Il 15 maggio scorso vi ho raccontato della genesi del mio romanzo Milanabad.
Ovviamente non intendo replicare, non serve. Non è della trama che voglio raccontarvi, né di Rancore che l’ha in qualche modo ispirati, al pari di Micheal Muhammed Knight e Gautam Malkani. In quell’occasione vi ho raccontato di come io abbia chiamato a raccolta una serie assai ampia di artisti, andati a pescare tra il mainstream e l’underground, artisti ai quali ho chiesto di scrivere delle liriche da porre in esergo di ogni singolo capitolo, come fossero featuring. L’idea, anche questo raccontavo in primavera, era nata anni e anni prima, quando cioè, ai tempi in cui lavoravo presso la redazione di Strade Blu, in Mondadori, mi era capitata sottomano una copia di McSweeney’s, la rivista creata da quel genio di Dave Eggers, dal titolo Timothy McSweeneys’ Very Intense Heated Pasionate Battle/Embrace with They Might Be Giants. Si trattava del sesto numero della rivista, che così, tanto per partire col botto, Eggers aveva coinvolto la college band dei They Might Be Giants, che avevano scritto l’intera colonna sonora del numero, un brano per ogni racconto, titoli e illustrazioni comprese. Un colpo di genio, come del resto spesso capiterà di incontrare anche nei numeri successivi.
Uno in particolare avrebbe in qualche modo contribuito a sedimentare in me l’idea di coinvolgere artisti del campo rock e pop. Col progetto dal nome As Smart As We Are, uscito nel 2005, infatti, Eggers coinvolse stavolta non una band già nota come i They Might Be Giants, nota magari non a livello mainstream, ma comunque con un buon seguito nel mondo underground e ottimi riscontri di critica, quanto piuttosto un duo semisconosciuto come gli One Ring Zero. L’idea era quella di trovare una resident band per una rivista, e già questo è qualcosa di talmente insolito da rasentare il colpo di genio, una sorta di prova muscolare, un tirare fuori un coniglio dal cilindro, perché la resident band si sarebbe potuto avvalere della collaborazione di tanti scrittori del giro McSweeney’s, da Rick Moody, che a scanso di equivoci è uno dei più grandi scrittori viventi, allo stesso Eggers, passando per Neil Gaiman, la Margaret Atwood diventata recentemente famosissima per I racconti dell’ancella, Paul Auster, A.M. Hones, il compianto Denis Johnson, Jonathan Lethem e altri, tutti a comporre liriche per le canzoni della band, più che altro conosciuta per il loro suonare strumenti inventati o comunque poco comuni, con per di più cameo musicali da parte di Vernon Reid, mente e chitarra dei Living Colour e David Byrne. Il tutto ha dato vita a un album, stavolta non allegato a un numero di Mc Sweeney’s, ma in qualche modo legato alla rivista.
Ora, un album che è la colonna sonora di una serie di racconti, e un album che è il frutto della collaborazione tra una band praticamente inesistente e tutta una serie di scrittori, intenti a scrivere testi di canzoni, diciamo che prima di allora difficilmente avevamo assistito a qualcosa del genere. Da noi non ci abbiamo assistito ancora, seppur io abbia provato a girare da quelle parti.
La prima idea che ho sviluppato è stato chiamare all’adunata cantanti, rapper e rockettari per Milanabad. Ognuno ha scritto delle liriche che, però, non sono mai state musicate. Liriche scritte per la carta, come epigrafi dei singoli capitoli del romanzo, un romanzo che era comunque estremamente musicale, la storia di ragazzi impegnati nella difficile vita di periferia, il rap a fare da spinta vitale, da ancora di salvezza.
