Per un attimo, neanche troppo breve, quindi tecnicamente non per un attimo, ma per qualche ora, ho sperato che alle elezioni presidenziali americane vincesse Trump.
Fermi tutti, non mi sono bevuto il cervello, non voglio fare il bastian contrario e soprattutto non ho cambiato idea sulla politica e sul mondo, resto sempre al mio credo anarchico, l’unico presidente USA che riuscirei a concepire è Jello Biafra e continuo a essere il ghepardo di una volta, ma per qualche ora ho sperato che vincesse Donald Trump perché dentro me stesso mi auguravo che questo non potesse che essere il segno più chiaro e evidente dell’imminente fine del mondo. Abbiamo così tante volte parlato di Apocalisse, negli ultimi mesi, che quasi la stiamo cominciando a guardare con gli occhi benevoli di chi sente qualcuno o qualcosa come a se vicino, familiare. Certo, ci hanno messo del loro Neil Gaiman e Terry Pratchett, con quel capolavoro di Good Omens, e in qualche modo anche i fratelli Winchester di Supernatural, ma credo che a furia di camminare su un campo minato sia facile imparare a convivere con l’idea di saltare in aria, pericolosamente facile.
Invece l’Apocalisse è l’Apocalisse, qualcosa di definitivo, radicale, violento, devastante. Ci sono gli angeli con le spade infuocate, la Signora che schiaccia la testa al serpente, che smembra il drago. Non si lavora di fioretto, durante l’Apocalisse, ma di sciabola e fiamme, alla fine non ci sono prigionieri, solo morte e distruzione.
Ecco, Donald Trump che prende i voti di quelle minoranze che ha bullizzato e marginalizzato per tutto il suo mandato, e che a dispetto di una campagna elettorale rovinosa, una gestione della pandemia se possibile ancora peggiore, riesce a vincere su Biden, di certo non esattamente il cavallo più in forze da contrapporre a quel pazzo dai capelli arancione, ma comunque sicuramente più presentabile di lui, anche un idrante lo sarebbe stato, mi sembrava esattamente il corrispettivo dei quattro cavalieri che solcano i cieli pronti a fare piazza pulita di tutti.
Invece Biden alla fine ce l’ha fatta, lasciandoci intravedere un futuro di monopattini elettrici e cultura hispter lì dietro l’angolo.
Io che immaginavo scenari degni di una nuova serie di Sons of Anarchy, brutti ceffi vestiti di cuoio lì a festeggiare sparando in aria con i loro fucili a pompa per festeggiare il secondo mandato al loro politico di riferimento, immagini per altro non troppo differenti da quelle che nelle ore precedenti alla proclamazione ufficiale di Biden abbiamo visto arrivare da alcuni stati del sud o del midwest, mai viste così tante auto con teste di cervo o corna di bufalo attaccate al cofano dai tempi dei video di Molly Hatchett, io nel mentre mi ero rispolverato, appunto, tutta la discografia delle tanto amate band di southern rock, da Lynyrd Skynyrd agli Allman Brothers pensando fosse destinata a essere la colonna sonora del nostro futuro prossimo. Confesso che Duane Allman e Ronnie Van Zandt, rispettivamente chitarrista degli Allman Brothers e cantante dei Lynyrd Skynyrd, tenete conto che entrambi sono morti giovani, il primo in un incidente di moto, a bordo di una Harley Davidson, il secondo, che nel mentre aveva dedicato al primo il capolavoro assoluto Free Bird, in un incidente aereo, il destino sa essere cinico e evidentemente non ha mai amato molto il southern rock, tenete conto che entrambi, dicevo, sono tra i miei eroi di riferimento, non dico modelli di vita, ho superato l’età in cui sono morti, e ho vissuto una vita decisamente meno impetuosa, ma comunque artisti che molto ho stimato e ascoltato, come ho ascoltato tanto e tanto e tanto ancora altre realtà più ricercate, lasciatemi passare un termine del genere anche in un contesto così poco ricercato, siamo sotto pandemia, posso usare un metro un po’ più ampio, Blackfoot, Outlaws e the Marhsall Tucker Band, magari uscendo anche dalle maglie strette del genere, con incursioni in realtà come i Black Crowes dei giganteschi fratelli Robinson o i mai abbastanza celebrati ZZ Top, ingiustamente più citati per le loro barbe che per le loro chitarre. Tutta gente che, avesse vinto Trump, avrebbero avuto una seconda estate, mentre la vittoria di Biden ci porta a ipotizzare un futuro fatto di pop patinato e di artisti mainstream dai modi garbati e politicamente corretti.
