Mi ero ripromesso di non parlarne, l’ho scritto l’altro giorno. Avrei davvero voluto non parlarne. Ma ho passato il fine settimana con gli occhi lucidi, per altro ascoltando una discografia che ancora oggi mi sembra assolutamente impressionante, non che abbia mai dubitato a proposito, e questo è un diario, credo che lasciarne fuori queste sensazioni sia giocare sporco.
Il fatto è che la morte di Stefano D’Orazio mi ha colpito davvero molto.
Eviterò di tirarlo dentro aneddoti personali, che poi è esattamente il motivo per il quale mi ero ripromesso di non fare più necrologi o coccodrilli, ma parlerò molto di me. A questo, suppongo, siete abituati.
La cosa che più mi ha colpito, partiamo da qui, è come tutti, addetti ai lavori, colleghi, giornalisti, fan, hanno sottolineato come Stefano D’Orazio fosse una persona estremamente simpatica, alcuni hanno tirato in ballo la sua romanità, come se tanto bastasse a giustificare quello che era un suo indubbio talento, uno dei suoi talenti, simpatia che si univa a una professionalità estrema, attento a tutti i dettagli non solo quando suonava, ma anche nella parte produttiva, tanti hanno raccontato di come fosse naturalmente portato a prendersi cura di chi lavorava ai tour dei Pooh, per altro come tutti i suoi soci, tutti estremamente amabili. Una sorta di unanime riconoscimento che in qualche modo affiancava i commenti relativi al suo essere anche un grande artista, e lì ci sono ovviamente stati i soliti distinguo idioti, quei “spiace ma” di cui onestamente nessuno sa che farsene.
Insomma, tutti concordano di come avere nei pressi Stefano D’Orazio equivalesse a stare bene, farsi quattro risate, se si era al lavoro lavorare in un contesto gradevole, con sempre qualcosa da imparare (era sempre il primo a arrivare sul luogo dei concerti, hanno sottolineato quasi tutti coloro che hanno lavorato coi Pooh).
Ecco, in questo, la cosa che mi ha colpito, quella da cui vorrei partire, è che Stefano D’Orazio sia morto da solo in ospedale, senza di fianco i suoi affetti, senza poter avere intorno i suoi compagni di quarant’anni di avventure, a nessuno è sfuggito come gli ex Pooh, sempre che si possa essere ex di una realtà così importante, abbiano annunciato la morte del loro compagno utilizzando il medesimo post, tutti, Roby, Dodi, Red, Riccardo Fogli, messi da parte eventuali dissapori, screzi, di nuovo insieme per piangere l’amico, attoniti, impietriti, impossibilitati di essergli a fianco nell’ora dell’addio, addio che nessuno gli ha potuto dire stringendogli la mano.
Ora, la morte è una livella, non è certo una scoperta mia fatta oggi. Ma il fatto che sia una livella non la rende meno morte di quanto non sia. Che il mal comune sia mezzo gaudio è una cazzata che andrebbe archiviata per sempre. La morte è morte, il dolore è dolore. Non è certo del lutto che la morte di una artista provoca in chi con le opere di quell’artista è vissuto che voglio soffermarmi, l’ho dovuto fare troppe volte in vita mia, una intera generazione di artisti che ci sta lasciando in uno stillicidio insopportabile. Ma certo l’idea che un artista così compagnone, uno che per di più con la sua musica e le sue parole ha fatto compagnia a milioni di persone in una carriera incredibile, chi critica i Pooh non li conosce e se li conosce non ha la benché minima idea di cosa sia la musica leggera, trovi la morte solo in un letto d’ospedale oggettivamente colpisce, perché non è vero che tutte le morti sono uguali, e la storia ci ha insegnato come spesso la morte di chi famoso non è arriva in contesti più degradati e sconcertanti, non questa volta.
Ovvio che tutte le morti solitarie sono agghiaccianti, non è che in questo la livella sia meno livella, ma a me questo pensiero è venuto l’altra notte, pensando a Stefano D’Orazio. In genere non si pensa al momento della morte, o almeno io non ci penso, credo sia una faccenda di subconscio e di sopravvivenza.
Ho pensato alla morte di Stefano D’Orazio e mi ha ferito il pensarlo solo nel momento dell’addio.
