L’altra settimana c’è stata una reunion della mia band. Non di quella con la quale ho suonato al diciottesimo compleanno di colei che oggi è mia moglie, ve ne parlavo giusto sabato scorso, di quella punk, gli Epicentro, finiti loro malgrado dentro i miei romanzi raccolti in Avrei Voluto Tutto e in diversi capitoli del precedente diario della pandemia.
Nei fatti non è stata esattamente una reunion, almeno non in senso stretto, ma ci è andata abbastanza vicino, almeno per quel che riguarda l’idea odierna di reunion. Ci siamo incontrati su una piattaforma di videoconferenze, una cosa come Zoom, ma che non era Zoom, perché lo spirito punk e anticapitalista che ci ha accompagnato in gioventù è rimasto vivo in alcuni di voi. Non è stata esattamente una reunion anche perché non eravamo tutti, almeno non nella versione finale, né in quella iniziale.
Era comunque una specie di reunion, e mi è parsa una cosa bellissima. Star lì, di sera, dopocena, a parlare con amici di vecchia, vecchissima data, tutti invecchiati, tutti con gli occhiali per vedere da vicino, alcuni stempiati, altri pelati, qualcuno con tutti i capelli e la barba bianchi. Ma comunque noi, quelli che nei primi anni Novanta si trovavano in una vecchia cantina cui avevamo insonorizzato solo la porta, con il risultato che i vicini sentivano tutto, mentre noi non sentivamo loro che bussavano a quella porta, per protestare e intimarci di smettere. Noi che poi ci siamo spostati sopra una fabbrica di sparachiodi e altri prodotti per la tappezzeria, dalle parti del porto di Ancona, il terribile pastore tedesco Canga a terrorizzarci ogni volta che arrivavamo e il padrone, zio Remo, zio di Roberto, il nostro bassista, non era in zona. Noi, appunto.
C’era Roberto, ovviamente, il bassista, c’era Emanuele, in collegamento da Genova, il nostro cantante, e c’ero io, quello che negli Epicentro suonava la chitarra, ma c’era anche Giacomo, anche lui come Roberto collegato da Ancona, Giacomo che a ben vedere nella band ci ha suonato solo i primi giorni, quando ancora una band vera e propria non era, non aveva neanche un nome, ma ha contribuito creando il giro di basso a scrivere la sola nostra canzone che in qualche modo abbia avuto un successo, parlo di successo locale, nei centri sociali della nostra terra, del centro Italia versante Adriatico, Pentiganò. C’era anche Marco, sempre da giù, che avrebbe suonato la chitarra per i mesi nei quali io, come il John Frusciante diventato Jack nel romanzo di Enrico Brizzi, avrei lasciato il gruppo, salvo poi esibirsi una sola volta con noi, al nostro primo importante concerto, al Cittadella Live, e poi andarsene, troppo timido per affrontare il palco. Mancava Michele, il nostro batterista, lui non usa le tecnologie, e probabilmente è ancora incazzato con me, ve ne ho già parlato, e non c’era Massi, che non abbiamo in realtà coinvolto perché pensavamo che alla fine ci sarebbe stato Michele, e due batteristi sarebbero stati troppi per una ipotetica reunion.
C’erano due bassisti, è vero, Roberto e Giacomo, ma Roberto ora suona la tromba nella banda cittadina, ora, fatto che ha in effetti entusiasmato tutti i presenti. A dirla tutta anche Emanuele e Giacomo hanno una tromba a casa, la suonicchiano, sempre che sia possibile suonicchiare uno strumento difficile e complicato come la tromba, fatto che a ben vedere rende gli Epicentro la prima Brass punk band della storia, credo.
Il motivo della reunion dovrebbe esservi chiaro, almeno se siete tra quanti leggono abitualmente i miei pezzi, o tra quanti almeno stanno leggendo il mio diario, da mesi sto provando a dare una giusta conclusione a una bella storia che si è interrotta di colpo ormai oltre venticinque anni fa. Un gesto che a ben vedere potrebbe rendermi debole, perché passare dal ruolo di critico musicale a quello di critico musicale che suona in una band non esattamente di assi, canzoni non esattamente destinate a entrare nella storia del rock, beh, sicuramente non mi gioverebbe.
Ma a me di far cose che mi giovino, vi dovrebbe essere piuttosto chiaro, non è che interessi molto, anzi, spesso e volentieri amo mettermi alla prova, correre sul crinale più scosceso, tendo, in poche parole, a andare più a braccio, inseguire intuizioni, lasciarmi guidare da suggestioni.
