Pensate a una maschera veneziana. Una di quelle belle, che magari avete appesa da qualche parte in casa vostra, ricordo di un vostro viaggio o del viaggio di qualche vostro caro. Una maschera elegante, ornata con fili dorati, il profilo affilato.
Poi pensate a una maschera meno elegante. Una maschera buffa, sicuramente, ma anche un po’ inquietante. La mia.
Ecco, depongo per un attimo la maschera, svesto i panni che, più o meno consapevolmente, sono solito usare quando scrivo. Non perché io sia parte di una commedia dell’arte, ma perché la scrittura e la critica musicale, oggi, credo, nel tempo dei social e del dover apparire, comporta giocoforza. Una maschera che ho costruito negli anni, provando a far intravedere, spero in maniera compiuta, quel che stava sotto, me stesso.
La depongo, e vi chiedo di seguirmi, perché aver parlato di Venezia e delle maschere non era un espediente tirato in ballo così, a caso.
Ieri ho incontrato Red Canzian. Non lo vedevo da mesi, se non in video. Non vedo quasi nessuno di color coi quali in un momento normale mi vedrei, artisti, colleghi, addetti ai lavori. Vivo isolato, e questo è in parte anche effetto di quella maschera, l’asociale outsider che preferisce starsene in disparte per poter dire la sua. Ma in questo anomalo anno infausto vivo isolato un po’ come tutti. Certo, mi sono tenuto alla larga dalle conferenze via Zoom, non frequentavo neanche quelle di persona, figuriamoci l’appeal che può avere su di me l’idea di star lì davanti a un tablet a sentire male quel che dicono i rari artisti che tirano fuori qualcosa, e in alcuni casi, ve l’ho raccontato, questo mio starmene alla larga è figlia di inviti mai ricevuti. Ma per prassi ho passato gli ultimi anni incontrando artisti, andando per studi di registrazione, per sale prove, ho ascoltato lavori in fieri, privilegio, certo, ma anche mestiere. Ho anche passato un sacco di tempo al telefono, a parlare del più o del meno con chi di questo ambiente è parte, anche questo è lavoro, so che può non sembrare, ma così è. Nelle ultime settimane anche quelle sono finite. Il settore è in affanno, non ci si sente più perché si è in difficoltà a dirsi che non abbiamo certezze per il futuro, che non sappiamo cosa succederà. Non ci sono progetti.
Red Canzian ha un progetto. Un progetto bellissimo. Un progetto cui sta lavorando da un paio di anni, me ne ha parlato, di persona, agli albori, ha continuato a raccontarmelo strada facendo, ieri mi ha incontrato per farmelo ascoltare e, per quel che era possibile, vedere.
Torno alla maschera, poi giuro che sarò più concreto, meno emotivo. L’affanno del settore dello spettacolo, dicevo prima, è quello di stare fermi, pietrificati da un ministro che dice a chi prova a farsi sentire “voi non avete capito la gravità della situazione”, mortificato dalla risposta di Conte al maestro Muti, solo a lui, perché i Bauli in piazza o chiunque altro abbia provato a chiedere conto di chiusure improvvide e inutili, ma è anche quello di non sapere quando tutto questo finirà, sorte condivisa col resto del mondo, certo, l’impossibilità di fare progetti, di avere visioni, di sognare. Ora, non voglio fare distinzioni poetiche, non servono, non servono affatto, ma chiedere a chi ha fatto della propria creatività, della propria capacità di sognare, di smettere di farlo è qualcosa di avvilente. Non che qualcuno lo abbia fatto esplicitamente, ma il non dire quel che si sa, il non ipotizzare reali ripartenze, questo impone. L’assenza di progettualità è forse al momento il peggior nemico del settore, non ti senti con nessuno perché nulla hai più da dirti.
Red Canzian ha scritto un’opera. L’ha chiamata Opera Pop, o meglio, questo è il sottotitolo, la modalità con la quale verrà depositata, rubricata, ma nei fatti è un’opera e basta, al pari di quelle composte dei maestri della lirica. È pop perché quello è il suo mondo di appartenenza, non certo un mondo minore, ma sappiamo bene che al Pop molti hanno guardato e guardano con spocchia, ma ha un respiro, ve lo giuro, l’ho ascoltata nelle due ore della sua interezza, che la innalza ai livelli di quelle opere per le quali siamo giustamente considerati la patria della lirica nel mondo. L’opera Pop di Red Canzian si chiama Casanova, torniamo all’incipit di questo pezzo, e racconta la storia del noto personaggio veneziano. In realtà non è vero. Non racconta solo quello, affatto. Partendo da un passaggio della vita di Giacomo Casanova, romanzato, tratto dal libro di Matteo Strukul, Casanova è un inno bellissimo e di ampio respiro alla Venezia che fu, e per ovvi motivi alla Venezia che è, impigliata com’è la Serenissima nel suo passato. Non voglio spoilerare nulla, non è questa la sede e conto che, a tempo debito, andrete a vederla, ma giuro che nulla sapevo di Casanova, se non che fosse un donnaiolo impenitente, motivo per il quale in Italia e nel mondo il suo nome è sinonimo di questo, ma nelle due ore di musica e parole, è un’opera, ripeto, la narrazione è affidata quasi totalmente alla musica e alle parole cantate, solo qualche dialogo a fare da trait d’union, ho imparato qualcosa che ignoravo, e rinfrescato passaggi che avevo dimenticato, caspita, ho studiato Storia Moderna all’Università, sono davvero invecchiato.