Ci avevo creduto. Non ci avevo sperato, dai, scherzavo, ma lo avevo temuto e visto che siamo nel 2020 non me ne sarei affatto meravigliato. Mi sarei adeguato ai fatti, come ormai ci siamo abituati a fare di fronte a tutte le anomalie che questo anno di merda ci presenta di fronte.
Non dico che mi fossi già fatto crescere i baffi a manubrio alla Lemmy, o che fossi corso a tatuarmi due carabine dei confederati incrociate sopra una bandiera con la scritta in un qualche font gotico che recita il classico The South Will Rise Again sul bicipite destro, ma mi stavo comunque organizzando in tal proposito, perché nella vita, questo la pandemia nella quale siamo piombati ormai otto mesi fa ce lo ha spiegato anche troppo bene, è sempre bene essere previdenti, fare oggi i passi che domani si potrebbero rivelare fondamentali.
Non è mica un caso che ho il freezer pieno di cubetti di lievito di birra, e che nella credenza di legno della cucina, quella che un paio di anni fa ho dipinto io di azzurro, perché sono un uomo di intelletto, ma non disdegno il bricolage, ho anche una razione di lievito madre liofilizzato, come non è un caso che a discapito di quanto le regioni e il governo hanno fatto rispetto ai mezzi di trasporto, qui in casa si sia pesantemente rinforzato il settore device, così da non farci trovare impreparati dalla malefica didattica a distanza, didattica a distanza che per ora ha toccato solo i due figli grandi, li ricorderete, Lucia, che per altro qui su Optimagazine firma con me le pagelle di X Factor, e Tommaso, rispettivamente diciannove e quindici anni, entrambi hanno compiuto gli anni durante l’estate, ma che temo presto riguarderanno anche i più piccoli, i gemelli Francesco e Chiara, anche loro gli anni fatti dopo la fine del lock down, nove per la precisione. Non che il comprare scorte di lievito o un PC e un talbet sia gesto particolarmente eroico o complicato, al punto da farne vanto sulle pagine di un diario pubblico, ma di fatto per riuscire a comprarmi un PC ho dovuto in effetti fare qualche numero, perché, mi ha spiegato un commesso della MediaWorld nella quale ero andato di domenica, uno dei soli due punti vendita che erano usciti illesi dall’ordinanza regionale che aveva già chiuso tutti i centri commerciali della Lombardia, da che si è sparsa voce di un imminente lock down tutti sono corsi a rifornirsi di device, col risultato che non ne sono più rimasti sugli scaffali dei negozi, se non qualche MacBook da qualche migliaio di euro. Zero Notebook, giusto qualche Chromebook sulla cui natura mi sto ancora interrogando, ma che comunque il commesso mi ha sconsigliato. Un mondo dove non è il pane a mancare dagli scaffali, ma i PC è roba degna di Phil K. Dick, mi sono detto, mentre lo compravo su Amazon, maledicendo ovviamente Bezos, Soros, Bill Gates, i negazionisti, i cinesi, il Covid e tutto quello che in qualche modo entra in un qualsiasi storytelling sul virus che ci sta devastando psicologicamente oltre che pneumologicamente.