A me di far cose che mi giovino, vi dovrebbe essere piuttosto chiaro, non è che interessi molto, anzi, quello che andrete a leggere vi dirà chiaramente che spesso mi metto in situazioni ostili di mia stessa mano, senza neanche motivazioni plausibili.
Quindi ci siamo trovati, su una piattaforma di video conferenze, per fare una rimpatriata, certo, di quelle che si fanno tra vecchi amici, magari anche amici che si sono persi di vista nel tempo, perché altrimenti parlare di rimpatriate non avrebbe senso. Una rimpatriata in remoto, certo, questo passa il convento pandemico. Ma non era tutta lì, la faccenda, non starei qui a parlarvene altrimenti, anche se so che non mi credete, perché vi ho parlato di troppe cose che in genere non finiscono dentro i siti musicali, durante questi mesi di clausura. Comunque, che mi crediate o meno, eravamo lì anche per altro, per questo ve ne sto parlando, eravamo lì con l’intento di provare a fare una jam, prima, e di incidere quel brano che ormai ha quasi trent’anni, poi.
Abbiamo anche scelto l’immagine di copertina del disco, perché siamo uomini di mezza età e i dischi continuiamo a chiamarli così, dischi. Una foto di una serie di statue piuttosto anomale che si trovano nell’atrio del tribunale di Ravenna, Giacomo è un avvocato e di tribunali se ne intende. Sono degli scimmioni, e sul perché in un tribunale ci siamo degli scimmioni nessuno di noi è stato capace di trovare una spiegazione credibile. Certo degli scimmioni che si trovano in un tribunale non sono esattamente l’immagine più attinente a una band di cinquantenni punk che cantano una hit dal titolo Pentiganò, ma la coerenza non l’abbiamo mai considerata un valore aggiunto.
Abbiamo l’immagine di copertina, la voglia di provarci, non ci resta altro da fare che partire, o quantomeno progettare di partire.
Un modo per guardare avanti, appunto.
Questa cosa del progettare, lo sto ripetendo forse un po’ troppo spesso, è uno dei pesi che fatico di più a portare in questi giorni. Credo non solo io, per altro. Non tanto il progettare, anzi, esattamente il contrario, l’impossibilità di progettare. Impossibilità dovuta da una parte all’incertezza sul futuro prossimo, oltre che su quello remoto, dall’altra al fatto, concreto, di trovarmi imbrigliato in una incertezza più generale, globale. Non so esattamente cosa sarà di me, per intendersi, ma non so neanche cosa sarà del settore nel quale opero. Come spesso capita, anzi, riguardo me stesso posso anche provare a pensare a delle vie di fuga, il singolo è sempre più agile della massa, ma davvero mi sfugge come sia possibile, oggi come oggi, star qui a pensare a qualcosa di organico, di complesso, di architettato per quel che riguarda un settore che sembra impantanato nelle sabbie mobili, agonizzante, se non già morto e in via di decomposizione.
So che angosciare il prossimo esponendo, per di più esponendo reiteratamente, una propria preoccupazione, al punto da farla quasi scivolare nel campo delle ossessioni, non è di alcuna utilità, perché una ossessione condivisa non diventa meno ossessione, e perché chi ti legge, in genere, ha un grado di sopportazione limitato, tanto più in un periodo ostile come questo, ma un diario segue regole diverse, e un diario scritto da uno scrittore che già di suo tende a seguire regole non esattamente iscritte in rigidi codici è ovviamente ancora più sciolto da legami stringenti.
Non voglio quindi star qui a lamentarmi. Proprio no.
Non voglio neanche parlarvi di una reunion che immagino non starete aspettando, e che comunque, al momento è più che altro una di quelle cose che si dicono quando si fa una rimpatriata tra amici, tipo quel “non perdiamoci di vista” che ci si dice alle cene per i venti anni dalla maturità, o quando si incontra per caso qualcuno che ci si è guardati bene dal continuare a frequentare nel tempo. Non che tra noi ci si sia evitati, intendiamoci, è successo. Per dire, nel caso di Marco non ci si vedeva, neanche in remoto, da circa ventisei anni, ovvio che mi abbia fatto piacere, perché il non essersi visti non era stato tanto una scelta, quanto qualcosa che era successo e basta, frequentavamo giri diversi, nelle città anche medio grandi come Ancona non è detto che ci si incontri per caso, nonostante quel che cantava Battisti, succede e basta.
