Si sta facendo un gran parlare di Elegia Americana, il nuovo film di Ron Howard con Glenn Close ed Amy Adams, prodotto per Netflix e dal 24 novembre sulla piattaforma. Non poteva essere altrimenti, per la ragione che il libro omonimo di J.D. Vance da cui il film è tratto quando uscì nel 2016 fu per mesi al centro del dibattito per la sua capacità, partendo dalle esperienze autobiografiche dell’autore, di riannodare il privato al pubblico, e il discorso sulla personale classe di appartenenza a una riflessione a più largo raggio sugli Stati Uniti.
Nel memoir l’appena trentenne Vance ripercorre la sua vicenda di sottoproletario che ce l’ha fatta. J.D. Vance è stato tirato su da una famiglia originaria della regione degli Appalachi, spostatasi dal Kentucky all’Ohio, appartenente a quelli che gli statunitensi colti, benestanti e beneducati definiscono sprezzantemente hillbilly (infatti il titolo originale è Hillbilly Elegy), rednecks, o peggio white trash, cioè gli americani bianchi rozzi, bifolchi, ignoranti, spesso razzisti. Una famiglia ampiamente disfunzionale quella di J.D., il nonno un tempo ubriaco e violento, una madre tossicodipendente, padre non pervenuto e solo una nonna fiera a motivarlo e indirizzarlo verso il meglio. Che per lui ha significato, dopo l’esperienza nei marine in Iraq, l’iscrizione all’università e una prestigiosa laurea in legge a Yale che gli ha aperto tutte le porte – oggi è un venture capitalist di successo ed è stato anche in odore d’una candidatura al senato per i repubblicani.
La particolarità del libro Elegia America sta nel raccontare questa tipica storia di riscatto nei termini di un orgoglio identitario che, pur rilevando le enormi criticità del modello culturale dell’America profonda da cui proviene, non lo rinnega e anzi rivendica. Ciò che lo ha fatto ritenere, essendo uscito con tempismo a ridosso delle elezioni presidenziali del 2016, il vademecum indispensabile per capire i moventi di quella enorme fetta di Stati Uniti che ha votato per Donald Trump. Secondo il New York Times Elegia Americana è “un’analisi sociologica compassionevole e perspicace della classe sottoproletaria bianca”. Per altri critici, invece, offre soluzioni semplici e di destra a problemi complessi, che insistono sul mito del self-made man, puntando sul sempiterno binomio famiglia e religione, condito di spirito patriottico, militarismo e parsimonia piccolo borghese, il tutto cementato dalla sfiducia verso la politica e il sistema del welfare – “nessun governo può risolverci i problemi”, scrive Vance.
Un libro controverso, dunque, nel segno comunque di un’ambiguità ricca di spunti. Come ha affrontato questa materia incendiaria Ron Howard, un regista che, pur avendo firmato qualche pellicola pregevole (Rush, Fuoco Assassino), non sembra aver mai nutrito interesse per un cinema apertamente impegnato? In un’intervista al Corriere della Sera, il regista ha presentato Elegia Americana come “una storia epica, la storia di una famiglia che diventa il romanzo di una nazione”, sposando quindi apparentemente la prospettiva tra privato e pubblico, personale e politico del libro di J.D. Vance.
La prima sequenza sembra confermare l’impostazione: una riunione della famiglia allargata di J.D. tra le montagne del Kentucky, con inquadrature naturistiche di soffice lirismo quasi malickiano e una foto di gruppo a cui seguono una dopo l’altra, in un montaggio serrato, tante altre immagini, a colori e in bianco e nero, di oggi e di ieri, di altre famiglie identiche alla loro, sempre davanti alle stesse catapecchie, a mostrare la loro fiera povertà e dignità di autentici americani. L’ambizione dunque, è quella di star raccontando un nucleo familiare paradigmatico, che nella sua storia ricapitola quella di una parte importante del paese.