La seconda idea che in qualche modo andava a attingere da McSweeney’s, ma in maniera molto più larga, perché in realtà era il mio tentativo letterario di cimentarmi in un mockumentary. Vi ho già raccontato anche questo, qui: https://www.optimagazine.com/2020/05/26/dalla-svezia-mi-e-arrivato-il-libro-dellideatore-dei-sex-pistols-malcolm-mclaren-ma-non-lho-letto/1820786, non serve neanche stavolta che ci torni su. In quel caso non ho coinvolto una band per fare la colonna sonora di racconti o romanzi. Né ho coinvolto scrittori per far scrivere loro le liriche delle canzoni di una band. Con l’amica e collega Berarda Del Vecchio abbiamo scritto il romanzo che raccontava le vicende delle Bikinirama, band tutta femminile partorita dalla mia mente. Poi ho prodotto l’album omonimo delle medesime Bikinirama, coinvolgendo Niccolò Fragile per gli arrangiamenti, una serie di turnisti di primo piano e soprattutto artisti quali Enrico Ruggeri, Tiromancino, Sara Mazo degli Scisma, Andrea Mirò e altri per fare dei featuring. Ho anche creato la band, ovviamente, trovando tre voci che potessero dar vita a quella che veniva raccontata come la più grande pop band femminile al mondo. Abbiamo inciso un album, uscito per Universal lo stesso giorno dell’uscita del romanzo. A lanciare il tutto, sulle pagine online del Fatto Quotidiano, per trenta giorni, dieci prima della data d’uscita, e venti dopo, ho pubblicato video di nomi importanti della scena musicale italiana, mainstream e underground, da Masini a Caparezza, da Max Pezzali a Paola Iezzi, passando per il già citato Rancore, Piotta, Mara Maionchi e tanti tanti altri, tutti a raccontare come le Bikinirama avessero lasciato un segno sulle loro vite. L’idea era appunto di fingere che già esistessero, raccontare finti aneddoti era parte dello storytelling. Altra idea che avrebbe dovuto contribuire a creare attesa, e anche un po’ di sorpresa, oltre trenta cover fatte da artisti della scena indie del sinolgo Vota Bikinirama, che avrebbe dovuto lanciare il progetto. Trenta cover di un brano ancora non esistente, non trenta remix, attenzione, trenta cover, con stili diversi e cantati da artisti diversi, da Francesco Di Bella a Cassandra Raffaele a tanti altri. Insomma, di idee ce n’erano tante, e già la canzone Vota Bikinirama era nata perché volevo impattare nella campagna elettorale coprendo tutti i manifesti elettorali con dei banner con su le tette delle tre ragazze, i capezzoli coperti da delle X, e la scritta Vota Bikinirama. Avevamo addirittura pensato di candidarle alle elezioni politiche, come capolista di una lista fantoccio, poi ci è mancata l’energia, sono successe cose impreviste, tutto è andato un po’ a puttane. Di come la questione Bikinirama sia andata a finire ho scritto appunto allora, non occorre che torni sulla scena del crimine, ma credo potrebbe essere interessante provare a fare un ulteriore passo, che magari tenga conto tanto di Milanabad quanto di Bikinirama.
Lo credo non perché qualcuno me ne abbia chiesto conto, anche se qualche hater salta sempre fuori a voler contrapporre il Titanic delle Bikinirama a uno dei dischi o artisti che stronco, come se non fosse abbastanza evidente che quello era un esperimento situazionista, esperimento che prevedeva sia dalla sua genesi il fallimento, nessuno pensava che quello sarebbe stato il futuro e il futuro non è stato, in effetti. Lo credo perché in qualche modo, penso, sia utile provare a invertire il corso degli eventi. Tocca provare a pensare a qualcosa che guardi avanti, ipotizzare un progetto, dar seguito a una visione. In una parola: sognare.
Il fatto è che le giornate ricominciano a assomigliarsi tutte. Si chiama routine, o quotidianità, in effetti, le giornate di quasi tutte le persone tendono a somigliarsi tra loro. Anche le mie, a ben vedere.
Ma nonostante questo non sono abituato a giornate che si somiglino, perché ho scelto di lavorare in un settore che, volendolo vedere un po’ più da lontano, ha routine e quotidianità esattamente come tutti i mondi del lavoro, è vero, ma un po’ meno routine e quotidianità degli altri. L’imponderabile è lì, dietro l’angolo, l’improvvisazione anche. Toccava sempre prendere la forma del momento, prima, adeguarsi alla contingenza, rock ‘n’ roll. Prepararsi a qualcosa che all’ultimo saltava, trovarsi di fronte una novità improvvisa, urgentissima. Certo, parliamo di canzoni, non di guerra, ma ognuno al proprio fronte, credo.
Mettiamola così, la quotidianità cui mi ero abituato era quantomeno mossa, immagino che anche per un pilota di rally alla fin fine star lì a correre con la macchina per colline e strade sgaruppate sia routine, ma la convivenza con una certa dose di adrenalina era parte del pacchetto, senza si rischia davvero di diventare effimeri.