Mi è venuta voglia di parlarvi di questa ipotizzata reunion, e del fatto che noi ci sia incontrati di nuovo dopo anni, seppur in remoto, perché c’è stato un tempo, nella prima metà degli anni Novanta, per intendersi quando era ancora vivo Kurt Cobain, quando la trap non era ancora stata inventata e se parlavi di indie intendevi i Pavement o i Sebadoh, non certo Frah Quintale o Gli Psicologi, quando incontrarsi anche tutti i giorni era esattamente quello cui ambivamo, il nostro ideale di quotidianità. La musica era la nostra via di fuga da una realtà che, per ragioni che non avevamo ancora del tutto messo a fuoco, ci sembrava asfissiante, a pensarci oggi, la pandemia e la crisi economica che ci attanaglia, viene da sorridere di noi, giovani irrequieti. La musica era anche una ipotesi percorribile di futuro, anche se nessuno di noi, credo, ci ha mai creduto davvero, non abbiamo neanche provato a incidere le nostre canzoni, se non partecipando a un concorso che aveva per premio finale proprio la possibilità di incidere un album, Anagrumba, il nome di quel concorso, gli Almamegretta il nome del gruppo che lo aveva vinto l’anno precedente la nostra partecipazione, le semifinali, lo step al quale ci siamo fermati, per altro definitivamente, quella serata in Abruzzo è stata l’ultima volta che abbiamo suonato insieme, prima di chiudere tutto alla The Commitments, vaffanculo e tutto il resto.
Questo capitolo non segue una logica stringente. Nessun capitolo di questo diario lo fa. Questo meno degli altri. Almeno in apparenza.
Ho iniziato parlando di me e dei miei vecchi compagni di suonate che ci siamo ritrovati intenzionati a incidere brani che eravamo soliti suonare nei primi anni Novanta. Ora passo a parlare di un artista che proprio negli stessi anni è partito. Era infatti il 1993 quando hanno esordito i Tool, col loro Undertow. È del loro leader che passo a parlavi.
Maynard James Keenan, già leader non solo dei mitologici Tool e degli A Perfect Circle, è tornato sulla scena del crimine, questo giro di parole non è stato scelto a caso, proprio in queste settimane con l’altro suo progetto musicale, i Puscifer. È tornato in scena coi Puscifer con quello che è il loro quarto album nel corso di tredici anni. Dopo l’iniziale V is for Vagina, titolo quantomeno curioso, uscito nel 2007, è stato la volta di Conditions of My Parole, del 2011, e Money Shoot, del 2015, ora è la volta di Existential Reckoning.
Considerando i tempi letteralmente biblici che i fan delle altre due band hanno dovuto attendere per i rispettivi quinti e quarto album, tredici tra 10000 Days e Fear Inoculum dei Tool, quattordici tra Emotive e Eat the Elephant degli A Perfect Circle, direi che ai fan dei Puscifer è andato decisamente meglio, solo cinque anni. Ma poi, del resto, è evidente che chi segue un personaggio così multiforme e bizzarro come Keenan ne segua ogni singola manifestazione, un po’ come capita ai fan di Les Claypool, per dire, prevalentemente a guidare i suoi Primus, ma anche con i Sausage, i Frog Brigade, i The Holy Mackerel, i Bucket of Bernie Brains, i The Lennon Claypool Delirium e l’unicum della superband Oysterhead, che lo vedeva in compagnia di Coupland Stewart dei Police e Trey Attanasio dei Phish, o ai fan di Mike Patton, già coi Faith No More, e anche coi Mr Bungle, i Fantomas, i Tomahawk, i Peeping Tom, i Dead Kross, oltre che in tutta una serie di album solisti e di collaborazioni quantomai strampalate, su tutte quelle reiterate con il mitico John Zorn. Artisti che non sanno stare fermi, e che amano contorcere gli stili e i generi, creare avatar e pseudonimi, inventare storie musicali e testuali. In poche parole, sperimentare. Existential Reckoning dei Puscifer, band che vede al fianco di Keenan la voce di Carina Round, la chitarra e il basso di Mat Mitchell, il basso di Matt McJunkins, le tastiere di Mahsa Zargaran e la batteria di Jeff Friedl, è un romanzo noir messo sotto forma di canzoni. Non un musical, attenzione, né la colonna sonora di una storia che ambisce a diventare cinematografica, è proprio un romanzo raccontato attraverso le canzoni dell’album, i membri della band a impersonare una sorta di squadra di investigatori paranormali, sulla falsa riga dei Man in Black di zemeckisiana memoria, impegnati alla ricerca di Billy D., uomo la cui misteriosa scomparsa è denunciata all’agente Dick Merkin, alter ego di Keenan, dalla moglie Hildy Berger.