Questa idea, confesso, mi si è attaccata alle pareti del cervello. Lo ha fatto perché sono un uomo di mezza età, ho perso pezzi della mia vita, strada facendo, spesso decisamente anzitempo, il fatto che il Covid mi tenga bloccato a Milano, lontano dai miei genitori anziani, genitori anziani che so non saranno con me per sempre, mi taglia l’anima ogni giorno, come la lontananza dai miei fratelli, dai miei amici, momenti di vita comune che non stiamo vivendo e che non potremo recuperare, ma lo ha fatto perché stare chiuso in casa sotto una pandemia ci lascia tempo per pensare, tempo che preferiremmo non avere, o dedicare a altro. È questo, con altre parole, che mi ha scritto Red Canzian, non lo sto citando per parlarvi di me che etc etc, attenzione, ma è un aspetto che in questo discorso c’entra e non posso non tirare in ballo, che strugge maggiormente. Esserci sempre stati, e non esserci potuti essere proprio nel momento più difficile.
Ora invece parlo davvero di me.
In questi mesi mi è capitato di sentirmi con alcuni amici coi quali mi sento raramente. Amici prevalentemente d’infanzia, o di gioventù, che si sono fatti sentire con più costanza sapendomi nel cuore della pandemia. Ci siamo sentiti al telefono, abbiamo fatto videochiamate su Whatsapp, feste di compleanno su Zoom. Un senso di nostalgia era lì, presente nell’aria, come un constatare che stiamo invecchiando, che magari in alcuni casi certe incomprensioni, o più semplicemente l’aver deciso più o meno consapevolmente di percorrere strade che ci avrebbero allontanati, non solo fisicamente, fossero svanite, cancellate con una mano di calce. Più che nostalgia, forse, dovrei parlare di malinconia, ma sono cosciente che non è esattamente la cifra che maggiormente mi caratterizza, quindi per qualcuno potrei anche essere poco credibile nello star qui a parlarne.
Con alcuni di questi amici ho suonato in band, quando ero ragazzino. La musica, come il calcio, è sempre stata la mia passione, ancora prima di trasformarla come parte del mio lavoro, normale che i miei amici siano prevalentemente persone con le quali ho suonato. Con alcune, penso a Simone, che in realtà è uno degli amici che ancora frequento con costanza, per quanto sia possibile frequentare amici che vivono in altre città, lui nella nostra Ancona, io a Milano, ho anche suonato qualche canzone dei Pooh, entrambi piuttosto appassionati della band, come del resto anche Alessandro e Gianmarco, che con noi suonavano nel gruppo di cui già nell’altro lock down mi sono trovato a raccontarvi. Gianmarco, che nella GS Band, così si chiamava, suonava la chitarra, era talmente patito di Dodi Battaglia da essere andato dal barbiere con una foto di quest’ultimo e essere tornato a casa stempiato, aveva tipo diciassette anni, per potergli in qualche modo somigliare, per capire di che tipo di passione stiamo parlando. Simone è venuto da me a Milano per andare insieme a vedere l’ultimo concerto dei Pooh a San Siro, come fossimo di colpo tornati i ragazzini che li andavano a vedere quando venivano a suonare nelle Marche.
No, non è di questo che voglio parlarvi. Vorrei, ma so di non riuscirci, conosco i miei rari limiti, provare a farvi capire la potenza che il suonare con qualcuno ha. Che cosa significhi decidere, da ragazzino, di passare ore e ore dentro una stanza cui qualcuno, noi stessi, ha attaccato i cartoni coi quali si vendono le uova, convinti che tanto basti a non far arrivare al primo giro di basso i vigili o i carabinieri, chiamati da un solerte vicino, mentre i nostri altri amici, i nostri coetanei, se ne stanno in giro, a passeggio, o al pub. Vorrei provare a spiegarvi il valore anche sociale che suonare con gli altri comporta, una band ha sì dei leader, è evidente, anche se i Pooh, con quella divisione paracomunista dei ruoli, le suddivisioni anche delle canzoni, in qualche modo hanno messo in crisi questo vecchio principio, una band ha sì dei leader, ma le canzoni sono tali solo se tutti fanno la loro parte, la sezione ritmica lì a tenere il tempo, gli strumenti di accompagnamento a sostenere l’armonia, i solisti a intrecciarsi con la voce del cantante, a costruire la melodia e a sorreggerne il tessuto. Un po’ come in una squadra di calcio, dove c’è il bomber, ma senza che nessuno gli passi la palla, a meno che il bomber non sia Ibrahimovic, difficilmente si arriverà al goal, e altrettanto difficilmente non se ne prenderanno, di goal. Chi suona in una band, come in un racconto sulla giovinezza di Stephen King, è come se si legasse con un patto di sangue, insieme si possono sconfiggere anche i mostri più tremendi, si può salvare il mondo.
