, ovviamente, perché un calcetto che era una versione calcistica del calcetto, senza gli schemi e i ritmi forsennati del calcio a cinque, anzi, con gli stessi principi e schemi del caro vecchio gioco del pallone, cross, lanci lunghi, colpi di testa e rovesciate. Non un continuo correre avanti e dietro per il campo, per capirsi, ma un riproporre le tattiche del calcio a undici, chi sta in attacco sta in attacco, chi sta in difesa sta in difesa. Per capirsi, come quando da giovane giocavo nelle squadre di calcio della mia città, finita la partita non ero sudato, quasi mai, tanto meno avevo i crampi o altri segni di affaticamento, e certo non perché fossi allenato, a parte le partite, che con gli anni si sono fatte per altro piuttosto rade, non facevo attività fisica. Ho sempre guardato agli sport che non prevedono lo scontro fisico con diffidenza, figuriamoci se sono mai andato in palestra per allenarmi o a fare corsa al parco. Lo cito spesso, pur provando nei confronti dell’uomo Platini la medesima antipatia che provo per chiunque si sia fatto affascinare dal potere fino a finirne invischiato, ma ho sempre fatta mia quanto il numero dieci della Juventus ebbe a dire a chi gli chiedeva appunto ragione di quel suo uscire dal campo lindo e pinto, senza un rivolo di sudore sul collo, la maglietta pulita come nuova. A precisa domanda Platini, dimostrando al contempo una certa ironia e anche una spocchia che noi italiani all’epoca imputammo, immagino, tutta al suo essere francese, rispose: “Io in campo non corro, per questo non sudo. Non corro perché per me corre lui,” indicando Massimo Bonini, centromediano della medesima Juventus, viso butterato, caschetto biondo e quella particolarità di essere di San Marino, fatto che gli precluse la possibilità di vincere mai qualcosa con la nazionale, quello che nella Vecchia Signora, così la chiamavano allora e immagino anche oggi, correva al posto di Platini.
Giocando io a calcetto non c’era nessuno che correva al posto mio, semplicemente la mia squadra correva meno delle altre. Eravamo tutti tra i trenta e i quaranta, del resto, correre non poteva essere il nostro punto di forza. Avevamo piedi buoni e esperienza, questo sì, e avevamo ben suddiviso i ruoli. Ovviamente non avevamo il portiere, spesso ci si alternava, anche per riprendere un po’ di fiato, perché seppur non correndo qualcuno di noi si stancava, e eravamo piuttosto fortini. Uso un plurale che in realtà non dovrei usare, perché in realtà quella era una squadra alla quale io mi univo saltuariamente, quando da Milano scendevo in Ancona. Lì trovavo i miei amici di gioventù, Simone, Davide, Gianluca, Daniele, che in realtà era il fratello minore del nostro amico di gioventù Corrado, nel mentre migrato in Australia.
Quando scendevo in città qualcuno non veniva convocato, loro giocavano tutte le settimane, anche più volte, per lasciare il posto a me. Non poteva che essere così, io capitavo una volta al mese, era un sacrificio che chiedevo a qualcuno che comunque non aveva così tanti anni di amicizia con gli altri, non c’era storia. Contro di noi, in genere, giocavano squadre di ragazzi che frequentavano la locale università, gente che non aveva altri amici in città, cui quindi servivano avversari. Per qualche tempo giocavamo sempre contro una squadra di ragazzi greci. Una faccia una razza, dalle mie parti si diceva così per intendere come tra noi e i greci ci fosse più che qualcosa in comune, non a caso Ancona era stata fondata dai dori, anche se poi dalle parti del porto e del centro storico era di uso comune insultare qualcuno dicendo “figlio di una greca”, intendendo con questo “figlio di puttana”. Insomma, funzionava così.
Un giorno però è successa una cosa che mi ha fatto riflettere. Uno di quei giorni nei quali capisci che stai invecchiando, come quando ti accorgi di una determinata ruga sul viso, quando ti dicono che devi tenere a bada il colesterolo, quando fatti tre piani di scale a piedi ti viene il fiatone. Contro di noi non giocavano i soliti ragazzi universitari, ma ragazzini delle superiori. Era la squadra del cugino di uno dei nostri, non ricordo bene chi. Tutti tra i quattordici e i sedici anni, fisici decisamente meno massicci dei nostri, ma una velocità di gambe e un’energia che neanche ci ricordavamo di avere mai avuto.
Certo, noi avevamo esperienza e piedi, ma loro sembravano in mille. Succede. Il tempo scorre inesorabile, come il corso dei fiumi, e come i fiumi a volte esonda, tracima, distrugge tutto.
Passano pochi minuti e andiamo sotto di diversi goal. Questo era un problema, perché ovviamente non solo noi avevamo meno energie dei nostri avversari, ma con l’andare dei minuti ne avremmo avuti sempre meno, era evidente. Noi eravamo vecchi, loro erano giovanissimi. Non essendoci in palio altro che la vittoria di quella partita, la cosa non stava scalfendo più di tanto il nostro umore. Del resto giocavamo per divertirci, e seppur a nessuno piaccia perdere, non ne facevamo certo un caso di stato. Giocavamo, provando a fare il nostro, imbambolati da tanta giovinezza.
