Questo è un anno davvero singolare. Per fortuna, verrebbe da pensare volendo dare al termine singolare non tanto la connotazione di “particolare”, “strano”, quanto quella che fa riferimento al contrario del plurale, singolare, appunto. Nei fatti volevo intendere proprio che è un anno strano, anomalo. Non credo sia necessario io stia qui a spiegarvi il perché di questo mio elementare pensiero. Suppongo siate esattamente dello stesso avviso.
Nello specifico, però, non volendo star qui tutto il giorno a pensare a tamponi, vaccini e indici Rt, è al mercato dei dischi, sì, proprio dei dischi, che volevo pensare.
Faccio un passo indietro.
Sono anni, diciamo almeno tre anni, che esiste un refrain piuttosto popolare presso la FIMI, la Federazione Industria Musicale Italiana, al cui board siede il presidente Enzo Mazza, i presidenti delle quattro major, Andrea Rosi di Sony, Alessandro Massara di Universal, Marco Alboni di Warner e Dino Stewart di BMG, più Alberto Pojaghi dell’omonimo studio legale, ma anche presso gli uffici della major e dentro le pagine di tutta una serie di miei colleghi un filo asserviti a questi contesti, refrain che vuole lo streaming non solo come il futuro dell’industria musicale tutta, ma anche il presente, qualcuno azzarda anche il passato, una sorta di pensiero unico senza possibilità di appello.
Ce lo hanno detto in tutte le salse, Enzo Mazza addirittura è arrivato a fare tweet nei quali rilancia richieste di collocamento per conto di Spotify, roba che a raccontarla viene da ridere per non piangere.
Lo streaming è tutto, ci hanno ripetuto.
La musica è liquida, abbasso il solido, manco fosse una questione green.
Lo streaming al potere.
Al punto che abbiamo vissuto per qualche tempo in un paese nel quale ogni settimana piovevano Dischi di Platino e d’Oro come fossimo in balia di Katrina, davvero. Decine e decine di certificazioni, a artisti che poi nei fatti non avevano schiodato una copia fisica, e che spesso non hanno neanche un pubblico disposto a pagare per andare a sentirli dal vivo, vedi alla voce trap e indie, ma soprattutto trap.
Sappiamo tutti la storiella, gente come Ghali, Sfera Ebbasta, e tutta quella compagnia cantante, si fa per dire, lì, di colpo ha preso lo scettro del mercato. Quelli che in effetti i dischi li avevano venduti davvero, nel passato prossimo come in quello remoto, di colpo si sono sentiti messi da parte, non contavano più un cazzo. In quattro anni, per dire, il rapper di Cinisello Balsamo ha preso più certificazioni di artisti con carriere decennali, stadi riempiti, canzoni passate in radio e in tv, il tutto a partire dallo streaming, da chi lo streaming gestisce, quindi, e da chi lo streaming ha adottato per ascoltare musica praticamente gratis (con le piattaforme craccate, direi, gratis davvero).
Poi ci si è forse resi conto che la cosa stava prendendo la piega della farsa, sempre che non ci sia proprio partita come farsa. Che, cioè, spacciare per campioni di vendite artisti, Dio mi perdoni, che non hanno mai venduto nulla, era qualcosa che rasentava il paradossale. Allora si è provato a far finta che si era in parte scherzato, e si è deciso di alzare il numero di streaming necessario per far risultare che quello che i ragazzini fanno con il loro smartphone, con abbonamenti più o meno veri, comunque a prezzi stracciati, era equiparabile a quel che si faceva e ancora si fa rispetto ai cd e i vinili, cioè sborsare soldi per comprare qualcosa di solido, magari addirittura uscendo di casa per andare in un negozio a comprarlo. Con quello che avresti speso per comprarti un album ci ascolti tutta la musica che vuoi, ma quei tuoi ascolti finiscono per valere come se avessi comprato i dischi con soldi sonanti, vedi alla voce “doping”.