Ora, da un punto di vista tecnologico siamo pronti. Anche da un punto di vista di scorte, almeno per quel che riguarda lievito e altri prodotti non commestibili senza essere in qualche modo trattati, perché per il resto l’idea di fare una qualsiasi cambusa è assolutamente da escludere, quattro figli, ma specie il figlio di quindici anni, sarebbero capaci di mangiarsi in un paio d’ore anche le scorte di un intero esercito, non solo incapaci nonostante quel che stiamo vivendo da qualche mese, di capire cosa significhi essere previdenti, ma addirittura felici di spazzolare tutto quello che capita loro a tiro, a costo poi di avere mal di pancia o anche peggio.
Quello nel quale non siamo assolutamente pronti è l’aspetto mentale. La sola idea di quel che ci aspetta, che l’altra volta poteva addirittura avere tratti esotici, inusitati, non fosse per la paura e per il dolore di saperci circondati da morte e disagio, ma stavolta ha la faccia imparata a memoria di certi cattivi dei telefilm, di quelli che fanno del male per il piacere di fare del male, magari uccidendo proprio i personaggi cui siamo più affezionati, questa sola idea ci atterrisce, ci pietrifica, ci immobilizza. Come quando dobbiamo tornare dal dentista dopo solo una settimana dall’ultima volta che ci ha trapanato un dente, toccandoci un nervo, il subconscio non ha ancora fatto in tempo a cancellare tutto. No ricordiamo tutto. Sappiamo tutto. Sappiamo troppo. Sappiamo a cosa stiamo andando incontro, con in più l’aggravante di andarci già stanchi e sfiniti, perché al disagio non ci si allena, non è una faccenda meccanica, questa, il fiato più corto, meno soldi in banca, la prospettiva non di una primavera e quindi un’estate davanti, ma una fine autunno che non può che preludere a un inverno di merda.
E quindi torno all’incipit di questo secondo capitolo del mio diario della pandemia, quello che state leggendo ora, quel mio evocare la vittoria di Trump non per un mio credo politico nel capitalismo spinto e scellerato di quello che è stato probabilmente il peggior presidente degli Stati Uniti, e sappiamo che una nazione che ha avuto come presidente gente come i due Bush, Reagan, Nixon, ma anche un Jimmy Carter, non è che gli abbia lasciato questa onoreficenza così a cuore leggero, ma per quella mia balzana idea che tutto ciò avrebbe indicato una imminente fine del mondo, roba da angeli con le trombe e maree di persone nude pronte a farsi giudicare dal grande triangolo con dentro l’occhio, vedi alla voce Dio.
E tornando all’incipit torno anche al rock sudista, gente con abiti da cow boys, stivali di pelle di coccodrillo, lunghi capelli nascosti sotto cappelli a larghe tese, chitarre elettriche ti taglio classico e pubblico osannante pronto a correre a ogni loro concerto, manco fossero i Grateful Dead o la Dave Matthews Band.
Le chitarre, nello specifico le chitarre elettriche, sembra che al momento siano il solo legame tra me e il passato, o almeno tra me quello che nel mio passato remoto, quello che cioè stava lì prima del Covid19, ipotizzavo fosse la sola strada percorribile per provare a salvare il malconcio mondo della musica attuale.