Ora le mie giornate cominciano a somigliarsi tutte ma si somigliano nel senso che non succede praticamente un cazzo, e questo non è contemplabile anche volendo in una qualsiasi forma di routine per chi ha scelto di lavorare nel campo della scrittura sì, qualcosa di apparente statico, ma di scrittura applicata al mondo della musica leggera. Intendiamoci, non leggete queste mie parole come le meste lamentele di un privilegiato. So che sono ben altri i problemi di questi tempi. Ma, che cavolo, questo è un diario, non dovrei star qui a parlare dei massimi sistemi, o sarebbe un trattato filosofico.
Lo so, lo so, in questo momento sono una sorta di San Sebastiano, va beh, un San Sebastiano piuttosto sovrappeso e anche sciattametne etero, che mostra il fianco a tutta una pletora di critiche (il fatto di aver usato la parola pletora a questo punto è chiaramente un autogoal, perché sicuramente non farà che attirare critiche, essendo io uno che ha voluto con quella parola lì, inconsueta, sottolineare come cercare le parole giuste sia in fondo il mio lavoro, spero avrete apprezzato che almeno dentro questa parentesi ho usato inconsueta e non desueta). Ho in sostanza dato vita a una lamentela per questioni che verranno registrate come futili, e il tutto in un momento nel quale di motivi non futili per cui lamentarsi ce ne sono fin troppi. E l’ho fatto, aggravante, almeno dal mio punto di vista, proprio nel momento in cui sto scrivendo di miei libri, e di ipotizzare miei nuovi progetti. Davvero un suicidio. Rendersi antipatico, peggio, un capriccioso privilegiato che si lamenta per la noia nel momento in cui la gente non mette insieme il pranzo con la cena.
Potrei adesso, proprio adesso, citare Ken Loach, tirare in ballo il pane e le rose, ma tecnicamente quello di cui sto parlando per me non è tanto le rose, quanto il pane. Il mio pane perché il mio lavoro, so che a qualcuno suonerà strano, magari a quello stesso qualcuno che ogni santo giorno arriva a spiegarmi cosa dovrei scrivere parlando di musica, o come dovrei scrivere parlando di musica, ma questo è il mio lavoro. Quello col quale, appunto, mangio. Ma il lavoro non è solo questo, e ci mancherebbe altro, la filmografia di Ken Loach in questo è piuttosto chiara. Il lavoro non è solo quello che ci permette di mettere il pranzo con la cena, in alcuni casi altro, molto altro, il lavoro è anche l’occupazione che occupa, in certi casi militarmente, una parte preponderante delle nostre vite di adulti. Quasi tutto il tempo in cui siamo svegli, anche se in alcuni casi a chiunque capita di avere a che fare con gente che tutto è fuorché sveglia, ognuno di voi inserisca a questo punto una professione, pubblica o privata, dipendente o autonoma, che ritiene particolarmente odiosa. Si potrebbe parlare di alienazione, imbruttimento, scivolando chiaramente in un anticapitalismo depresso, alla Mark Fischer, se non tornare indietro negli anni e finire in una visione marxista del mondo. Insomma, consci che col cazzo che il lavoro rende liberi, non sono certo io il primo a aver deprecato quella frase agghiacciante posta all’ingresso del luogo simbolo dell’orrore, e altrettanto consci che chi è nobile schifa il lavoro, perché mai il lavoro dovrebbe nobilitare chi nobile non è?, ci tengo a sottolineare come provare, non necessariamente riuscirci, magari neanche possibilitati a provarci, è vero, ma comunque provare a fare un lavoro che non sia mera routine è il grado zero del nostro tentativo di vivere e non sopravvivere, checché ne dica chi guarda alla sopravvivenza economica come primo step di un affrancamento dallo schiavismo capitalista. Provare a fare un lavoro che non sia routine, magari a costo di rinunciare a optional e garanzie, non voglio certo star qui a contrapporre quello che faccio alle tante, anche troppe, garanzie che hanno coloro che siedono dietro a certe scrivanie, tutelati anche nel mezzo di una pandemia, no, non mi presterò a questo gioco (spero che aver in qualche modo tirato in ballo gli statali, seppur portando tutti gli statali tra quanti mi stanno leggendo dalla parte di quelli a cui sto sul cazzo, avranno almeno momentaneamente fatto dimenticare agli altri la faccenda di me che mi lamento di non poter sognare ora, in mezzo alla anche troppe volte citata pandemia).