Nei fatti, quindi, lo streaming ha iniziato a contare meno, le copie fisiche, quelle che stando a discografici e Fimi erano in via d’estinzione, a contare di più.
Questo però non basta.
Succede altro.
Succede, cioè, che mentre i trapper, cioè i giovani che dovrebbero avere la capacità, figli come sono della cultura rap, di usare le parole per raccontare la vita vera, quella vissuta in strada, stanno lì a parlare ancora di troie, privè e bottiglie, al limite lamentarsi del successo, manco fosse una pena capitale, un manipolo di vecchietti piuttosto arzilli, di quelli che fanno i dischi andando in uno studio di registrazione, con gente che suona gli strumenti, e che poi incidono la propria musica facendola pubblicare sotto forma di cd e di vinile, abbia deciso di raccontare davvero l’oggi, parlare cioè di quel che sta succedendo a questo vecchio e malandato pianeta. E succede che questi dischi, usciti già in primavera, ma pure nei mesi seguenti, penso a Bob Dylan e al suo Rough and Rowdy Ways, a Neil Young e al suo redivivo Homegrown, penso a Bruce Springsteen, che con la sua E Street Band ha sfornato un delicato Letter to You, penso ai Flaming Lips e al loro American Head, da molti festeggiato come un gradito ritorno alla loro follia creativa, cosa che per altro ha destato in me non poca meraviglia, perché non mi ero affatto accorto che l’avessero abbandonata negli anni, penso a Elivs Costello e al suo Hey Clockface, penso a Bon Jovi e al loro 2020, penso al nostro Renato Zero, che per festeggiare i suoi settant’anni ha deciso di sfornare nel giro di tre mesi i tre volumi di Zerosettanta, penso agli AC\DC, che dopo la morte del centralissimo Malcolm Young, decidono di dare alle spalle un monolito come Power Up, in attesa che arrivi Alice Cooper e Claudio Baglioni, so che l’accostamento apparirà piuttosto forzato, e in effetti lo è, ma sempre di artisti con carriere decennali, un pubblico molto vasto e transgenerazionale e la voglia di fare dischi suonati si tratta, succede che questi dischi siano usciti e abbiano fatto in buona parte il botto, in patria come da noi.
Mentre scrivo queste parole, per dire, in vetta alla classifica di vendita, di vendita, bada bene, le parole sono importanti, c’è appunto l’ultima fatica, è il caso di dirlo, di Angus Young e soci, un album che è una sorta di aggiornamento con vaghe sfumature di quel che da sempre è il loro marchio di fabbrica, un hard rock chitarristico e dalle ritmiche ossessive.
E prima di lui sono stati in vetta Springsteen, Zero per ben due volte, e via via tutti gli altri. Beh, tutti tutti no, è chiaro, la band di Wayne Coyne non ambivano neanche a finirci, ma di fatto ci siamo trovati di fronte a una sorta di paradosso temporale per cui una settimana avevamo in vetta gente col nome improbabile di Random, Rkomi, Enria o affini, la settimana dopo Springsteen o gli AC\DC.
Come dire, una settimana a spingere in vetta qualche trapper senza arte ne parte era lo streaming, quindi qualcuno che spendendo dieci euro di abbonamento poteva sentire quel che voleva, la settimana dopo a svettare era un vecchio rockettaro il cui pubblico ha tirato fuori soldi sonanti per comprare album, un pubblico per cui è già tanto accettare di ascoltare la musica in digitale col CD, figuriamoci con lo streaming, gente, per dirla alla vecchia, che batte i pezzi, solo roba solida, come del resto solida è la loro musica, da non leggere questo passaggio come qualcosa da contrapporre alla musica liquida per una questione di modalità di fruizione, quanto proprio di resa artistica e durata nel tempo. Musica che farà repertorio, come del resto i repertori attuali dimostrano, spesso con album firmati dagli stessi artisti, figuriamoci se fra trent’anni le major camperanno coi vecchi dischi di Capoplaza o Fistola.