Quando io, prima che anche il resto del mondo di colpo si sintonizzasse sulle tante problematiche della pratica Spotify, ultimo motivo di lamentazione planetaria la faccenda dell’abbassamento di royalities, già bassissime di loro, in cambio di una maggiore visibilità dentro le tanto famose Playlist, indicavo nello streaming e in tutto quello che lo streaming rappresenta, una delle rappresentazioni del Male, esattamente alla stregua di Trump, dicendo come l’aver affamato gli artisti, imbruttito il concetto di ascolto, spinto orde di sedicenti artisti a abbassare non solo il livello delle loro produzioni, questo era quanto lo streaming chiedeva, ma addirittura a comporre canzoni sempre più scadenti e simili alle altre perché basate sulle poche sfumature che lo streaming consente, frequenze medie, niente dinamica, né alti né bassi, ecco, mentre io facevo tutto questo, contrapponendo a questo la musica suonata davvero, semplifichiamo il tutto in un fantomatico analogico vs digitale, ecco, mentre succedeva tutto questo, e mentre i tanti, troppi addetti ai lavori belavano festanti alla corte di Daniel Ek, tutti felici di avere musica gratis sempre e ovunque, poco importa che era solo musica di merda, da qualche parte qualcuno deve averla pensata né più né meno come me. Perché, pensate voi, lo ha detto addirittura Manuel Agnelli a X Factor, uno che nel mentre ha anche detto che Bomba di Vergo è una bella canzone, quindi magari non esattamente la persona più credibile nel pianeta Terra, oggi come oggi sembra ci sia stato un ritorno delle tanto amate sei corde, specie di quelle attaccate a un amplificatore e possibilmente con un bel distorsore a metà strada tra esso e la chitarra che quelle corde ospita. Lui, Manuel Agnelli, Dio abbia davvero pietà di lui, ne parlava a proposito di una delle sue band, sue in quanto giudice di quel talent, nulla a che spartire con gli Afterhours, i per altro apprezzabili Little Pieces of Marmelade, con tanto di errore ortografico, duo hardcore proveniente dalle mie parti, da quella Filottrano che ha regalato al mondo i fratelli Marino e Sandro Severini, cioè la Gang, e faceva riferimento alle band che imperversano nel resto del mondo, nelle classifiche del resto del mondo, da noi imperversano i Tha Supreme, gli Ernia e quella robaccia lì, gente come gli Idles, i Fontaines D.C., gli Shame, tutte band che hanno una matrice decisamente chitarrista, anche se votate a un post-punk che con il sourthern rock di cui parlavo prima nulla a che spartire. Il suo intento, seppur in un contesto che di nobile nulla ha, era alto, come dire: guarda che le chitarre tornano di moda, sempre che ne siano mai uscite. O sempre che ci siano mai diventate, di moda, si potrebbe anche azzardare, perché chitarre e moda, diciamocelo, non è che dalle nostre parti siano mai state poi così strette. Di fatto anche da noi un Bruce Springsteen, non certamente col suo album più rock, è tornato in vetta alla classifica, lui che è il primo artista a essere entrato in Top Ten per qualcosa come sei decenni di fila, fatto che, complice l’anagrafe, nessuno aveva realizzato prima di lui, ma di qui a gridare al miracolo ce ne corre, non fosse altro che perché nella medesima settimana sotto di lui, lì in vetta, c’era una pletora di trapper e rapper che avrebbero tolto la voglia di alzarsi in sforbiciata anche all’Ibrahimovic di questi tempi.
Chiaro, se l’idea deve essere purché non sia trap o quella roba che oggi spacciano per rap esaltiamoci anche per Idles o Fontaines D.C., ovvio che mi esalto anche io, se serve mi metto pure a pogare, prendendo tutti a calci coi miei vecchi anfibi, roteando i capelli, magari facendo poi ricorso alla benevolenza che non si può non avere per chi, come me, come noi, vive da così tanti mesi nel bel mezzo di una pandemia. Ma se posso scegliere, e grazie a Dio ancora la lucidità per scegliere mi rimane, preferisco di gran lunga esaltarmi per le chitarre che si inseguono per assoli lunghi anche sette o otto minuti del buon vecchio southern rock. Come dire, alle barbe curate da fighetti dei Fontaines D.C. preferirò sempre quelle lunghe e selvagge di Chris Robinson, i baffi a manubrio di Duane Allman, quella rada di Ronnie Van Zandt, non che la barba lunga sia indice di rockitudine, forse, ma anche sì.