Parlo ancora di me, ma sposto l’azione e il racconto da un’altra parte.
Il primo giorno che sono tornato nella mia città, Ancona, dopo la fine del lock down, sono andato a un funerale. Non potevo non andarci. Siamo tornati e ci siamo andati. Era il 18 luglio. Il lock down è finito il 4 maggio, ma con la mia famiglia siamo scesi nelle Marche a metà luglio. Era il funerale della mamma di Paolo, Roberto e Sara Bartola, più volte anche in queste pagine mi è capitato di citarli, Roberto è stato il bassista della band punk nella quale ho militato a metà degli anni Novanta, gli Epicentro, e Paolo è stato, insieme all’altro mio amico Stefano Renzi, il maggior pusher di album di qualsiasi sfumatura di rock della mia gioventù.
La morte di Vittoria, così si chiamava la loro mamma, mi ha molto colpito, non poteva essere altrimenti. Ho abitato a lungo nello stesso palazzo dei Bartola, dopo il terremoto che ha devastato Ancona nel 1972, eravamo e credo siamo ancora oggi di famiglia, seppur le nostre vite si svolgano in luoghi diversi. Era stato in occasione della morte del loro papà, nel 1993, che ero rientrato nella band degli Epicentro, perché nonostante che ci si frequentasse poco, io nel mentre avevo cambiato quartiere, la malattia fulminante che aveva colpito Alessandro, così si chiamava, ci aveva immediatamente riavvicinato, e da quel momento per qualche anno non ci saremmo più staccati.
Qualche anno prima, con Roberto, Giacomo, altro amico sin dai tempi dell’asilo, e Massi Di Prenda, avevamo pensato di mettere su una band. Poi Massi era passato a suonare con altri, Giacomo aveva momentaneamente smesso di suonare. Quindi io e Roberto avevamo coinvolto Michele Prosperi alla batteria e Emanuele Gissi alla voce, io mi sarei occupato della chitarra e Roberto del basso.
Ho già raccontato questa storia, non intendo farlo nuovamente, non qui. Nei fatti avevo lasciato la band, come John Frusciante, e dopo la morte del papà di Roberto, ero rientrato, seppur fosse presente in line-up Marco Ripesi, anche lui chitarrista. La prima occasione di suonare è stata dopo poco più di un mese, a Cittadella Live, incidentalmente lo stesso evento nel quale avrebbero mosse i loro primi passi anche i Negramaro, anni dopo. Su un palco posto su tre piattaforme rialzate, molto alla Pooh, mi viene da dire oggi, abbiamo suonato il nostro cavallo di battaglia, Pentiganò, e non ricordo che altra canzone. Pentiganò è una canzone che parla, il testo lo avevo scritto io anni prima di getto su un cartone, proprio della vicina stronza che appena iniziavamo a suonare in una cantina insonorizzata evidentemente male, scendeva a dirci di smettere. Per la precisione il testo parlava della nipote della signora, non in maniera molto lusinghiera. Su quel palco, ricordo, ho per tutto il tempo suonato facendo il passo dell’oca, come fossi Chuck Berry, dimostrando una spavalderia che in effetti ancora oggi, nonostante gli anni e la vita, mi riconosco. Marco, l’altro chitarrista, aveva passato l’ora prima di salire sul palco a vomitare con la testa infilata nel cesso, per la tensione, ciò avrebbe sancito chi dei due sarebbe stato poi il chitarrista della band.
Ma non è della band che voglio parlarvi. Bensì del funerale di Vittoria Bartola. A lungo ho scritto, anche su queste pagine, anche nel precedente diario, dell’idea di rimettere insieme la band. Una band che non ha mai inciso nulla, sia chiaro, ma che in qualche modo è ancora ricordata, almeno in quelle zone. Oggi ho una popolarità che allora, ovviamente, non potevo avere, ho anche tanti amici che potrei coinvolgere in un qualche tipo di evento o di tributo, pensa chiamare Red Canzian a suonare in una nuova versione di Pentiganò, per dire. Ne abbiamo anche parlato con Roberto, il solo della band col quale ho ancora rapporti, ma non se ne è mai fatto niente. Poco dopo lo scioglimento della band, infatti, ho scritto un romanzo, Anime @ Losanghe, il mio terzo romanzo, che riprendeva le vicende della band, ovviamente romanzandole, cosa che però ha creato dissapori. Colpa mia, che davo per scontato che quel che avevo in mente fosse chiaro anche agli altri. Ho continuato a farlo da allora, anche oggi, anche qui. Parto da un fatto reale, lo romanzo, lo uso per dire altro. Parlo di me romanzandomi, facendo del mio nome, della mia faccia, una maschera, un personaggio, lo faccio con la mia famiglia, lo facevo anche in quel romanzo, anche mia madre si offese molto con me, lo faccio con gli artisti di cui scrivo. Traslo, sublimo, non sono un cronista, non mi interessa fare cronaca. Per questo non ho più parlato con Michele e Emanuele, e del resto non ne ho neanche più avuta occasione.