Chiaro, venerdì in vetta ci sarà Sfera Ebbasta, su cui hanno investito fantastilioni Universal e Spotify, sì, chi ti fa ascoltare musica investe su certi artisti e su altri no, si veda la sponsorizzazione della anche troppo famosa piazza di Cinisello Balsamo, chi ha patriotticamente esultato per l’ADV comparso su uno dei videowall di Times Square, a New York, come fosse un merito artistico finirci, e non il semplice risultato di aver acquistato quello spazio pubblicitario, magari anche dando del boomer a chi ne sorrideva, ha dimostrato in realtà assai più provincialismo di quello che imputava ai presunti boomer, perché fuori di qui nessuno se lo caga, Sfera Ebbasta, prova ne sia che a disco uscito, in questa volta si fa per dire, nessuno dei tanti artisti presenti in tracklist, le famose collaborazioni internazionali tanto sventolate, si è presa la briga di spingere sui propri profili social Famoso, si vede che nel prezzo pagato l’endosement non era compreso. I soldi possono comprare spazi pubblicitari, ingressi in playlist di massa, collaborazioni imporanti, ma la credibilità, ahimé, no, non te la può comprare. E grazie a Dio. Quindi Sfera Ebbasta sarà primo, ma per ora ci godiamo Power Up, gli AC\CD e il sano e vecchio rock’n’roll. Ok Boomer, ci siamo ancora.
Torniamo allora all’anomalia.
Non è vero quanto ci hanno detto, non ci abbiamo mai creduto.
La musica ha due tipi diversi di pubblico, e del resto è sempre andata avanti su due sentieri neanche troppo paralleli.
Da una parte c’è chi lavora per lo streaming, anche tra artisti attempati, lì a inseguire le mode, magari per insicurezza, perché un Gino con le Mutande ha detto loro che o si omologano alla musica imperante o si estingueranno come i Panda, dall’altra c’è chi se ne sbatte il cazzo dello streaming, e della musica che per lo streaming è concepita, musica demmerda senza dinamica, con solo le frequenze medie ben pompate, poche note a disposizione e quindi linee melodiche esili e tutte uguali a loro stesse, povero Shazam, lì a impazzire, e sta lì ancora a fare quel che meglio sa fare, musica suonata, articolata, complessa, che sia rock, pop, rap o quel che è. Due comunità diverse, come provavo a tratteggiare giorni fa, prima però che arrivasse questa ennesima e immagino definitiva conferma.
Intendiamoci, non dico che immagino che da un momento all’altro arriverà davvero una divisione in campionati diversi, che so?, quello ufficiale e quello universitario, né penso che di colpo i vecchietti abbandoneranno il digitale, che diciamolo fa cagare e non certo per la faccenda del fruscio della puntina sui vinili, andatevi a leggere e imparare a memoria il bellissimo Ascoltare il rumore di Damon Krukowski, non solo fine intellettuale, ma anche ex batterista dei Galaxie 500, seppur ci siano artisti che ancora praticano l’analogico, penso a quel Gianni Togni che nel 2019 ha sfornato Futuro improvviso, davvero notevole e degno di finire nella sua discografia già piuttosto affollata di perle pop. No, penso semplicemente che davvero questi due mondi così distanti tra loro, chi fa musica usa e getta, e non si legga necessariamente a questa mia definizione come qualcosa di offensivo, non vorrete mica farmi pensare che i trapper pensano di superare l’incedere del tempo con le loro canzonicine?, e quelli che ambiscono a fare una musica magari anche senza tempo, quindi necessariamente fuori dal tempo, andando a passare mesi in studi di registrazione costosissimi, soldi che con buona probabilità non rientrerebbero dalle vendite dei soli dischi, continuo ovviamente a chiamarli così, almeno questi ancora lo sono, ma basandosi sui tour, quando i tour ritorneranno, sulle sincronizzazioni, mica penserete che nelle colonne sonore dei film e degli spot ci finiscano quelle canzoncine dei trapper?, dai, fate i seri.