Comunque Biden ha vinto, Trump farà i suoi ricorsi alla sua Corte Suprema, è lui che ha sostanzialmente deciso sei noni dei componenti, presumibilmente non ottenendo altro che ricoprirsi ulteriormente di ridicolo e mettendo in imbarazzo quella si ama descrivere come la più grande democrazia del mondo, talmente grande da aver molto spesso tentato di imporla a paesi considerati meno civilizzati sotto diluvi di bombe, va detto quasi sempre sotto governi democratici, entro sei mesi a sostituire il presidente meno dotato di personalità dai tempi di Jimmy Carter arriverà la sua vice Harris, prima presidente donna, per di più pure afroamericana, si potrebbe dire tutto è bene quel che finisce bene. Non fosse che ci siamo persi i festeggiamenti a base di barbecue giganteschi e lanci di nani, magari gli stessi nani che abbiamo visto deambulare in triciclo vestiti da Napoleone alla festa di inizio lock down al Just Cavalli di Milano, vallo a sapere, lasciando che gli sputatori di tabacco con le corna da buffalo sul pick up tornassero alle loro attività principali, studiare come costruire bombe capaci di radere al suolo palazzi a base di diserbante e inneschi fatti con Nokia 3310, e soprattutto che seppur senza questo chiaro segno profetico l’Apocalisse è sempre lì, sul punto di arrivare. Allora, visto che Apocalisse è, almeno noi ci premuriamo di chiamare le cose col proprio nome, non come il governo che impone un lock down e non lo chiama lock down, eccomi qui a consigliarvi una canzone da sparare fuori dal balcone come giusto benvenuto ai cavalieri, alla Signora e agli angeli con le trombe. Si tratta di una cover di God of Thunder dei Kiss, ma nella versione potentissima e sensuale della band aliena Sick ‘n’ Beautiful. Sentite come Herma, cantante della band rimasta come noi bloccata su questo maledetto pianeta sul punto di implodere rende omaggio ai quattro rockettari mascherati, e provate a non avere voglia di scendere in strada a ballare, complice l’oramai quasi totale assenza di auto. Certo, il nome Sick ‘n’ Beautiful, oggi, suona sinistro, ma la canzone invece suona davvero alla grande. Perché noi siamo sicuri che il sud risorgerà, certo, ma crediamo anche saldamente nel rock.
PS
Mi sono autoimposto di non parlare più di morte. O almeno di non parlarne troppo. Senza che ce ne accorgessimo anche lo storytelling del Covid ha iniziato a parlarne meno, nessuno ha sottolineato quando siamo passati dai “35000” morti agli “oltre 40000”. Da tempo ho praticato l’esercizio di tenermi alla larga dai commiati sui social, anche quando muore un artista che ho particolarmente a cuore, o particolarmente in stima. Al limite posto un video, una sorta di omaggio silenzioso, una candela accesa.
Ma la notizia giunta nella notte della morte di Stefano D’Orazio, definirlo il batterista dei Pooh sarebbe davvero ingeneroso, mi ha colpito davvero molto. Il motivo per cui tendo a non voler più prendere parte dai necrologi online è che spesso, troppo spesso, si finisce per parlare di sé nel momento in cui si parla di chi se n’è appena andato (già più volte ho scritto di come le parole che in genere si utilizzano per parlare della morte mi lasciano pietrificato, lasciare, andarsene, scomparire, mancare, non essere più tra noi). Zerocalcare ci ha scritto su tutto quel che c’era da scrivere.
Ma è pur vero che la morte di un artista particolarmente amato, e Stefano D’Orazio, come i suoi amici per sempre dei Pooh era e è molto amato, a ragione, è un lutto reale, non fittizio, e parlare di sé quando muore un artista amato ha lo stesso senso che ha cercare ricordi di un proprio caro quando non è più tra noi.
Non mi lascerò però andare a ricordi personali. Non ho le energie per farlo. Provo un senso di angoscia, quello sì, di lutto.
Dico solo che questo 2020 ci sta letteralmente portando via tutta la vita che avevamo prima, un pezzo alla volta. La morte di Stefano D’Orazio, settantadue anni morto per Covid, lui che in primavera aveva scritto il testo di Rinascerò rinascerai, la canzone che il suo compare Roby Facchinetti ha dedicato alla sua Bergamo, città ferita dalla pandemia, uno dei Pooh, la nostra band più amata, senza se e senza ma, è la morte di un pezzo della nostra vita, letteralmente. Mi stringo al dolore dei suoi cari. Mi stringo al dolore di tutti noi.