Purtroppo è l’unica intuizione che va in questa direzione di Elegia Americana, che da quel momento in poi, nel trattamento di sceneggiatura dall’esperta Vanessa Taylor (nomination all’Oscar per La Forma Dell’Acqua), sradica completamente il problematico sottotesto politico, per trasformarsi in un dramma davvero dei più vieti, in cui nel continuo andirivieni temporale tra il passato del J.D. ragazzino (Owen Asztalos) e del J.D. adulto (Gabriel Basso), si viene sballottati attraverso una storia tutta focalizzata sul dramma personale e familiare.
Nel quale, a rubare la scena al poco carismatico protagonista (meglio il ragazzino che Basso), sono inevitabilmente le due protagoniste di gran peso, la nonna sboccata e tutta d’un pezzo Glenn Close (in originale chiamata Mamaw, un modo di dire gergale tipico degli stati del sud), con un trucco che la riduce a un mascherone, e la madre drogata Amy Adams, imbruttita come da copione. Entrambe, va detto, avendo accumulato la prima 7 nomination agli Oscar a vuoto, e la seconda 6, sembrano lì principalmente per cogliere l’occasione del ruolo penitenziale che di solito apre le porte alla statuetta. Da cui ne consegue anche una recitazione sempre sul punto dell’overacting, e anche oltre.
Elegia Americana è una sequela di disgrazie, liti familiari che terminano con mogli che danno fuoco ai mariti, overdose, aghi conficcati nel braccio, cattive amicizie che conducono lungo la via della perdizione, il tutto condito da un montaggio che abusa del ralenti e che nei continui raccordi tra ieri e oggi sottolinea didascalicamente i condizionamenti di un passato che non passa e che rischia di far fallire i disegni di riscatto del volenteroso J.D.
Il film dovrebbe esprimere l’orgoglio identitario della cultura familiare degli Appalachi. Ogni tanto si sentono frasi che richiamano tali princìpi: la nonna dice “Siamo gente di montagna, rispettiamo i nostri morti”, oppure “la famiglia è l’unica maledetta cosa che conti”. J.D. all’ennesima crisi materna, all’infermiera dell’ospedale che vorrebbe dimetterla senza tanti complimenti, dice con gentilezza ma ferma fierezza: “Si tratta della mia famiglia. Finché non mi sbatterete fuori, io continuerò a cercare di convincervi”. A una cena organizzata per far incontrare i più promettenti laurendi in cerca di lavoro con i più prestigiosi studi legali del paese, a un avvocato di provenienza Ivy League che fa una battutaccia sugli hillbilly J.D., pur rischiando di giocarsi qualunque opportunità, risponde a muso duro.
Tuttavia queste restano solo petizioni di principio, pure affermazioni slegate dal contesto di un racconto effettistico che mostra il contrario di quello che dice a parole. E cioè che è un bene che J.D. sia riuscito a lasciarsi alle spalle un modello invalidante, e che è stata una benedizione la presenza di una nonna che ha avuto la lucidità di spingerlo a muoversi al di là del mortifero universo di provenienza. L’insegnamento principale di Mamaw è che “Noi siamo il posto da cui veniamo, ma scegliamo ogni giorno chi diventeremo”. Ma ad ogni momento il film di Ron Howard, volente o nolente, ci fa capire che J.D. è diventato un uomo di successo solo in virtù della sua caparbia volontà da self-made man, non grazie alla sua famiglia, ma malgrado l’handicap che essa ha rappresentato.
I critici statunitensi hanno impallinato Elegia Americana sostenendo che indugi nel poverty porn, cioè esibisca a fini spettacolari quel degrado cui vorrebbe in teoria riconoscere una qualche forma di dignità e autenticità identitaria. Ron Howard cerca di uscire dal perimetro del cinema che maneggia meglio e naufraga drammaticamente. E nella débâcle probabilmente coleranno a picco ancora una volta le ambizioni di Oscar della Close e della Adams.