Però c’era un però. Sono fatto male, lo sapete, sono una brutta persona.
Uno dei ragazzini in campo, proprio il cugino di non ricordo chi dei nostri, uno piuttosto bravo con i piedi, ha iniziato a esagerare. Non parlo di agone sportivo, ci mancherebbe. Parlo di rispetto, e di spavalderia. Il ragazzino ci stava palesemente irridendo, schernendo, prendendo per il culo. Amo la spavalderia, il coraggio fine a se stesso, anche quello del kamikaze. Ma non lo amo quando è su di me che il kamikaze ha deciso di farsi esplodere, o peggio di far esplodere delle sacche di merda.
Con lui la faccenda era quella. Se, per dire, si trovava uno contro uno con me o un mio compagno, non si limitava a puntarci e scartarci, provava, spesso riuscendoci, a farci un tunnel, una veronica, un sombrero. Gigioneggiava, complici i suoi piedi buoni, la sua velocità e quell’energia giovanile che noi non potevamo più esibire. Questo a ogni occasione, minuto dopo minuto.
Come vi ho detto non sono uno di quelli che torna in difesa, non lo ero da giovane, figuriamoci se potevo esserlo quasi a quarant’anni. Quindi fare quel tipo di giochetti a me era qualcosa di diverso, bisognava proprio volerlo fare, accanirsi. Umiliare uno che se ne sta fermo nella metà campo avversaria non ha nessuna utilità per l’economia della partita, ma il ragazzino, forse capito che da giovane ero stato altrettanto spavaldo, mi ha iniziato a puntare. Un tunnel. Due tunnel. Una giravolta che non riesco a fermare neanche con le braccia.
Mi fermo un attimo. Mi vengono in mente due episodi. Di uno ho già scritto in passato, questo.
Stadio Meazza di Milano. Quello che tutti chiamano San Siro, dal nome del quartiere milanese che lo ospita. Succede diversi anni fa, e stavolta in scena non c’è un concerto rock, come invece è capitato abbastanza spesso negli ultimi tempi. Si gioca al calcio. Questa è la Scala del Calcio, del resto. Si sta giocando il derby d’Italia, tra l’altro, una delle partite più attese in ogni campionato.
Nella Juventus gioca un giovane talento, Miccoli. È uno bravo col pallone tra i piedi, bassino e anche per questo avvantaggiato, come Maradona ci ha dimostrato. Non altrettanto con la testa, non solo letteralmente, ma con questo farà i conti poi.
Sta correndo palla al piede, a centro campo. Ha di fronte Javier Zanetti, l’argentino è già il capitano dell’Inter. Lo punta e gli fa un tunnel. Lì a San Siro. Poi torna indietro e gliene fa un altro. Due tunnel nel corso della stessa azione. Se qualcuno ricorda la reazione di Nedved quando, durante una partita del cuore, Moreno, il rapper, gli ha fatto un tunnel, ben può capire quanto subire un gesto del genere sia umiliante. Subirne due, nel proprio stadio, da un piccoletto con alle spalle una carriera decisamente meno importante è qualcosa che si avvicina, credo, alla lesa maestà. Così deve pensarla Zanetti, che ferma Miccoli e gli fa semplicemente segno di no con la mano. Non dice niente, fa solo segno di no. Come a dire: così non si fa. Non si può. Poco dopo Miccoli viene sostituito.
Secondo episodio. Parecchi anni prima.
Campo di Vallemiano, Ancona. Un campo di merda, con la sabbia laddove dovrebbe esserci erba. Oggi c’è erba sintetica, lì, roba da fighetti, ma stiamo parlando degli anni Ottanta, a quel tempo c’era il deserto dei Tartari.
Gioco in terza categoria, la mia prima partita. Ci giocherò poco, perché lo studio mi porterà presto a abbandonare il calcio di quel tipo, che prevede allenamenti, partite tutti i sabati o le domenica mattina, una continuità che il classico non mi concede. Gioco ancora a sinistra, come ala. A marcarmi c’è un cinquantenne sovrappeso, io di adesso in confronto sono magro. Lo punto, esattamente come il ragazzino, gli faccio un tunnel. Sono spavaldo, arrogante, un provocatore. Ho davanti tutta la fascia, posso puntare alla porta. Il resto della squadra avversaria non è che sia molto più in forma del mio marcatore, potrei tranquillamente presentarmi da solo davanti al portiere. Invece torno indietro, e comincio a giocarci come fa il gatto col topo. Gli faccio vedere la palla, aspetto che si avvicini e la sposto di lato, facendolo scivolare. Si rialza, e faccio lo stesso, solo che quando lui allunga la palla gliela faccio passare sotto, un altro tunnel. A quel punto il tipo non ha la stessa capacità evocativa e diplomatica di Javier Zanetti. Mi prende per i capelli, non li ho ancora molto lunghi come dagli anni Novanta in poi, ma abbastanza da essere afferrati, e mi butta per terra. “Ti ammazzo,” mi dice. Gli credo. Fingo di essermi fatto male e mi faccio sostituire. Sono un tipo sveglio, con una buona cultura scolastica, riesco a capire anche chi si esprime in un linguaggio non troppo evoluto.