Michele vive ancora in Ancona, guida un furgone per una ditta di spedizioni, Emanuele credo viva a Genova, ha un ruolo dirigenziale presso i vigili del fuoco. Pensare di rimetterci insieme, così, di colpo, avrebbe dovuto richiedere troppi sforzi, e in tutti i casi l’essere in posti diversi non ha aiutato.
Anche il fatto che io non abbia mai chiesto esplicitamente chiesto scusa, immagino.
Ma al funerale di Vittoria, con le mascherine, certo, con il dolore negli occhi, c’eravamo di nuovo tutti. Tutti insieme nello stesso momento, come in quell’ultimo concerto a Martin Sicuro, agosto 1994, giudice di giuria del concorso cui stavamo partecipando Mimmo Locasciulli, dietro il mixer Goran Kuzminac, che proprio in quell’occasione incontrerà Locasciulli che di lì a breve gli produrrà il suo album Fragole & Pugnali, sarà lo stesso cantautore abruzzese a raccontarmelo, in occasione di un’intervista, ecco, pensa a chiamare Locasciulli a suonare con noi in Pentiganò, torno a fantasticare.
È stato proprio Roberto a dirmelo, nel momento in cui ci siamo abbracciati, alla fine della cerimonia, il suo solito modo leggero di provare a sdrammatizzare, “hai visto, possiamo riformare la band, siamo tutti qui”, per altro andando a tirare in ballo i Blues Brothers, lì in una chiesa, citazione che però immagino sia stata involontaria. Riformiamo la band, forse per provare a ricreare una situazione familiare, volendo anche rassicurante, la musica come cura, o in assenza di cura come palliativo. La volta scorsa aveva funzionato, se non per Roberto, almeno per me, non colpito da un lutto, ma comunque tormentato dal non avere capito ancora quale fosse il mio posto nel mondo. A questo serve, in fondo, l’amicizia. A questo, anche a questo, serve suonare in una band, da ragazzi.
La band non l’abbiamo riformata.
Ci siamo salutati, con Michele e Emanuele, ma senza trasporto. Con distacco, credo. Senza dirci una parola, uno sguardo e un cenno di mano, le mascherine a coprire eventuali sorrisi.
Le vite che abbiamo incrociato, tanti e tanti anni fa, sono ormai ricordi lontani per tutti. L’unico che ha continuato a suonare è Michele, con diverse band, una delle quali, i Jesus Franco and the Drogas, anche con ottimi riscontri di critica. Ma non siamo più quella cosa lì. La vita perde pezzi, appunto, pur lasciando segni difficili da dimenticare.
Con Roberto mi sono incontrato il giorno del compleanno di Lucia, mia figlia, l’8 agosto, in centro. Ci siamo detti che ci saremmo visti per una birra, ma poi non è successo. Ci siamo scritti qualche volta, per sapere come andassero le cose, e lo stesso è successo con Paolo. L’amicizia ha bisogno di dedizione, di applicazione, ma se un’amicizia è stata costruita bene è capace di risvegliarsi dal sonno all’improvviso, di riavvolgere nastri, di tornare al punto nel quale si era fermata.
Non so perché sto scrivendo queste parole, oggi, decisamente troppo malinconiche per i miei soliti registri. Zero ironia. Zero cavalli che affogano dal culo. Solo una patina di malinconia. Forse perché voglio scacciare via il pensiero di una morte in solitudine, una delle decine di migliaia di morti in solitudini, farà notare il solito cagacazzi, sì, una delle decine di migliaia di morti in solitudini, quella di Stefano D’Orazio nello specifico.
L’amicizia, o il pensiero dell’amicizia è una fetta di torta che ci offre un pasticcere ostinato con la faccia di Lyle Lovett, andatevi a rivedere America oggi di Robert Altman, o una tazza di cioccolato caldo preparata da Paolo Bartola, noi ancora bambini, Vittoria di là, a preparare biscotti troppo duri da mangiare.