Perché questo è un po’ il problema, immagino, che ha spinto loro, i discografici, quelli che fanno parte del panel della FIMI, da noi, ma non solo i nostri, a puntare tutto sullo streaming, quindi su qualcosa di volatile, effimero, l’idea che non investire in prodotti di qualità, tanto poi la gente ascolta con lo smartphone e non si sentirebbe la differenza, non sia qualcosa di profondamente sbagliato.
Di più, l’idea agghiacciante che risparmiare su questa parte della filiera discografica, l’arte, le canzoni, e gli artisti, chi le canzoni le deve scrivere, cantare, produrre, suonare, non sia qualcosa di orrorifico, puntando su una omogeneizzazione degli ascolti, indotti da chi fa le playlist delle piattaforme in questione, Spotify in testa, sia normale. Da qualche parte tocca tagliare, facciamola sul prodotto. Del resto svendere il repertorio qualcosa in cassa avrebbe portato, e chi se ne frega di quel che succederà domani, Spotify è in rosso netto e profondo, chi se ne frega di quel che succederà domani, gli artisti campano ormai più con i social e i product placement, chi se ne frega… insomma, ci siamo capiti.
Ora, a questo punto qualcuno dirà che in realtà la discografia erano anni che non faceva i numeri che sta facendo ora. Tutto vero, ci mancherebbe che metto in discussione la credibilità di gente cui non chiederei neanche se sto per toccare la macchina dietro la mia mentre sto parcheggiando, ma è evidente che è un arricchimento altrettanto effimero, basato su una economia che si autogenera e sulla vendita di tutti gli ori di famiglia, e quelli una volta che li hai venduti li hai venduti, una economia effimera che in assenza di reale commercio non reggerà, prima o poi quel rosso dovrà scomparire, no?, prima o poi gli artisti si incazzeranno di essere trattati come l’ultima tradizionale ruota del carro.
Io non uso Spotify.
Lo dico sempre, lo scrivo da anni. Non lo uso per coerenza, come potrei usarlo dopo che lo dipingo come il Male. È vero che è il Male cui la discografia ha dato in pasto i propri figlioli e in spose le proprie figliole, quindi anche i discografici hanno le loro colpe, li avete visti, no?, che vi dovrei mai spiegare, ma Spotify è perfetta per incarnare il villain in questa storia. E io in questa storia sono il buono, non voglio avere a che fare col villain. Non uso Spotify. Il che si traduce, quotidianamente, in me stesso che dice a uno dei tanti, tantissimi utenti dei social che mi invia link di quella piattaforma, pregandomi di ascoltare, o magari non pregandomi, non sono Dio, ma chiedendomi di ascoltare, invitandomi a ascoltare, dicendomi che se ascolterò sicuramente mi piacerà o, al contrario, che l’ascolto mi spingerà a stroncarlo (questa faccenda di approcciarmi dicendomi “mi piacerebbe molto essere stroncato da te” ha obiettivamente rotto il cazzo, sia messo agli atti), il me stesso che dice a uno dei tanti, tantissimi, troppi utenti dei social che no, mi spiace, ma io non uso Spotify. A volte non sono gentile, perché che io non usi Spotify dovrebbe essere piuttosto chiaro da quel che scrivo da anni, o quantomeno dal fatto che lo dichiaro, come ora, non uso Spotify.