Torno al campo sul quale stiamo giocando contro questa squadra di ragazzini. All’ennesima incursione del ragazzino lo fermo, e gli dico cercando di caricare la voce di tutta la cattiveria che ho in corpo “Guarda che così ti fai male”. In realtà credo mi esca fuori qualcosa di spuntato, non sono solito correre ma avere uno che mi umilia non è qualcosa che penso di meritarmi.
Il ragazzino non ci sente, continua.
Non ho scelta. Sono intorno al cerchio del centrocampo. Mi punta. Fa la solita finta, perché è giovane, non sa che fare sempre finta di calciare per poi spostare la palla sull’altro piede e scartare alla lunga diventa prevedibile. Lo anticipo, ma invece di puntare alla palla punto alla gamba. Sono muscoloso di gambe. Ci metto tutta la potenza che ho. La colpisco nel momento esatto in cui ci passa davanti la palla, che in qualche modo attutisce il colpo sul collo del mio piede, non certo su di lui, come quando i killer nei film sparano in faccia a qualcuno mettendoci davanti un cuscino, per non far rumore e non farsi sporcare dagli schizzi di sangue. Lo prendo alla caviglia, con talmente tanta forza che il ragazzino, peserà meno della metà di me, si ritrova a fare una sorta di rovesciata al contrario. Cade rovinosamente, stringendosi la caviglia tra le mani.
Ci fermiamo. Tutti gli si fanno intorno, io no. Chiamano l’ambulanza. Riprendiamo a giocare. Nessuno dice niente. Glielo avevo detto.
Perché vi ho raccontato questo episodio, qualcuno penserà questo brutto episodio, che mi ha visto in qualche modo protagonista qualche anno fa?
Un episodio che magari getta anche una sinistra ombra su di me, sempre che quel che avete letto corrisponda esattamente al vero e non sia piuttosto figlio di una creatività prestata alla scrittura per metafore. Non saprei, forse per affermare in maniera perentoria, con la stessa perentorietà con la quale ho colpito la caviglia del ragazzino, ragazzino che oggi sarà un uomo, immagino vagamente claudicante, che da sempre esistono differenze tra una generazione e quella che la segue, come del resto ce n’era tra quella che l’aveva preceduta. L’importante è provare a convivere con rispetto, perché in fondo c’è posto per tutti.
Bollare i giovani come senza talento, o troppo arroganti, è sicuramente sbagliato, tanto quanto pensare che il procedere a passo diverso dal nostro, più lento, di chi ha qualche anno più di noi sia segno di decadenza, o peggio di demenza senile. È importante imparare a apprezzare quei guizzi, anche quando sembrano fini a loro stessi, ma saper godere anche dell’esperienza e del talento di chi ha imparato a giocare quando il gioco era tutt’altra cosa. Quando questi basilari principi vengono meno, questa la morale della favoletta, si finisce col farsi male.
Resta che tra il calcio così simile alle partite della PES, tutto muscoli e velocità, e quello lento e lezioso di un tempo, non ho dubbi da che parte schierarmi, un po’ come nella musica, dove la partita è decisamente tra musica vaporizzata e musica solida.
Sono cresciuto con Bowie e i Velvet Underground, i Clash e la New Wave, perché dovrei appassionarmi di itPop e trap? Discorso che posso serenamente traslare a Maradona o Van Basten, rispetto a un Messi o un Cristiano Ronaldo.
Discorso a parte è quello che farei per Ibrahimovic, uno che pratica uno sport tutto suo, molto più rock di quello che passa oggi il convento.
Prova ne è un video che ogni tanto mi vado a rivedere, sul tubo. No, niente goal mirabolanti fatti alzando le gambe al cielo, sforbiciate, colpi di tacco, roba degna di un karateka. Neanche una delle sue ormai notorie sfuriate, che spesso finiscono con espulsioni. È un momento specifico di una partita che vede Ibrahimovic contro una squadra francese. C’è lui in mezzo all’area di rigore, qualcuno sta per battere un calcio d’angolo. Il suo marcatore, almeno dieci anni meno di lui, gli appoggia le mani sulle spalle, come spesso avviene in questi contesti. Il difensore, un tipo dal fisico atletico, saltella, dando piccole spinte a Ibra, guardando altrove, dove la palla sta per essere calciata. Ibra non si muove. Sta lì fermo, come una statua. Si limita a guardarlo, spostando gli occhi dalla mano che si poggia sulla sua spalla alla faccia del suo marcatore. Con calma. Pochi secondi, frazioni di secondo, e il marcatore si accorge di Ibra immobile che lo sta fissando. Immediatamente ritira la mano, impaurito.