Una storia anomala, certo, che muove i primi passi dal dark web e che vede i tre agenti, Dick, Round e Mat impegnati in una ricerca spasmodica, piena di colpi di scena. Puscifer si rivela quindi una macchina da guerra non meno rodata e a fuoco dei suoi più illustri compari, Tool e A Perfect Circle, apparentemente più cervellotica, e essere più cervellotici dei Tool sembra quasi impossibile, decisamente più aperta nelle influenze e nelle aree nelle quali spaziare, qui il connubio Keenan-Round ha un suo peso specifico mica da ridere, e l’utilizzo dei sintetizzatori e le tastiere, con quei continui rimandi alla musica degli anni Ottanta ben si sposa con le rasoiate chitarristiche, stavolta più presenti seppur dissimulate che nei tre precedenti album, un suono compatto e monolitico che non è però ascrivibile all’area Heavy Metal, quanto piuttosto nell’area Industrial, nel rock elettronico tout-court.
Industrial che però a volte si apre addirittura a spiragli quasi pop, con riferimenti al mondo di Martin Gore e Dave Gahah, come la piuttosto esplicita Personal Prometheus, dove la freddezza che il genere in questione porterebbe iscritto nel proprio DNA prova a aprirsi a sussulti più squisitamente rock, e mi si perdoni l’utilizzo del termine “squisitamente” in un contesto così spigoloso e cupo.
Certo non qualcosa destinato a finire nelle playlist di un pubblico mainstream, ma una ventata di originalità in un’epoca di suoni tutti uguali, di cliché elevati al ruolo di codici, di omologazione e omogeneizzazione spinta.
Un album che in questi tempi oscuri non ci porta certo uno spiraglio di luce, non in senso stretto, nulla a che fare col concetto di “solare, per intendersi, ma che con un carico così grande di fantasia e immaginazione ci permette per tutto il tempo della sua durata, circa un’ora, di spostarci in un altrove-altrove, quindi al sicuro dai pericoli reali come solo la letteratura, e soprattutto la letteratura ben fatta, quella che magari parte dai generi, la sci-fi in testa, ma anche l’hard-boiled, qui siamo davvero in bilico tra cyberpunk e noir chandleriano, riesce a fare.
Perché per arrivare a parlare di un album che ritengo una delle uscite più interessanti di questo anno delirante, partorito da una delle menti più immaginifiche tra i nostri contemporanei (per la cronaca Keenan è del 1964, Claypool del 1963 e Patton del 1968) sono partito dalla ventilata reunion di una band di cui nessuno di voi, a ragione, ha sentito parlare, i miei Epicentro? Perché, ne parlavo anche l’altro ieri, quando accennavo con quella citazione al romanzo di Nicolai Lilin, Un’educazione siberiana, credo fortemente che un buon punto da cui partire sia dar seguito alla propria fantasia, alle proprie intuizioni, lasciare libera l’immaginazione di scorrazzare, tanto più in un periodo come questo, così poco incline a lanciarci input positivi, a imboccarci con pane e rose.
Allora ben venga l’idea, anche lontana e spericolata di mettere la cornice a un quadro lasciato a metà ormai ventisei anni fa. Questo ovviamente è il mio punto di vista, non quello dei miei compagni di viaggio, o non necessariamente anche il loro, immagino che abituati come erano ai miei passi dell’oca e al mio inserire riff funky su brani hardcore, mettendo a rischio la sezione ritmica, nessuno avrà da storcere il naso se forzo la mano al Fato e costruisco un impianto narrativo che parte da noi e arriva fino a Los Angeles.
Del resto sono il solo della band a aver in qualche modo proseguito quel sogno di usare la propria fantasia per farne benzina, i romanzi, gli articoli, i programmi in radio e in tv, le opere teatrali, ma anche il disco delle Bikinirama (anche di questo parlavo giorni fa), le collaborazioni con gli artisti, i voli di fantasia, appunto.
Una sola domanda non trova risposta alcuna in me, in queste ore: sarò mai in grado di fare ancora il passo dell’oca che fu di Chuck Berry, per altro già citato ieri e mai così presente nei miei scritti? Dai tempi degli Epicentro ho messo su parecchi chili, ma provarci ci proverò di sicuro.