Quello che però mi ha colpito, oltre alla qualità artistica elevatissima dell’opera, che Red fosse un grande artista non è certo una scoperta di ieri, ha quegli oltre quarant’anni di carriera lì a farci da promemoria, ma stavolta si è superato davvero, fidatevi, è la forza dirompente di questo progetto. Un progetto ambizioso, spavaldo come in effetti era Casanova, con un taglio internazionale e evidenti potenzialità internazionali, Venezia è un marchio potentissimo nel mondo, e anche il nome Casanova lo è, non bastasse già quello del suo autore, Red Canzian, appunto. L’idea, cioè, che durante una pandemia ci sia chi ambisca a progettare qualcosa di potente, in scena ci saranno ventotto persone, undici i personaggi principali, il coinvolgimento di un regista, un coreografo, i costumi assai interessanti, ripeto non spoliero, il coinvolgimento di una filarmonica, gli arrangiamenti di Phil Merr per il tutto sono qualcosa di eccelso, addirittura di commovente, e anche qui, niente di nuovo, che fosse di talento eccelso già si sapeva, le parole che Miki Porru ha tirato fuori dal romanzo di Strukul, pensate a due ore di libretto, qualcosa come trentacinque brani, di cui ventinove con parole, fossimo davvero in ambito pop le chiameremmo canzoni, ma sono canzoni e sono anche altro. Red Canzian ha costruito un’opera giocando su tanti registri differenti, ci sono arie per una o più voci che si aprono come uno potrebbe immaginarsi da lui, ma ci sono valzer, marce, brani in veneziano, pop-rock incalzanti, ballate, mid-tempo, davvero un’opera mondo, si sarebbe detto in letteratura. Un’opera mondo che esalta non solo la figura di Casanova, mostrandocela in una tridimensionalità che credo non avesse, non solo per me, ma innalza Venezia a monumento nazionale. Ecco, fossi per dire il sindaco della città, o il governatore della regione, starei lì a sfregarmi le mani per l’impatto che un lavoro del genere può avere sulla promozione turistica, oltre che su quella culturale.
Torno all’incipit, però. Casanova, l’opera pop di Red Canzian, è lì, finita, preprodotta, quello ho ascoltato, ora va incisa nella versione definitiva, fatto il cast, le voci sono quasi tutte dello stesso Red e di sua figlia Chiara, nella versione che ho sentito io, versione che ho sentito guardando un lavoro immenso di grafica fatto dallo stesso Red durante il lock down, perché Red è un ragazzino affamato di creatività, ve lo dice un uomo di mezza età che, nei suoi confronti, è un anziano signore. Casanova è finita, e ora deve iniziare a diventare qualcosa di concreto, deve essere montata, il regista deve fare la sua parte, il coreografo la sua, gli artisti che verranno scelti nel casting dovranno entrare nella parte, lo scenografo dovrà rendere quella Venezia lì una Venezia concreta per noi che vi assisteremo. Pensare che qualcuno abbia sognato tutto questo, e lo abbia cominciato a mettere in piedi, giuro, mi ha commosso. Come mi ha commosso tornare a incontrare artisti, e che artista, dopo mesi e mesi al massimo di telefonate, quelle telefonate che a loro volta sono sempre state più rade, fino a scemare del tutto. Credo che mai come in un momento difficile come questo affidarsi all’ottimismo, non certo ottimismo ottuso, di chi nega la difficoltà del momento, parlo dell’ottimismo visionario di chi prova a andare oltre il contingente, guardare al futuro, immaginarsi scenari attraverso la lente filtrata dell’arte, sia necessario. Sia fondamentale, perché la cultura e l’arte, veicoli di bellezza, sono davvero capaci di tenerci in vita, non è una metafora, la mia, parlo proprio di vita vera, vissuta, pulsante.
Salutandolo, ieri sera, ho detto a Red che incontrarlo e poter ascoltare il suo lavoro mi ha reso felice, continuo a tenere per un attimo la maschera lì, appoggiata di fianco al PC sul quale sto scrivendo queste parole. Non l’ho detto per piaggeria, credo che non sarei stato lì a dirglielo se avessi mai praticato la piaggeria, suppongo servisse un parere sincero, non un complimento falso. Posso dire che una volta salito in auto, tornando verso casa prima che il coprifuoco immobilizzasse Milano ho provato un senso quasi di nostalgia per un mondo che potrebbe non tornare più come prima, ci sono troppi presupposti che ce lo fanno pensare. Ma credo fermamente che finché gli artisti continueranno a sognare per noi un qualche esercizio di speranza sia ancora praticabile.