Il pane e le rose, quindi.
Il mio pane e le mie rose, adesso, è esattamente qui, in questo foglio word bianco sul quale sto scrivendo le parole che voi ora, chissà quanto tempo dopo che io le ho scritte, state leggendo. E consiste nel provare a progettare qualcosa che sia figlia di una visione. O magari solo figlia di un incartamento mentale, perché mica lo so quanto io sia lucido, siamo tutti un po’ folli di questi tempi, se ne parlava giusto ieri.
Trovare quindi un punto di incontro tra l’idea alla base di Milanabad, chiedere a artisti mainstream e underground di scrivere liriche per una inesistente colonna sonora di un romanzo decisamente molto musicale e Bikinirama, un mockumentary letterario che ha anche un album vero e proprio, scritto da me, prodotto da me, cantato da tre vocalist ma con i featuring di artisti veri, famosi, il lancio pensato coinvolgendo tanti altri artisti e addirittura trenta e passa cover del singolo di lancio incise da artisti indie.
Avessi già l’idea di cui vado vagheggiando da circa tredicimila battute, converrete, l’avrei già sparata. Magari no, perché è credo ormai noto il mio modo di scrivere, il rimandare di continuo il punto del discorso, come un pornodivo che ritarda l’eiaculazione, spesso concedendola nelle ultime inquadrature, nello specifico le ultime righe di capitoli e articoli decisamente troppo, troppo lunghi. Comunque sono già andato abbastanza avanti, fidatevi, avessi l’idea l’avrei quantomeno fatta intuire, salvo poi, ta-dan, spiegarla in poche parole, lasciando che il futuro faccia il suo corso. Ma non so come dar seguito a una intuizione, descrivere una visione ancora nebulosa. Non fosse altro che perché il futuro è troppo incerto, l’impossibilità di ipotizzare quando tutto questo delirio sarà davvero finito, se questione di settimane, di mesi, di anni, Dio non voglia.
Allora provo a improvvisare, questo del resto fa chi scrive, spesso, improvvisa a partire da una intuizione, una suggestione, uno spunto.
Cercare una via di incontro tra quelle due esperienze, ormai archiviate, o almeno parte di una storia già vissuta, potrebbe essere ipotizzare una ripubblicazione del romanzo Milanabad, volendo anche online, gratuitamente, non è certo per mere faccende di diritti d’autore o di cachet che sto scrivendo, però invitando artisti (o aspettando proposte da artisti) che vogliano stavolta realmente dar vita a una colonna sonora, un brano per capitolo, canzoni fatte ad hoc, inedite.
Poi si può pensare che farne, immagino un’etichetta interessata alla pubblicazione la si troverebbe senza problemi, in questa moria di idee nella quale viviamo. Anzi, già che ci siamo possiamo direttamente invitare anche le etichette interessate a farsi vive. Io mi impegno a offrire i diritti del libro gratis, nel caso, senza problemi, sono tornati miei, posso farne ciò che voglio.
Se questa idea però non fosse abbastanza suggestiva, la storia di ragazzini che provano a fare i rapper nella periferia est milanese potrebbe essere troppo connotata territorialmente, forse anche temporalmente, si può pensare a altro. Non credo sia il caso di tirare di nuovo in ballo le Bikinirama, anche se pure lì sono disposto a qualsiasi suggestione, quanto magari a pensare a qualcosa di nuovo, mixare fiction e musica, dar sfogo a un po’ di fantasia.
Mettiamola così, tanto per farci compagnia, scrivetemi per qualsiasi spunto abbiate, sia che siate musicisti, sia che siate editori, sia che siate discografici. Io mi offro di fare da catalizzatore, ma anche da sviluppatore. Il progetto Milanabad e quello Bikinirama sono a disposizione, come un po’ tutte le opere che ho pubblicato che abbiano a che fare con la fiction e la musica, da Avrei voluto tutto, storia romanzata della mia band punk, gli Epicentro, a I piedi nudi di Amanda Palmer, i capelli rossi di Elizabeth Siddal. Dai, fatevi sotto.