Io non uso Spotify, quindi, e quando ho comprato la mia auto nuova, una sette posti giapponese, circa un paio di anni e mezzo fa, in famiglia siamo in sei, ho chiesto, e ottenuto, che ci fosse il lettore CD, un optional che da solo costa come gli interni in pelle di coccodrillo, a dirla tutta. Uso anche il vinile, è ovvio, sono nato nel Novecento, ho lavorato in radio quando ancora si mettevano i vinili sul doppio piatto, ovvio che uso i vinili, ne ho qualche migliaio, vecchi ricordi di quando la musica era solo la mia passione, e più recenti, di quando cioè gli artisti hanno ricominciato a mandarli in stampa. Non ho più negozi dove comprarli, perché nella parte di Milano che frequento non ce ne sono, ma ho Amazon, quella che per molti è il nemico, che sopperisce a queste mancanze. Il che, va detto, inscena un altro paradosso, una delle piattaforme di ascolto in streaming, Amazon Music è parte degli attori considerati dalle classifiche dei dischi, mi permette di acquistare CD e vinili, quelli che artisti e discografici non mi mandano (i discografici non me ne mandano più da tempo, convinti così di nuocermi, pensate che poveri miserabili, come se avessi bisogno di quelli che evidentemente per loro sono regali per poter fare il mio lavoro).
Volendo, nel lasso di tempo che passa da quando li acquisto a quando mi arrivano, con Amazon Prime in genere poche ore, al massimo qualche giorno, posso iniziare a ascoltarli proprio su Amazon Music, cosa che però in genere mi guardo bene di fare, sempre per quella faccenda della coerenza.
So che sembro uno dei personaggi tratteggiati da Luca Carboni, artista che stimo profondamente, è noto, in Sarà un uomo, quelli che non hanno mai capito cosa vuol dire hi-fi, quelli che voglion ancora l’orchestra e non si fidano del dj, ma ho sempre continuato a professare il mio credo nella musica di qualità, senza per questo precludermi ascolti che fuoriescano dai generi che più amo, l’hardcore, il punk, il rock, il rap degli anni d’oro, non vedo perché dovrei tradirla, per di più per musica col fiato corto, le idee appannate e una resa davvero misera.
Il fatto che Angus Young e soci, artisti sulla scena da una vita, con un’idea molto precisa di musica, idea dalla quale non si sono mai discostati di un millimetro, anche stavolta senza la possibilità immediata di portare poi quella musica dal vivo in giro per il mondo, per intendersi, sia lì in vetta alla nostra classifica, vetta dalla quale ha scalzato un affannato Tiziano Ferro con la sua raccolta di cover, anche lui, a ben vedere della vecchia guardia, ma sicuramente non uno dei suoi alfieri migliori, battendo in volata niente meno che i Negramaro, non perché la band di Giuliano Sangiorgi e Andro, quest’ultimo nei panni anche di produttore di Contatto, il nuovo album della band salentina, ma perché dopo anni di attesa ci si aspettava che i nostri paladini dell’electrorock arrivassero primi almeno per una settimana, senza però aver fatto i conti con l’oste, i rockettari australiani più duri di sempre, il fatto che Angus Young e soci sia lì in vetta alla nostra classifica, lo confesso, è una delle rare buone notizie di questo anno altrimenti di merda.
Certo, non è una notizia capace di cancellare tutto il dolore di questi mesi, e neanche pretende di farlo o pensavo io di azzardare un concetto così delirante, ma è pur sempre un fatto che, in un settore moribondo come quello discografico notizie come queste vanno viste con gaudio e ottimismo. Come quando si scopre che quella particolare razza di animali che pensavamo per sempre estinta in realtà era semplicemente andata a farsi i fatti propri in qualche zona appartata, solo che stavolta la zona appartata frequentata da questi animali per niente estinti è il mainstream, casa nostra.
Mettiamola così, se lo streaming è l’incarnazione della contemporaneità, una contemporaneità nella quale non mi riconosco e non mi voglio riconoscere, l’idea che a metterla almeno per un po’ in soffitta sia un vecchietto di sessantacinque anni vestito da scolaretto del college, intento a danzare col passo dell’oca mentre maneggia con cura la sua Diavoletto è davvero una bella immagine, una bellissima e rassicurante immagine. Lunga vita al rock, boomer.